Ogni volta che mi convocano in Questura

Ogni volta che mi convocano in Questura ne approfitto sempre per fermarmi dal vecchio Garibaldi. Il foglio firmato dall’incaricato di turno in tasca, esorcizzo le brutte parole che gli uomini in divisa dicono di me con la carta ammuffita dei libri vecchi e i ricordi di quando gli editori trattavano direttamente con i bancarellai, visto che ancora non esistevano né i promotori né i distributori. Tra piazza della Repubblica e la stazione Termini, c’è sempre qualche volume di autori che nessuno stampa più, dedicato a temi e soggetti che avrebbero fatto il loro tempo e che ora se ne stanno là, stipati in chioschi come quello di Garibaldi, insieme a pile di vecchie videocassette porno, a vinili improponibili e a un variopinto assortimento di oggetti di antiquariato.

«Lo sai che la Morante pretese che La storia venisse stampato in edizione economica perché voleva che il suo libro fosse accessibile a tutti?», mi chiede Garibaldi.

«Sì…», annuisco. Lo so. E so anche che i processi faranno il loro corso e, nel giro di un certo numero di anni, si tramuteranno in condanne: diffamazione a mezzo stampa, adunata sediziosa, invasione di edificio, resistenza… Io però, ogni volta che mi convoca la Questura, continuo ad approfittarne per passare tra la stazione Termini e piazza della Repubblica e fermarmi una mezz’ora dal vecchio Garibaldi. Lì un’idea per la riedizione di qualche libro scomparso dalla circolazione eppure ancora necessario la trovo sempre. In fondo lavoro nell’editoria. E ne approfitto per festeggiare ogni denuncia mettendo in cantiere la nuova edizione di un vecchio classico della lotta di classe.

PS: ringrazio l’insopprimibile puzza di piscio che, stagnando tra i chioschi, aiuta i vecchi marchettari e i tossici ancora in circolazione a impedire ai fighetti a caccia di luoghi esotici di invadere la zona trasformandola in un posto… di classe. Cioè della loro classe.

Libri e motorini: le mani sporche della passione

Se fossi chiamato a disegnare la passione, mi cimenterei nell’impresa tracciando due cerchi con il compasso e, simulata con quella forma l’idea della ruota, andrei avanti abbozzando con una matita nera i pneumatici e i raggi, il telaio e il manubrio, i fari e la sella. Arriverei, in questo modo, a rimirare sulla carta un motorino: magari uno di quelli degli anni Ottanta, esile ma comunque in grado di caricarsi sulla sella due persone grazie alla sua cilindrata, senz’altro portata a settantacinque cc partendo dall’originale taglia cinquanta. Per questo, sempre nel disegno, dedicherei la massima attenzione al cuore di quel mezzo: la marmitta ad espansione. Ovviamente, per farla rendere al massimo, la sceglierei di fattura artigianale e non trascurerei mai, continuando a correre con la matita sul foglio, di sottolineare, nel carburatore, la dimensione maggiorata del getto. Mi affiderei con fiducia a ciò che mi è rimasto negli occhi per recuperare, insieme al ricordo dell’adolescenza, la memoria delle singole parti che compongono l’oggetto. Ma poi, vittima di uno strano scherzo, immaginando di tornare ai tempi della scuola, su quel foglio inizierebbero ad apparire nuove cose insieme al motorino. Lo schema di una gabbia tipografica, per esempio. Un rettangolo di carta senza pedali o manopole o candele ma, al loro posto, le misure precise del taglio, del piede, della cucitura, della mozza e della testa.

Sulle mani, se dovessi pensarle come erano allora, le macchie lasciate dal grasso dopo aver smontato il carter si confonderebbero con quelle più morbide dell’inchiostro. Segnale inequivocabile di appartenenza a un nuovo mondo: dopo quello dei motorini, della messa a punto e della convergenza, quello dei libri e delle riviste, delle redazioni e della programmazione editoriale; lancio dopo lancio, accuratamente pianificata utilizzando le pagine di un’agenda.

Il foglio su cui tutto il gioco della passione e delle sue forme si è depositato, a questo punto, avrebbe bisogno dello stesso colore rosso delle guance di un meccanico in erba di fronte ai primi sguardi delle ragazze per completare la dimensione strettamente sentimentale di un percorso professionale: il percorso che, dai banchi della scuola, conduce direttamente all’industria editoriale. Quali collegamenti ci sono?

Tantissimi. Motorini e libri, prima di tutto, restano formidabili mezzi di comunicazione. E se i primi servivano principalmente ad andare a trovare le ragazze, i secondi risultavano indispensabili quando si trattava di dedicare loro poesie d’amore…

Motorini e libri, ovviamente, sono una metafora. Ma anche un titolo che prima o poi sarebbe giusto dare a qualche corso di editoria. Motorini e libri… magari per sottolineare che anche ai tempi dell’istruzione specialistica e parcellizzata, a fare i libri si impara come si impara ad aggiustare motorini: rubando a il mestiere con gli occhi e continuando sempre e comunque a sporcarsi le mani. Gli ostacoli non mancheranno mai. Ma se ai tempi del liceo non erano forti abbastanza da impedire a un ragazzo di borgata di inforcare il suo sogno a due ruote per spingerlo verso il mare senza casco, senza bollo e senza assicurazione, ma con un passeggero attaccato alle spalle, oggi che, complice la più grave crisi economica dell’ultimo mezzo secolo, gli spazi a disposizione per chi vuole esprimersi e lavorare si sono ridotti al minimo, la regola regina che ogni aspirante autore – e qualunque sognatore – dovrebbe seguire religiosamente è sempre quella dettata anni fa dal grande Bukowski: «Soltanto una cosa può impedire a un uomo di scrivere. Se stesso».

Per il resto, tra libri e motorini le analogie restano profonde. E applicata all’editoria una famosa canzoncina popolare romana – quella che recita «vengo da Primavalle / col vespino rosso bordeaux. / Di prima mi fa una piotta / di seconda non lo so…» – ne verrebbe fuori un discorso molto divertente su una certa attitudine, da parte dei centauri, ad esagerare fino all’inverosimile le prestazioni del loro motorino; e, da parte degli addetti al lavoro editoriale, sulla disinvoltura con cui si snocciolano vendite e tirature o si millantano conoscenze e possibilità promozionali.

In questo parallelismo mancherebbero soltanto le ragazze. Ma in fondo non c’erano neppure al bar tanti anni fa. Mentre il centauro prendeva una birra con gli amici e infilava nella stessa storia le pieghe in quarta sulle curve a gomito e un volto da sogno su cui fantasticare incredibili avventure.

a.cosecheIntroduzione al libro Cose che gli aspiranti scrittori farebbero meglio a non fare ma che invece fanno di Cristiano Armati, Giulio Perrone Editore, 2012