La rima con fegato. O sul perché è inutile attendersi che a essere “punite” siano le forze di polizia

Giuseppe Giusti

“Se invece di legàto si dicesse légato, ecco che avrei trovato una rima con fégato”.
Si racconta che così rispose il poeta Giuseppe Giusti, celebre per la sua abilità nell’avere sempre la rima pronta, a qualcuno che, cercando di metterlo in difficoltà, gli propose di trovare una rima all’unica parola italiana che non ha un corrispettivo in rima, fegato, appunto. L’ho imparato a scuola e immagino sia per questo che mi è tornato in mente adesso, vedendo come, parlando della maestra di Torino, celebre per aver insultato un branco di celerini nel corso di una manifestazione antifascista, si insiste con il dire che mentre quelli che hanno torturato in modo atroce decine di persone a Bolzaneto (penetrando vagine e ani con manganelli e rendendosi responsabili di molti altri innominabili atti di crudeltà e tortura) sono stati promossi, lei viene licenziata; si insite con il dire che mentre quelli che hanno ammazzato a manganellate un ragazzino di Ferrara (“sembrava un albanese”, sostennero le divise per giustificarsi) sono stati ricollocati in servizio, lei viene licenziata; si insiste con il dire che mentre quelli che puntini puntini (inserire a piacere al posto dei puntini uno qualunque tra le molte centinaia di omicidi, spesso a sangue freddo, commessi nell’ultimo mezzo secolo contro militanti politici o migranti o ragazzi di strada o… puntini puntini), lei viene licenziata. Continua a leggere La rima con fegato. O sul perché è inutile attendersi che a essere “punite” siano le forze di polizia

Campi di concentramento a 5 stelle: siamo già pronti ad accettarli nelle nostre città?

Questa storia viene da lontano. Ha a che fare, per esempio, con le immagini di navi stracariche di persone che, negli anni Novanta, arrivavano dall’Albania e con una parola – extracomunitario – che iniziava a diventare di senso comune malgrado la vergognosa disumanità che conteneva. Fioccarono, da allora, leggi speciali: leggi, cioè, impegnate a trasformare in un reato la semplice condizione di ritrovarsi privi di pezzi di carta considerati buoni da chi ha il potere di esprimersi in merito (il potere di decidere sullo stato di eccezione), vale a dire i famosi documenti e i famigerati permessi di soggiorno, vere e proprie autorizzazioni ad esistere erogate a tempo determinato.

Continua a leggere Campi di concentramento a 5 stelle: siamo già pronti ad accettarli nelle nostre città?

BASTARDS: in divisa, ma non per forza poliziotti

Ci si dimentica facilmente che prima di essere condotto al martirio un ragazzo come Stefano Cucchi fu fatto sfilare in un Tribunale. In quel momento era vivo, eppure mostrava già sul volto il segno delle percosse ricevute. Ebbene, come si comportò quel giorno il giudice chiamato a prendere parola sulla droga posseduta dal ragazzo? Ovviamente non ebbe certo gli occhi per guardare in faccia l’imputato, né il cuore necessario a farsi due domande sullo stato in cui questo gli veniva presentato: gli fu sufficiente trincerarsi dietro il codice per avvallare con la sua ignavia – di questo si tratta – l’imminente morte violenta di una persona colpevole di essere stata fermata con qualche grammo di fumo in tasca.

Quando le foto del cadavere di Stefano Cucchi furono divulgate, i muri di tutte le città italiane salutarono l’ennesima infamia compiuta dal personale in divisa al grido di ACAB. E quella scritta resta senz’altro cosa buona e giusta, rispetto a una lista atroce e lunghissima di vittime degli abusi in divisa e anche rispetto alla sostanziale impunità con cui la polizia arriva a uccidere. Eppure quella scritta non basta. E non basta perché illustra soltanto una parte della catena degli abusi compiuti in divisa: fotografa l’istante in cui il manganello cade sulla testa di chi si oppone a un ordine oppressivo ma non parla di chi, questo stesso ordine, lo difende pagato profumatamente, comodamente seduto su uno scranno di velluto e, senza nemmeno doversi preoccupare di farsi un giro per le strade delle nostre città, dietro alla più ipocrita delle frasi: «La legge è uguale per tutti», dice questa frase. E avete mai sentito un giudice esprimere l’onestà intellettuale necessaria per affermare come si tratti di una solenne stronzata?

