La rima con fegato. O sul perché è inutile attendersi che a essere “punite” siano le forze di polizia

Giuseppe Giusti

“Se invece di legàto si dicesse légato, ecco che avrei trovato una rima con fégato”.
Si racconta che così rispose il poeta Giuseppe Giusti, celebre per la sua abilità nell’avere sempre la rima pronta, a qualcuno che, cercando di metterlo in difficoltà, gli propose di trovare una rima all’unica parola italiana che non ha un corrispettivo in rima, fegato, appunto. L’ho imparato a scuola e immagino sia per questo che mi è tornato in mente adesso, vedendo come, parlando della maestra di Torino, celebre per aver insultato un branco di celerini nel corso di una manifestazione antifascista, si insiste con il dire che mentre quelli che hanno torturato in modo atroce decine di persone a Bolzaneto (penetrando vagine e ani con manganelli e rendendosi responsabili di molti altri innominabili atti di crudeltà e tortura) sono stati promossi, lei viene licenziata; si insite con il dire che mentre quelli che hanno ammazzato a manganellate un ragazzino di Ferrara (“sembrava un albanese”, sostennero le divise per giustificarsi) sono stati ricollocati in servizio, lei viene licenziata; si insiste con il dire che mentre quelli che puntini puntini (inserire a piacere al posto dei puntini uno qualunque tra le molte centinaia di omicidi, spesso a sangue freddo, commessi nell’ultimo mezzo secolo contro militanti politici o migranti o ragazzi di strada o… puntini puntini), lei viene licenziata. Continua a leggere La rima con fegato. O sul perché è inutile attendersi che a essere “punite” siano le forze di polizia

Se io fossi di destra (grazie mamma d’avemme fatto romanista e comunista)…

Se io fossi di destra (grazie mamma d’avemme fatto romanista e comunista) e passassi le mie giornate ciucciando il manico della parola nazione e nascondendo dietro una certa idea di patriottismo qualunque discorso che, anziché con la provenienza geografica, ha in realtà a che fare con l’appartenenza di classe; ebbene, se io fossi di destra e poi beccassi un militare del mio esercito (tali sono gli arruolati nell’arma dei Carabinieri) a ostentare una bandiera che – nazista o guglielmina che sia – rimanda all’esercito di un’altra nazione, come minimo griderei all’alto tradimento, pretendendo per il responsabile la pena che spetta ai traditori, vale a dire la fucilazione. Continua a leggere Se io fossi di destra (grazie mamma d’avemme fatto romanista e comunista)…

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Qualcuno ha iniziato a parlare di riot porn per descrivere l’attrazione del “pubblico” nei confronti delle immagini dedicate agli scontri di piazza e ai tafferugli con le forze dell’ordine. Le cariche indiscriminate, le manganellate a persone inermi, le istantanee di poliziotti che calpestano o schiaffeggiano i fermati credendo, magari, di non essere visti, in realtà si sprecano e sono abbondantemente disponibili in rete e altrove, insieme alle riprese, molto più rare, di reparti costretti alla ritirata grazie a una controcarica o a un fitto lancio di oggetti.

Merito dell’imperante economia dei click: una caratteristica dell’informazione ai tempi di Internet, capace di attirare i giornalisti sui luoghi del conflitto sociale come le mosce sul miele. Perché in fondo la fotografia di una testa spaccata o l’istantanea di manifestanti presi a calci è una delle poche cose che, sulla colonna destra dei quotidiani on-line, riesce a reggere il confronto con le gallery dedicate ai gattini o alle donne nude. E anche perché, sovraesponendolo, il dolore finisce per decontestualizzarsi: il manifestante colpito dal lacrimogeno, i cadaveri di decine di migranti stipati in un camion, il gol in rovesciata di un campione dello sport, il lato B di una famosa attrice di Hollywood, l’arte di impiattare i dessert, sono soltanto tessere di un palinsesto e, in questo schema, rispondono alla necessità di andare incontro agli sfaccettati gusti degli spettatori, non certo alla reale esigenza di riflettere su ciò che accade e su perché accade.