Gli esempi sulla disuguaglianza economica, raziale e sessuale della legge si sprecano, essendo che tale disuguaglianza, rispetto alla legge e quindi rispetto a un ordine ingiusto, è la norma e non certo un’eccezione. Ma il modo in cui i magistrati si meritano il titolo di ALL BASTARDS contenuto nella scritta già coniata per i COPS non è di tipo essenzialmente passivo. Basta guardare, a tal proposito, quello che sta succedendo a Bologna su iniziativa del procuratore minorile. Al centro della vertenza c’è la lotta per la casa e, di conseguenza, la situazione di emergenza abitativa in cui vivono centinaia di migliaia di famiglie in tutta Italia: che cosa va a raccontare il procuratore a tutti quei genitori che hanno subito il calvario dello sfratto e che hanno conosciuto le notti in macchina e la strada prima di tornare a vedere le stelle grazie alla lotta e allo strumento dell’occupazione abitativa?

«Basta bimbi occupanti, i genitori vanno fermati», titola oggi il dorso bolognese del «Corriere della Sera». E il quotidiano, riportando le dichiarazioni del magistrato, si premura di spiegare come gli occupanti di casa correranno il rischio di vedersi sottrarre i propri figli dalla stessa magistratura se sorpresi nelle case occupate con la propria prole.

Come si commenta una simile affermazione?

La logica, non c’è dubbio, vorrebbe che sia buon senso pensare come gli emissari di uno stato che nega il diritto alla casa, pur previsto dall’impianto del suo diritto, di tutto possa parlare tranne che di «sicurezza» dei minori. La «sicurezza» di cui tutti, minori e adulti, avrebbero bisogno infatti è prima di tutto la sicurezza sociale, cioè esattamente ciò per cui non c’è più spazio dopo che il governo Renzi, completando un lungo ciclo di devastazione del welfare, ha deciso di dichiarare apertamente guerra ai poveri.

Ma la logica non basta a contenere la rabbia che la minaccia di togliere i figli agli occupanti di case è in grado di suscitare. Sui muri delle nostre città sarebbe ora che comparissero scritte che senza esitazione affermino AJAB: tutti i giudici sono bastardi (e anche tutti i giornalisti… l’iniziale è la stessa). Mentre, ancora più urgente, diventa dare corpo e voce possente a simili scritte. Affinché discorsi e azioni indegne come quelle appena riportate vengano respinte nelle pattumiere della storia. Insieme all’età della barbarie a cui gli «abusi in divisa» di simili giudici vorrebbero contribuire a consegnarci.

Piero Bruno: passione e morte di uno studente comunista

22 novembre, giornata storta. Il cielo grigio promette la pioggia e il vento se la prende con chi passa per le strade di Roma, quasi urlando che è meglio per tutti restare a casa. Ci sono giorni, però, in cui la libertà non accetta di restare casa. Non lo accetta l’8 giugno del 1960, tra Catete e Bengo, quando alla notizia dell’arresto di António Agostinho Neto una folla di sostenitori del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA) si mette in marcia reclamando il rilascio del loro leader. E non lo accetta nemmeno in Italia, il 22 novembre del 1975, mentre un corteo di duemila persone affronta il freddo intenso per chiedere a gran voce il riconoscimento dell’indipendenza della nazione africana, uscita vincitrice dal confronto con il regime coloniale portoghese.
L’8 giugno del 1960 l’esercito di occupazione del dittatore lusitano António de Oliveira Salazar aveva aperto il fuoco sulla folla ammazzando trenta persone. A Roma, quindici anni dopo, dalla testa del corteo che si snoda tra piazza Santa Maria Maggiore e piazza Navona si sgancia un gruppetto di giovanissimi militanti di Lotta Continua. I duemila che hanno preso parte alla manifestazione continuano a gridare slogan contro l’imperialismo e a salutare, nell’Angola di Neto, un altro paese in cui il marxismo ha consentito di portare al potere un rappresentante del proletariato. Le parole d’ordine della manifestazione sono musica per le orecchie dei ragazzi che imboccano via Muratori: lì, all’incrocio con largo Mecenate, c’è il cancello dell’ambasciata dello Zaire, uno Stato che attraverso il governo del feroce Mobuto sostiene per conto degli Stati Uniti le forze che si oppongono ai movimenti popolari in Africa centrale. Nell’animo di quel pugno di manifestanti c’è la volontà di andare oltre gli slogan e per questo, istruiti dal servizio d’ordine di Lc, alcuni giovani stringono tra le mani biglie d’acciaio e bocce piene di benzina, l’ingrediente necessario per portare a termine un’azione dimostrativa; una “fiammata”, come si diceva negli anni Settanta, da accendere in faccia ai nemici della Repubblica popolare dell’Angola per fare arrivare fino in Africa il rumore del Movimento e la sua solidarietà.
Idee ambiziose, quelle che girano per Roma il 22 novembre. Idee destinate a restare sull’asfalto. Perché quando il gruppo di ragazzi arriva a intravedere il portone dell’ambasciata dello Zaire si sente gridare: «Eccoli! Eccoli!».
Non c’è nemmeno il tempo di indietreggiare. Un gruppo di poliziotti e carabinieri, appostato nelle vicinanze, inizia a sparare. Le bottiglie incendiare volano senza procurare danni. Viene lanciato qualche sasso e due macchine, trascinate in mezzo alla strada, sono rovesciate per evitare una carica. Per difendersi è troppo tardi: due manifestanti sono feriti alla testa ma, miracolosamente, riescono a mettersi in salvo rientrando nel corteo; un terzo, colpito alla schiena, si accascia: il suo nome è Piero Bruno. Sulla sua carta di identità c’è scritto che è nato a Roma l’8 dicembre del 1957.

Piero abita alla Garbatella insieme ai genitori e a due sorelle. Studia da elettrotecnico e ama tante cose: la musica, le immersioni subacquee e Barbara. La mattina varca il portone dell’istituto tecnico industriale Armellini, per il resto, oltre a frequentare la sezione di Lotta Continua della Garbatella: «Faceva ciò che era giusto fare: autoriduzioni nei lotti popolari, gruppi di studio per evitare bocciature, cortei, collettivi».
In via Muratori, Piero è solo un corpo che urla di dolore: qualcuno gli si avvicina tentando di metterlo in salvo ma neppure adesso, quando è palese che nessuno è più in grado di nuocere in alcun modo, viene dato l’ordine di far tacere le armi. Il soccorritore viene colpito a un braccio e le pallottole infieriscono ancora sul ragazzo steso a terra ferendolo nuovamente, questa volta al ginocchio. Tanto basta ai tutori dell’ordine per sentirsi finalmente padroni della situazione. Un agente senza divisa esce allo scoperto e il modo in cui tratta Piero non sfugge allo sguardo allibito di una signora affacciata alla finestra di casa sua, in via Muratori:

Ho […] sentito che il ragazzo disteso per terra di lamentava e contemporaneamente ho visto un uomo in borghese sbucare attraverso i poliziotti che si è avvicinato di corsa al ragazzo, disteso per terra urlando, presso a poco «Ti pare questo il modo di ammazzare un collega» e ancora, «Cane, bastardo, carogna», ho quindi visto che l’uomo ha puntato la pistola verso il ragazzo disteso per terra, urlando «Ti ammazzo» e ho sentito il clic del grilletto. Il ragazzo ha gridato «No» ed ha fatto il gesto di coprirsi il volto con le mani. Quindi l’uomo, chinandosi sul ragazzo gli ha detto «ma io ti ammazzerei veramente» e lo ha scosso (dichiarazioni rese da una testimone alla competente autorità giudiziaria, 1975).


Piero Bruno, in realtà, non ha ammazzato nessuno. Eppure gli insulti non sono l’unica forma di mistificazione praticata quel pomeriggio dalle forze dell’ordine. L’ospedale San Giovanni è vicinissimo al luogo dell’agguato ma, anziché correre al pronto soccorso, si preferisce trascinare il ferito per decine di metri per fare in modo che il suo corpo finisca molto più vicino all’ambasciata dello Zaire e dare l’idea che i proiettili lo abbiano raggiunto mentre attaccava la polizia e non, come è accaduto, mentre tentava la fuga. Gli stessi bossoli, esplosi in una quantità così numerosa da formare un tappeto lungo la strada insanguinata, vengono raccolti in fretta: l’esatto ammontare del loro numero, in questo modo, non potrà mai più essere appurato.
Intanto si perde tempo prezioso. Sono soltanto le venti e trenta quando, con i proiettili in corpo e addosso il pallore dei morti, Piero Bruno entra in sala operatoria. Per “sicurezza” la polizia lo piantona come se fosse nelle condizioni di poter scappare da un momento all’altro. E lui, con un filo di voce, ha ancora la forza di sussurrare: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi…».
Sono le sue ultime parole. Piero riesce a superare la notte ma, dopo due interventi chirurgici e il sopraggiungere di un blocco renale, nel pomeriggio del 23 novembre del 1975 smette di respirare. Gli mancavano soltanto quindici giorni. Poi avrebbe festeggiato il suo diciottesimo compleanno.