Per questa ragione, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire non sono le immagini dell’eventuale resistenza offerta dalle famiglie buttate in mezzo alla strada. Nei corpi scomposti di chi oppone resistenza a un nemico tanto più forte, numeroso e meglio armato come quello rappresentato da interi battaglioni di polizia, infatti, si cerca di cristallizzare ciò che, grazie all’esposizione, palesa una sconfitta presentata come inevitabile. Piuttosto, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire sono le immagini che parlano di ciò che fanno le forze dell’ordine, lasciate sole con se stesse, degli averi degli occupanti e degli spazi che questi hanno faticosamente strappato al degrado, recuperandoli alle proprie umanissime esigenze.

Ebbene, lasciate sole con se stesse, negli spazzi appena sgomberati, per prima cosa le forze dell’ordine si accaniscono contro i bagni. È un grande classico, ma sulla scia di una psichiatria insondabile gli uomini in divisa sembrano godere nel distruggere gabinetti e docce, quasi a voler implicitamente affermare che la loro controparte – uomini, donne, bambini… – non può davvero avere utilizzato un water o una vasca da bagno. Accade perché, se pensasse di fare tutto ciò che fa a uomini, donne e bambini, il personale in divisa finirebbe per abbandonare in massa il proprio servizio, da qui il bisogno di presentare il “nemico”, cioè il comune cittadino, come una sorta di animale, operare su di lui un’operazione di despecificazione fisica e morale utile al suo annientamento. Per questa ragione, le tazze del cesso degli spazi occupati, trasudando umanità, vengono immediatamente spaccate e divelte: la polizia afferma con quel gesto ricorrente che tutto ciò che ha fatto non lo ha fatto contro esseri umani e, considerando come né le cose né gli animali hanno mai usato i bagni, quei bagni non esistono, non devono esistere, quindi vengono distrutti.

Immancabile, dopo la devastazione dei servizi igienici, segue il bisogno da parte della polizia di marcare il territorio conquistato. Tradizionalmente tutto questo avviene pisciando sui vestiti degli sconfitti e sui loro letti. Cacare sui materassi, da parte della polizia, è un simbolo di vittoria e una modalità tipica di festeggiamento.

Una volta avvenuto tutto questo si può procedere alla spartizione del bottino: televisioni, macchine fotografiche e videocamere i beni più ambiti. Ma anche un bel paio di scarpe sparisce spesso e volentieri: avete mai visto degli animali girare provvisti di calzature?

E soprattutto, da che mondo e mondo, il saccheggio è il primo diritto concesso dalle stesse gerarchie di comando ai soldati dell’esercito invasore. Il tutto accade al di fuori e oltre ogni razionalità tecnica legata all’occupazione militare. Il furto è solo una piccola parte di ciò che accade in questi casi, considerando che lo stupro e la tortura vengono largamente praticati, segni indelebili della sopraffazione e punizione supplementare inflitta ai vinti.

Anche gli sgomberi delle occupazioni abitative parlano di guerra. In modo particolare parlano della guerra contro i poveri e della sopraffazione degli oppressori ai danni degli oppressi. E infatti immagini come quelle riprese dalla scena dello sgombero dello studentato occupato Degage non finiranno mai in una delle tante gallery dei quotidiani on-line. Perché mostrarle significherebbe ammettere l’odio brutale provato dalle forze dell’ordine nei confronti degli stessi cittadini che avrebbero il compito di tutelare (altro che “ripristino della legalità”!), riconoscendo in ultima istanza il corso – e l’aumento di intensità – di quella che è la nuova guerra civile italiana.