*

Ma chi ha ucciso Piero Bruno?

Quando questa domanda viene posta in relazione al nugolo di militanti di sinistra uccisi dalla polizia la risposta più caratteristica è il silenzio mentre depistaggi e forzature giuridiche sono la regola più che l’eccezione della via giudiziaria alla ricerca della verità su chi muore per motivi di “ordine pubblico”.
Il caso di Piero Bruno, da questo punto di vista, è diverso dagli altri ma allo stesso tempo più atroce. Molto semplicemente, infatti, è stato possibile risalire all’identità dei militi che, agli ordini del vicequestore Ignazio Lo Coco, aprirono il fuoco il pomeriggio del 22 novembre 1975. I loro nomi, con le loro testimonianze, sono ancora lì, insieme ai buchi sui palazzi di via Muratori, tra le carte di un’inchiesta aperta dalla Magistratura per fare luce sul caso.

Si tratta del sottotenente dei carabinieri Saverio Bossio: «Ho esploso due colpi di pistola in direzione di un gruppo di persone col volto coperto che si trovava alla fine di via Muratori dalla parte del quadrivio».

Della guardia di pubblica sicurezza Romano Tammaro: «Mi sono avvicinato a loro sulla destra, ed ho visto un ragazzo a terra e due che lo trascinavano. Ho preso la pistola ed ho esploso dei colpi a scopo intimidatorio. I colpi erano diretti a terra».

E del carabiniere Pietro Colantuono: «I colpi che ho sparato, stando in piedi, li ho esplosi con l’avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e quelli che ho esploso da terra, con l’avambraccio verso l’alto sempre in direzione del gruppo di giovani».

All’appello manca soltanto un altro personaggio, il più importante e, in un processo virtuale, senz’altro l’imputato principale. Si tratta di Oronzo Reale: il ministro degli interni a cui si deve la paternità della legge che porta il suo nome.

La Legge Reale, approvata il 22 maggio del 1975, concede alle forze dell’ordine di utilizzare le armi da fuoco con estrema disinvoltura, rende possibile la perquisizione personale senza l’autorizzazione di un magistrato, prescrive l’arresto per chiunque sia trovato in possesso di “armi improprie” (lasciando alle forze dell’ordine la discrezionalità di decidere cosa possa essere considerato arma impropria) e reintroduce la misura del soggiorno obbligato per ragioni politiche già in auge nel periodo fascista. Le conseguenze di queste misure sono note: soltanto tra il 1975 e il 1990 sono almeno 685 le persone uccise sulla base della legge Reale e, tra queste, almeno 208 sono risultate colpevoli soltanto di non essersi fermate a un posto di blocco o, più tragicamente, si essersi trovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Qualsiasi momento, cioè, in cui la polizia perde la testa e spara.
Con questi presupposti la sentenza di archiviazione pronunciata dal giudice istruttore in relazione alla morte di Piero Bruno nel 1976 è poco più di una formalità. A nulla serve un collegio difensivo che, nel tentativo di fare chiarezza sull’omicidio del ragazzo, arruola il senatore Umberto Terracini e Giuseppe Mattina, uno dei fondatori di Soccorso Rosso. Nelle aule in cui venne discusso il caso furono sostenute le teorie più assurde, come quella di un colpo di pistola che rimbalza sul terreno e, colpendo il ginocchio di Piero Bruno, impegnato in una torsione mentre lancia una molotov, si incunea nel suo corpo fino a risalire lungo la spina dorsale lacerandogli l’aorta. Una battuta di Dario Fo legata alle tante morti violente di quegli anni recita: «Non è la polizia che spara per uccidere, sono gli studenti che volano».
Ma c’è poco da ridere. Assolvendo i poliziotti che spararono a Piero il giudice sentenzia: «Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i principi di diritto».