Via chissenefrega numero qualchecosa

Sono gli ultimi giorni d’agosto e se non sono le vacanze (c’è la crisi, chi è che va più in vacanza?) è il caldo che ci pensa. In ogni caso per Roma è una tregua. O almeno sembra…
Cammino per i marciapiedi vuoti cercando un punto di riferimento diverso dalle cicche spiaccicate, uniche testimoni di qualcosa che pure deve esserci stato, qualcosa che abbiamo sempre chiamato “vita”.
Faccio il giro dell’isolato – i bar sono chiusi, i parcheggi vuoti – e lo penso sul serio: “E se fossero tutti morti?”.
Il tempo di svoltare l’angolo. Poi, con le gambe larghe, la bocca spalancata e un paio di occhiali con le lenti scure, un vecchio se ne sta immobile in mezzo alla strada. Forse vuole attraversare e il silenzio assoluto che si respira nel quartiere gli ha portato via qualunque punto di riferimento, rendendolo incapace di agire e di pensare. Sui pantaloni marroni, una chiazza scura gli si arrampica sulle gambe per andare a formare un lago all’altezza dell’inguine. Non saprei come aiutarlo e vado avanti: “No, non sono tutti morti. Non ancora…”.
In realtà, proprio come il vecchio, neppure io so bene cosa fare: l’edicola – dice un cartello giallo – riaprirà il primo di settembre; inutile pensare di arrivare al parco per leggere il giornale: “Nel mare di Sicilia”, ci avrei trovato scritto, “quattromila persone stipate su tre barconi alla deriva sono state tratte in salvo dalla guardia costiera. Mentre i profughi saranno ospitati in strutture di prima accoglienza, si procede con la schedatura…”.
Immagino l’inchiostro sui polpastrelli di uomini, donne, bambini. Gli stessi che alla frontiera con la Macedonia, intanto, vengono manganellati a sangue, inseguiti per i campi, respinti a forza di gas lacrimogeni…
Con le mani in tasca, assorto in simili pensieri, torno alla realtà per colpa di un cicalino: un suono inconfondibile che mi allerta e mi scuote, nemmeno fossi una cazzo di gazzella che nella savana sente la puzza del leone sottovento.
Il cicalino suona ancora, mi volto e la vedo. La volante della polizia che procede a passo d’uomo, i finestrini aperti e la radio sintonizzata sulle frequenze riservate. Dentro, come è d’uso, ci sono due agenti, impegnati a scrutare i muri in cerca evidentemente di qualche indizio. Ma certo. La targa con il nome della via: impressa nero su marmo ed esposta in bella vista. Via chissenefrega numero qualchecosa. Gli uomini in divisa la vedono, quindi accostano, parcheggiano e scendono. Evidentemente sono arrivati dove volevano essere: in via chissenefrega, appunto. Dove ci sarà chi hanno ricevuto l’ordine di controllare mentre, con le mani distese lungo i fianchi, molto vicino al posto in cui portano appesa la pistola, ancheggiano nel caldo che, rimbombando sull’asfalto, alle guardie non deve fargli per niente bene dentro la testa.
Le caserme, gli ospedali, i tribunali e tutti quelli che ci girano intorno, si sa, non hanno mai promesso niente di buono… ma sperando sempre di averci a che fare il meno possibile nella vita, per quale motivo simili individui hanno pure il mio indirizzo?
Via chissenefrega numero qualchecosa… ma io già lo so dove abito, perché allora dovrebbe essere così facile rintracciarmi?
Nervoso, aumento l’andatura. Incerto se tornare a casa o continuare a camminare finché la strada non sia costretta a lasciare un po’ di spazio ai campi. Come accade sul confine tra Grecia e Macedonia, dove il potere di lasciare vivere o fare morire è affidato a uomini in divisa uguali a quelli che ho appena incontrato. Certamente rispetto alla città in cui vivo da quelle parti le cose sono molto più pericolose e quindi giù botte. La polizia è sempre più nervosa se ha a che fare con gente che non è stata ancora costretta a subire la pratica della schedatura di massa. Per tutti gli altri c’è sempre un indirizzo e magari persino un nome sulla cassetta delle lettere, quindi perché preoccuparsi? Non abitate anche voi in via chissenefrega numero qualchecosa?
Quando lo vorranno sapranno benissimo dove venirvi a cercare.