*

La storia, per fortuna, non si fa nelle aule dei tribunali. E se gli stessi giudici, avvolti nelle loro toghe lucide e nere, possono essere inappuntabili quando si tratta di applicare alla vita quotidiana le regole della legalità, la giustizia resta comunque un’altra cosa. Che si tratti di sensibilità, di utopia o di «istinto di classe», nella sentenza che archivia il caso di Piero Bruno di giustizia non c’è traccia. Per recuperare questo sentimento, lo stesso in cui eccellono i folli e i bambini, bisogna cercare altrove. Nelle parole «tu vivrai», per esempio. Cioè in un verso della poesia La libertà è un sogno scritta da Antonio Pinto, un soldato impegnato nella guerra d’indipendenza angolana commosso alla notizia di un compagno morto per la sua stessa causa in un Paese tanto lontano:

La libertà è sogno / sogno colmo di desiderio / lungo cammino di guerra e d’amore / percorso da gente di ogni terra / cammino di proletari, di guerriglieri.
È volontà ferma / di chi soffre, di chi vince / sul cammino del futuro, che è nostro.
Libertà è grido / è grido che tu hai gridato / arma che tu hai impugnato / sete che non hai saziato / vita che hai perduto.
Vermi ti rubarono la vita / vermi si nutrono ora del tuo corpo.
Ma tu vivrai!
E viva sarà la volontà nei cuori / che un altro mondo e gente vedranno / oltre il tuo esempio luminoso / vivrai!
Di te che lontano sei caduto per la nostra causa questo ci resta: / la libertà non è di un solo popolo / da te ci viene la forza / perché la lotta continui / fino alla vittoria finale.

Ancora nel corso delle celebrazioni per il trentennale, alla Garbatella si inaugura il murales realizzato dal CSOA “La Strada”: un affresco dove, al volto di Piero, si affianca quello di Carlo Giuliani, ucciso nel corso della protesta organizzata a Genova contro il G8 del 2001.

Si tratta di una connessione che non è dettata soltanto dal destino che, a distanza di tanti anni, riesce a iscrivere il nome di Piero Bruno e quello di Carlo Giuliani nello stesso libro nero della giustizia negata, ma anche dalla volontà di affermare la forza di una tradizione importante e fin troppo spesso dimenticata. La stessa tradizione che negli anni Settanta, per capire i propri morti, ricorreva alla memoria della Resistenza e che, se si trattava di parlare di ragazzi come Piero Bruno, non aveva dubbi: “nuovi partigiani”; questo è il loro vero nome.

Primo Maggio: e se la faccia ce la mettessimo tutti e tutte?

Noi le facce non le mettiamo“Noi le facce non le mettiamo”. Dopo la notizia dei dieci arresti eseguiti ieri tra Italia e Grecia ai danni di persone sospettate di aver animato la protesta del Primo Maggio No Expo, non sono mancati i mezzi di informazione indipendente che, per rispondere alla scelta forcaiola (la solita) del “Corriere della Sera”, immediatamente pronto a pubblicare le facce dei presunti black bloc, si sono affrettati a marcare una differenza: da un lato c’è il diritto e uno straccio di deontologia professionale, dall’altro fogli padronali stile “Corriere della Sera”.

Non c’è alcun dubbio che continuare a far pesare sempre e comunque a giornalisti come quelli in forza a il “Corriere” l’evidenza delle loro malefatte sia cosa buona e giusta, anche se è altrettanto innegabile come rinfacciare ai mezzi di informazione la propria natura di servitori del potere abbia lo stesso sapore scontato della scoperta dell’acqua calda.

Restando sul terreno della vetrina infranta dell’Expo milanese, davvero chi, da sinistra, ha speso parole di fuoco e di fiamme contro il “blocco nero” non aveva alcuna idea che i propri distinguo, i propri attacchi, il proprio giocare la partita dei “buoni” contro quella dei “cattivi”, si sarebbe tradotta prima in una strumentalizzazione, poi in una giustificazione ideologica non soltanto rispetto agli arresti, ma anche rispetto all’eccezionale durezza che si stanno meritando gli arrestati?

“Anche chi ha contestato democraticamente l’inaugurazione di Expo”, è scritto tra le righe di tutti i giornali e si legge dietro le fotografie di tutti gli arrestati, si è schierato compatto contro i “soliti teppisti”. A testimoniarlo, un esempio su tutti: l’articolo con cui il “Corriere della Sera” ha anticipato – evidentemente e ovviamente ben informato dalla Questura, di cui è abituale velina – gli arresti rispetto ai quali oggi ci si esprime. Come?

Passando in rassegna commenti ed opinioni, emerge o (1) la contestazione del reato di devastazione e saccheggio, residuato bellico del fascista Codice Rocco, pensato per situazioni di guerra e quindi assolutamente inappropriato per episodi come Expo2015 e, più indietro nel tempo, Genova2001; o (2) la condanna della gogna mediatica a cui la stampa main stream si è abbandonata con gusto orgiastico.

Per quanto riguarda la contestazione del reato di devastazione è saccheggio, si potrebbe dire che la battaglia utile alla sua cancellazione sarebbe cosa buona e giusta nella misura in cui potrebbe lavorare a una sempre utile ricomposizione di classe, evidenziando come le contraddizione per cui si scontano dieci anni per un bancomat rotto sono inaccettabili alla luce del governo ladro e mafioso che siamo costretti a subire. Eppure… se è opinione corretta e comune che dietro il famigerato reato di devastazione e saccheggio vi sia prima di tutto una forzatura, considerando che in punta di diritto quella legge non parla delle situazioni a cui viene applicata oggi, chissà cosa si potrebbero inventare – visto che di arbitrio stiamo parlando – una volta abrogata!

Forzatura per forzatura, tolta la devastazione e il saccheggio, potrebbero arrivare con lo stesso arbitrio le accuse di tentato omicidio anche per aver lanciato una bottiglietta di plastica vuota, o di associazione a delinquere per essere in possesso della tessera di una biblioteca… considerazioni che portano direttamente al secondo punto della questione, quello che ha a che fare con la condanna – più o meno di maniera – della gogna mediatica a cui i sospetti black bloc sono stati esposti, ovviamente senza che per loro abbia mai avuto alcun valore il “garantismo” di cui tanti si riempiono la bocca. Questo solo per dire che di fronte a fenomeni di insorgenza sociale non si può pretendere di avere salva la coscienza compartimentando la propria indignazione: è assurdo pensare di condannare pezzi di Movimento e addirittura additarli (alle attenzioni della Questtura) per poi stupirsi della durezza della repressione (“Ma come, dieci anni per una vetrina!”) o della connessa gogna mediatica (“Ma come, pubblicano i volti dei sospettati in dispregio delle garanzie democratiche!”). Per dirla in altri termini, rispetto ai fenomeni di insorgenza sociale, o si è dalla parte della soluzione che questi auspicano, o si è parte del problema, difficile pensare a comode vie di mezzo. Ed è per questo, che parlando di Expo, non sento la necessità di dire che “io le facce non le pubblico”, al contrario, ho voglia di dire che io la faccia ce la metto.

Io la faccia la mettoLa trovate qui, in basso a sinistra, dove è sempre stata. Mentre è impegnata a lasciare traccia del proprio dna su un pericolosissimo scovolino utile a fare le bolle di sapone, si fa una domanda: e se per dimostrare solidarietà e complicità con gli arrestati del primo maggio la faccia la mettessimo tutte e tutti, rispetto ai fatti di Milano come in rapporto ai luoghi dove le lotte reali conquistano a spinta la propria volontà di cambiare l’esistente, non questo l’unico, vero passo avanti?

TUTTI LIBERI! TUTTE LIBERE!

Ogni volta che mi convocano in Questura

Ogni volta che mi convocano in Questura ne approfitto sempre per fermarmi dal vecchio Garibaldi. Il foglio firmato dall’incaricato di turno in tasca, esorcizzo le brutte parole che gli uomini in divisa dicono di me con la carta ammuffita dei libri vecchi e i ricordi di quando gli editori trattavano direttamente con i bancarellai, visto che ancora non esistevano né i promotori né i distributori. Tra piazza della Repubblica e la stazione Termini, c’è sempre qualche volume di autori che nessuno stampa più, dedicato a temi e soggetti che avrebbero fatto il loro tempo e che ora se ne stanno là, stipati in chioschi come quello di Garibaldi, insieme a pile di vecchie videocassette porno, a vinili improponibili e a un variopinto assortimento di oggetti di antiquariato.

«Lo sai che la Morante pretese che La storia venisse stampato in edizione economica perché voleva che il suo libro fosse accessibile a tutti?», mi chiede Garibaldi.

«Sì…», annuisco. Lo so. E so anche che i processi faranno il loro corso e, nel giro di un certo numero di anni, si tramuteranno in condanne: diffamazione a mezzo stampa, adunata sediziosa, invasione di edificio, resistenza… Io però, ogni volta che mi convoca la Questura, continuo ad approfittarne per passare tra la stazione Termini e piazza della Repubblica e fermarmi una mezz’ora dal vecchio Garibaldi. Lì un’idea per la riedizione di qualche libro scomparso dalla circolazione eppure ancora necessario la trovo sempre. In fondo lavoro nell’editoria. E ne approfitto per festeggiare ogni denuncia mettendo in cantiere la nuova edizione di un vecchio classico della lotta di classe.

PS: ringrazio l’insopprimibile puzza di piscio che, stagnando tra i chioschi, aiuta i vecchi marchettari e i tossici ancora in circolazione a impedire ai fighetti a caccia di luoghi esotici di invadere la zona trasformandola in un posto… di classe. Cioè della loro classe.