Carlo Giuliani e la morte di MP

Io lì non ci dovevo andare. Me lo avevano detto i miei colleghi sotto la doccia. Arrotolavano gli asciugamani e mi colpivano sulla schiena. E quando mi voltavo per vedere chi era stato giravano il dito indice, ridevano e facevano finta di niente: «Tu lì non ci puoi venire,» ripetevano, «perché sei stupido».
Erano tutti contenti di partire. Perché là pure a noi carabinieri di leva ci avrebbero pagato la giornata. E la mensa. E il posto dove dormire.
Qualcuno dei miei colleghi diceva pure che non c’era mai stato a Genova e già che c’era si sarebbe scopato qualche puttana. Magari una dei noglobal.
Io lì non ci dovevo andare. A fare il carabiniere. È che mio padre aveva un cugino che conosceva il maresciallo e allora mi hanno fatto passare. Anche se dicevano che non ci stavo tanto con la testa.
Poi un collega si è ammalato. E il comandante della caserma era convinto che dovevamo essere in tanti e allora mi ha mandato a dire che sarei salito anche io. Però dovevo stare attento perché mi volevano tirare i palloncini con il sangue infetto. E mettere le bombe nella macchina. Perché poi si volevano prendere tutto e a noi mandarci a casa.
Io comunque a casa non ci sto mica male. Conosco quelli del bar del mio paese. E loro non dicono che sono stupido.
Forse qualcuno lo dice. Ma solo perché mi sono fidanzato a una che era sposata e che aveva una bambina e quelli del bar pensano che le donne uno se le deve prendere nuove, come la macchine. No che prima le ha usate qualcun altro.
Ma a me lei piaceva. E anche la bambina.
Comunque sono partito. Con il pullman e tutti i colleghi.
Eravamo allegri.
Cantavamo.
Quelle canzoni non le conoscevo. Una diceva «faccetta nera», mi ricordo. Un’altra diceva «bella bionda apri le cosce». Un’altra ancora non la so ridire perché le parole erano in tedesco. Mi pare.
Quando siamo arrivati ci hanno fatto scendere e ci hanno detto di andarci a mettere la divisa.
Io mi sono trovato un posto vicino al muro nello spogliatoio. Così non potevano iniziare a darmi le botte con gli asciugamani. Ed ero contento perché avevamo pure un armadietto con la chiave. Che una volta avevo lasciato la roba nello spogliatoio e poi l’ho trovata tutta sporcata con la schiuma da barba.
Quando ci siamo vestiti ci hanno portato in una piazza. Non eravamo solo noi carabinieri, c’erano tutti. Quelli della guardia di finanza, quelli della polizia penitenziaria, pure quelli della forestale, c’erano. C’erano tutti.
E uno senza divisa, ma con la giacca e la cravatta, ci ha parlato. Ci ha detto che l’onore dell’Italia dipendeva da noi, che altrimenti le nostre donne avrebbero cominciato a fare l’amore con le cameriere e poi nelle chiese ci sarebbe finita la droga dove si mette l’acquasanta.
Alla fine tutti abbiamo urlato «sissignore». E siamo andati a prendere gli ordini al comando.
«Tanto tu sei stupido», mi ha detto un collega. E ce l’aveva con me soltanto perché il mio ordine diceva che dovevo stare di supporto, no fare le cariche proprio io. Invece il collega sbatteva il manganello nell’aria ed era tutto contento: «Perché a quelle zecche io glielo do sulla faccia così».
Intendeva dalla parte del manico. Perché fa più male il manganello dalla parte del manico. Ed è per questo che tutti lo usano in quel modo.
Come con il lanciagranate per i lacrimogeni. A me ne hanno dato uno e nella zona della Fiera mi hanno detto: «Spara!».
Io ho iniziato a sparare, e mi sono respirato un sacco di gas. Per questo io, durante il servizio, quasi nemmeno li ho visti quelli che stavano lì a Genova. Qualcuno sì. Mi sembravano ragazzini. Erano maschi e femmine in realtà. E una di loro, una femmina con lo zainetto, assomigliava alla figlia della mia fidanzata. L’ho riconosciuta subito, perché a lei voglio bene. Pure di più che se fosse figlia mia, anche se è diverso.
Non lo so se quella ragazzina si è fatta male oppure no. Mi dispiace se lei si è fatta male. Ma di sicuro mi sono fatto male io. Mentre sparavo i lacrimogeni non ci stavo proprio pensando che mi volevano tirare i palloncini con il sangue sieropositivo, e nemmeno che la mia fidanzata poteva fare l’amore con la cameriera perché da noi li lava lei i piatti e i panni, non c’è nessuna cameriera. Io sparavo solo i lacrimogeni, finché un ufficiale non è venuto da me e mi ha ordinato: «Levati di mezzo, che tu non sei capace».
Me lo ha preso lui il lanciagranate. E quando sparava, sparava dritto, così poteva colpire la gente in faccia.
«Qua siamo in guerra, cosa ti credi», mi spiegava.
E il mio compito era prendere i lacrimogeni e passarli a lui. Ma da quelli un po’ di gas usciva, e io me lo respiravo. È stato così che mi sono sentito male. Allora l’ufficiale ha perso la pazienza: «Sei un coglione», ha urlato. E mi hanno fatto salire sul gippone riservato agli ammalati.
Capirai. Io ero solo che contento di andarmene via. Se proprio potevo me ne sarei tornato a casa, al bar. Che mi mancava la mia fidanzata. E sua figlia.
Invece poi è successo. Non lo so se la colpa è stata del collega che mandava i messaggi con il cellulare, ma alla fine il gippone dove stavo è rimasto da solo, e intorno c’era tanta gente arrabbiata che ci lanciava le cose. Noi abbiamo provato a scappare, ma siamo rimasti incastrati addosso a uno di quei cosi dove la gente ci mette i vetri da buttare. E intorno che macello!
Ci tiravano i sassi, ci rompevano i vetri, sembrava ci volessero ammazzare, non me lo ricordo bene però. Io avevo respirato il gas. Avevo pure vomitato. Poi ho visto il sangue. Non lo so di chi era. E ho preso la pistola. E ho sparato in aria due volte. Ci ho messo un po’ perché non ero tanto capace a togliere la sicura, ma ho sparato in aria. E le cose si sono calmate. È arrivato pure un altro collega e finalmente mi hanno portato in ospedale. Lì mi hanno dato delle medicine, talmente tante medicine che mi veniva sonno, e se mi chiedevano qualcosa rispondevo piano, nemmeno io lo sapevo quello che dicevo. Quando proprio quasi dormivo mi hanno riportato in caserma. E li mi stavano aspettando. Tutti i colleghi. Sembravano felici. Hanno iniziato a battere le mani e a scandire in coro: «uno a zero per noi! uno a zero per noi!».
Allora, con una pacca sulla spalla, mi hanno informato che avevo ucciso un manifestante: «Benvenuto tra gli assassini», mi hanno salutato.
E da quel momento, ogni volta che uno di loro mi incontrava, mi indicava agli altri e avvisava: «State attenti, mi raccomando, non fate arrabbiare il cecchino».
Ma se io non sono mai stato capace a sparare!
Al poligono ero il peggiore di tutti, non ci prendevo proprio.
Ma ormai nessuno mi credeva. Mi hanno portato delle carte e io l’ho firmate: «Ti gestiamo noi, ricordatelo», venivano a raccomandarsi.
Ma cosa significa gestione?
Sono finito su tutti i giornali!
Mi hanno dato la colpa.
E mi hanno detto che non ero più buono per fare il carabiniere.
Capirai.
Io questo lo sapevo già.
E pure gli amici del bar, giù al paese, hanno cominciato a farmelo pesare. Secondo loro chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina. E che la mia fidanzata mi ha lasciato se lo immaginavano tutti. Secondo loro una volta che è stata fatta la strada tutti i cani ci passano. E da lei ne erano passati tanti…
Ma io le volevo bene.
A lei.
E alla bambina.
Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male. Quando sono venuti a prendermi l’ho spiegato bene: «Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male».
Ma loro insistono.
Insistono che io la toccavo.
O che mi sono fatto toccare, non me lo ricordo.
Io ho respirato i gas e ho pure vomitato.
E poi ho sparato in aria, sono sicuro.
Sono sicuro, anche se con tutte le gocce che mi hanno fatto prendere non è facile essere sicuri. Non riesco nemmeno a capire se è vero quello che vedo davanti agli occhi quando li chiudo. Se è vero un ragazzo con il passamontagna che mi guarda e alza il braccio puntandomi addosso le tre dita unite a formare una pistola. Lui, quando chiudo gli occhi, arriva e fa: «Pum!».
«Carlo Giuliani è vivo e tu sei morto».
Ogni volta che chiudo gli occhi il ragazzo con il passamontagna me la ripete sempre questa cosa qua.