Attenti al cinghiale

Una volta, per i fattacci di cronaca nera, la stampa aveva già bello è pronto il colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica. E questo, immancabilmente, era l’extracomunitario.
Tutti ricorderanno ancora, tanto per fare un esempio eclatante, quanto accaduto a Novi Ligure nel 2001, quando lo sgozzamento di una madre di famiglia e di suo figlio fece immediatamente scattare una caccia all’albanese… salvo scoprire poi che, ad uccidere a coltellate la mamma e il figlio era stata la giovane Erika, cioè la figlia e la sorella delle vittime, insieme ad Omar, il suo fidanzatino.
Alla stessa maniera, ad Erba, in provincia di Como, lo sterminio avvenuto a colpi di spranga e di coltello di un’intera famiglia, cane compreso, fu immediatamente addossato a Azouz, “colpevole” principalmente di essere tunisino. Solo in un secondo tempo si decise di accettare la realtà per quello che era, e di riconoscere gli autori della strage negli italianissimi Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi: una placida coppia di mezza età, “tranquilla” come possono esserlo in tante.
La macabra lista che stiamo compilando, in ogni caso, potrebbe essere allungata, e davvero di molto. L’elemento di novità rispetto all’oggi, però, sta nel salutare il rientro nella lunga lista dei “folks devil” – cioè in quelle categorie sociale stereotipate appositamente per scaricare su chi vi viene inserito le colpe di qualunque male – di un elemento che si credeva dimenticato tra le pagine di un bestiario medioevale, quando si gridava terrorizzati al pericolo incarnato da caproni con il tronco umano, lupi e draghi capaci di volare e di sputare fiamme. Ebbene, ai nostri giorni, all’extracomunitario, al tossicodipendente, al militante politico e all’ultrà, tanto per nominare un po’ di categorie buone per far scattare cacce alle streghe e invocare leggi speciali, si aggiunge un simpatico mammifero dotato di zanne e di orgoglio da vendere, appartenente alla famiglia degli ungolati e comunemente noto con il nome di “cinghiale”.
Come sempre, quando si ha la coscienza sporca, le persone “per bene” non si accontentano di aver distrutto interi territori, devastato gli habitat naturali e lasciato al degrado e all’abbandono porzioni di città già edificate per fini meramente speculativi. Ora, essendo che il cinghiale non intende lasciarsi estinguere tanto facilmente, gridano al pericolo e sostengono che quella dei cinghiali è una questione di “ordine pubblico”.
Bene, gli autonomi che, dalla Val Susa a Niscemi, assaltano le reti dei cantieri delle grandi opere inutili e dannose o gli ultrà ancora impegnati a fronteggiare i battaglioni della celere, per non parlare dei rifugiati che travolgono i confini, da oggi hanno un alleato in più: il cinghiale.
E non è certo un alleato di poco conto se si tiene conto del curriculum mitologico ed etologico di questo essere potente e meraviglioso. Un animale bellissimo che intanto, dalle parti di Frosinone, ha già avuto bisogno di trovarsi un bravo avvocato. A Ferentino, infatti, alla notizia del ritrovamento di un cadavere con ferite “sospette”, si è subito gridato “è stato un cinghiale! è stato un cinghiale!”.
Peccato solo che ancora non risulta che il re dei boschi abbia l’abitudine di utilizzare un fucile a pallettoni contro le sue prede!
E peccato anche che, anziché operare una quanto mai opportuna messa in discussione dei rapporti tra uomo (cioè tra imprese devastatrici e nocive) e ambiente, si stia invocando il massacro dei cinghiali, con la Coldiretti che, per il 29 settembre, ha addirittura convocato una manifestazione a Roma per protestare contro questi animali e dei danni di cui sarebbero responsabili. Asserzione che, priva di qualunque retroterra analitico rispetto alle modalità di sfruttamento di campi e boschi, non suona poi troppo diversa dalle frasi con cui si ricorda sempre che “gli stranieri ci rubano il lavoro”.
Intanto, mentre a Ferentino si è stati costretti ad ammettere che l’autore dell’omicidio, pur essendo ancora ignoto, non appartiene di certo alla famiglia degli ungulati, alle folle di benpensanti abituati a imboccare sempre la via più corta e comoda per spiegare le ragioni del male da cui siamo circondati, così come a chi è sempre alla caccia del pretesto buono per addossare a un capro espiatorio le storture di un intero sistema: ebbene, a tutta questa razza di ipocriti con la coscienza sporca non resta che dedicare una canzone e un monito. La canzone l’ha scritta Fabrizio De Andrè. Ma il monito è: “attenti al cinghiale!”.

Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle piazze? Una riflessione dopo la divisione delle curve dell’Olimpico

Il punto di domanda è d’obbligo considerando come sarà soltanto la realtà ad esprimere la misura e la direzione che assumeranno i fermenti sociali, in Italia come altrove. Di certo, di fronte alla feroce repressione da cui è stato attaccato negli ultimi anni, il movimento ultrà, al di là delle difficoltà – o delle possibilità – insite nell’esprimersi nei suoi confronti in termini unitari, ha spesso condensato la sua voglia di rivalsa nello slogan: «Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade».

Si tratterebbe, a ben vedere, di una sorta di “ritorno alle origini”. Non accadde, infatti, nel corso degli anni Settanta, che una fetta di popolo, spesso schierata a sinistra, iniziasse a trasferire nelle curve valori, nomi, cori e colori tratti direttamente dall’esperienza dell’antagonismo di classe?

E allo stesso modo, non è forse vero che con il passare del tempo pezzi importanti di sinistra salottiera e borghese iniziarono a stigmatizzare gli ultrà, delegittimando e isolando le radici popolari del movimento, fino a consegnare alla destra diversi stadi italiani?

Malgrado questo è innegabile come, anche in una stagione di forte disimpegno e deflusso, proprio negli stadi sia sopravvissuta e sia cresciuta una tendenza forte e organizzata, decisa a muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto ai valori dominanti, incarnati dall’odiosa paytv e sostenuti attraverso misure sul genere della tessera del tifoso, una delle tappe epocali nel percorso di disarticolazione del movimento ultrà, deciso a tavolino dalla politica parlamentare, espressione di precisi comitati d’affari, e dal suo braccio armato: le forze dell’ordine, la magistratura e gli addetti alla disinformazione in campo ideologico (leggi: giornalisti).

In queste settimane, mentre dalla Spagna arriva la notizia di nuove misure di identificazione, come il riconoscimento biometrico (!!!) per l’accesso allo stadio, a Roma, su iniziativa del prefetto Franco Gabrielli, le Curve dell’Olimpico vengono divise in due e durante la partita Roma-Juve la Sud viene profanata con la presenza diretta nel cuore dell’impianto sportivo di un concentramento di truppe degno della vera natura dell’iniziativa: l’occupazione militare di un territorio straniero.

Restando a Roma, dopo lo sgombero dello studentato occupato Degage, il provvedimento preso allo stadio Olimpico – che nel corso dell’ultimo Roma-Juve ha reagito in modo determinato ma non violento alla provocazione – è l’altra e sola iniziativa presa dalla Prefettura dopo aver promesso chissà che cosa in risposta alle polemiche per lo scandalo del faraonico funerale Casamonica: segno evidente di una priorità che può essere definita in tanti modi, ma non certo “legalitaria”.

Che la divisione delle Curve sia l’antipasto dell’avvento di uno stadio “finalmente” ridotto a salotto buono per un pubblico “bene educato”, educato cioè al pagamento senza fiatare di dazi sempre più alti, e alla sua riduzione a semplice tappezzeria per uno spettacolo teletrasmesso, sembra un dato di fatto. E sembra anche, uno spazio come quello dello stadio, telecamerizzato, scomposto, guardato a vista, trasformato in una prigione videosorvegliata e vigilata da personale armato oltre che riservato al teatro di una disciplina pesantemente contrassegnata da malaffare e corruzione, essere diventato particolarmente favorevole all’esercizio della repressione, all’accanimento contro gli episodi di resistenza al calcio moderno: espressione sinonimo di opposizione al modello economico imposto violentemente dal capitalismo imperante a tutto ciò che si muove, a cominciare dalle strutture autorganizzate dal basso e impegnate sul campo della riappropriazione diretta di reddito, case, sogni.

In questo contesto, l’idea di assistere a uno spostamento della lotta “dallo stadio alla strada” è una metafora interessante e tutta da scoprire, un ritorno all’antico che, chissà, verificando l’equazione “no al calcio moderno = no al capitalismo”, potrà realizzare quella che fu l’ultima profezia/invito di un osservatore-protagonista come il compianto Valerio Marchi. Perché, affermava Valerio nella sua Lettera agli ultrà, «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».

(Articolo scritto per Sportpopolare.it – 31 agosto 2015)