Per sempre ragazzoRacconto di Cristiano Armati tratto dal volume Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani, a cura di Paola Staccioli, Tropea Editore, 2011.

Il carabiniere di Desenzano sul Garda: street art is not dead

Il carabiniere di Desenzano sul Garda

Quando tutto sembrava perduto. Mentre il segno dirompente della street art appariva sul punto di soccombere di fronte al duplice attacco scatenato sui ribelli dell’arte dall’apparato repressivo e dalle logiche dei benpensanti, da Desenzano sul Garda i teppisti dimostrano di avere ancora molte frecce nel loro arco e, con il favore delle tenebre, realizzano questo capolavoro, ficcando la colonnina dell’autovelox sopra la testa di un milite di bronzo, posato tra le strade della cittadina lombarda dallo zelo dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

Gli storici dell’arte e i critici più attenti ammirano basiti il lavoro degli ignoti artisti. C’è chi sottolinea, soffermandosi sulla cappa di metallo calata sul volto bronzeo del militare, l’efficacia della rappresentazione dell’eterna lotta tra la “legalità” istituzionale e la “giustizia” popolare. Altri si spingono ancora oltre e affermano, analizzando l’opera, di come attraverso l’istallazione si sia voluto condensare un “non vedo – non sento – non parlo” a cui, come le celebri tre scimmiette con le mani sulla bocca, gli occhi e le orecchie, le forze dell’ordine si sarebbero votate, evitando di prendere qualunque posizione diversa da una presunta necessità di obbedire agli ordini a prescindere da ogni logica di umanità o buon senso.

Tutti, in ogni caso, sono concordi nell’affermare come da Desenzano sul Garda arrivi la necessità di affermare il senso autentico dell’arte di strada: quello di spezzare il monopolio dei significati detenuto dalle classi dominanti per imprimere sui muri e sugli arredi urbani un senso alternativo che, instancabilmente, ricorda come un altro mondo sia non solo possibile ma necessario.

Li chiameranno eroi. Gli sgomberi di Tiburtina e Ventimiglia, il movimento reazionario di massa e le forze di polizia

Non ho mai avuto familiarità né simpatia per quel mondo in divisa che, organizzato gerarchicamente, affronta in prima persona gli affari definiti «militari». Eppure ho cercato sempre di interessarmene, convinto che non sia affatto il caso che, a sinistra, si rinunci a costruire un punto di vista anche in tema di armamenti, esercito e ordine pubblico: a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il fronte – rigorosamente interno – su cui le forze armate e le loro articolazioni vengono impegnate con maggior rigore.

Malgrado non siano mancati, infatti, i territori sui quali dislocare truppe con le scuse più fantasiose (una su tutte: la «missione di pace»), è proprio pensando alla popolazione civile, al suo contenimento e alla sua repressione che, oggi, tendono a essere organizzati gli uomini e i mezzi a disposizione tanto del ministero della Difesa quanto di quello degli Interni. Uomini e mezzi che, al di là delle loro classificazione, e quindi che si parli di esercito, polizia, carabinieri o guardia di finanza, rispondono in ogni caso a una logica di tipo militare, ereditando da questa sia il potenziale offensivo che un certo sistema di valori, a cominciare dal modo in cui considerare, e quindi affrontare, il proprio nemico.

I vecchi soldati, per esempio, utilizzavano l’espressione «il campo dell’onore» per definire il servizio nelle forze armate. E se l’onore poteva essere tirato in ballo anche al cospetto della bassa macelleria delle passate guerre «tradizionali», ciò riusciva in virtù di un’idea di nemico inteso come soggetto da abbattere ma, al tempo stesso, da rispettare. Una controparte speculare alla propria, all’interno della quale poteva anche succedere di identificare se stessi. A rendere «onorevole» lo scontro subentrava l’idea di un avversario in grado di nuocere e con il quale il confronto si giocava disponendo di una capacità offensiva perlomeno paragonabile: dove i rapporti di forza risultano sproporzionatamente a favore di una delle due parti in causa, infatti, non può esserci nessun onore.

Da quando il principale nemico dei militari viene pensato non più in divisa ma in abiti civili, il discorso sull’onore si è fatto complesso. Quando un poliziotto sgombera una casa occupata, per esempio, picchia selvaggiamente donne, vecchi e bambini; come può pensare a se stesso in termini di onore?

E in questi giorni, mentre le nostre forze dell’ordine, alla stazione Tiburtina o a Ventimiglia, si lanciano all’inseguimento di mamme con i lattanti tra le braccia e prendono a schiaffi uomini inermi, come si riesce a instillare tra la truppa quel discorso sull’onore che ha sempre avvallato le atrocità connesse all’attività militare?

Sono domande come queste, in fondo, che stimolano lo studio e l’osservazione di chi porta la divisa, dei suoi codici, dei suoi comportamenti. Perché nella realtà non esiste un confine a partire dal quale ciò che è di pertinenza civile diventa invece una competenza militare. Al contrario, i militari stanno iniziando a mettere in pratica quello che viene costruito da ormai molto tempo nella vita di tutti i giorni: un processo di despecificazione morale e fisica di categorie di «nemici» in realtà molto antiche, ma mai come ora oggetto di un simile odio. Non passa giorno, infatti, in cui su tutti i giornali e in televisione non vi sia una serrata propaganda riservata ai migranti: Rom, rifugiati politici, persone in fuga, non si fa alcuna differenza. Ciò che viene seminato ha a che fare con l’ordine pubblico e con l’invocazione di misure sempre più draconiane per far fronte all’«emergenza» o, come dicono molti usando non a caso un termine militare, con l’«invasione». Allo scopo si mettono in circolazione notizie false (una fra tutte: la bufala degli 80 euro al giorno incassate dai migranti) e gli episodi di cronaca nera vengono ingigantiti a dismisura (come è stato fatto con i pirati della strada di Primavalle): sullo sfondo c’è una gravissima crisi economica, e anche questa viene strumentalizzata per sostenere come la via d’uscita consista nel limitare i diritti di chi viene da fuori, senza considerare come simili provvedimenti finiranno per abbattersi sulla vita di chiunque. Ecco, intanto, un «nemico interno» pronto per l’uso: talmente demonizzato da aver perso le sue prerogative umane agli occhi di chi lo guarda; così pericoloso da far apparire come «bravi ragazzi» le truppe di squadristi che si muovono ai suoi danni con il beneplacito dei regolari corpi di polizia (è accaduto anche a Ventimiglia!). Un soggetto talmente pervasivo e ramificato da chiamare in causa immediatamente altri «demoni» da abbattere: dai migranti agli occupanti di case e da questi agli attivisti dell’opposizione sociale il passo è breve. Non più lungo, a ben vedere, da quanto ancora impedisce alla coscienza di una pericolosa maggioranza silenziosa di sfociare in un movimento reazionario di massa di tipo fascista. Quello stesso movimento reazionario di massa che, per gli sbirri bravi a spaccare la testa di persone disarmate, ha già in serbo il nome di «eroi».

Impara l’arte e lotta contro gli abusi di potere. Il cuore della street art e lo scandalo dei “maiali” di San Basilio

Blu colpisce ancora.

http://it.wikipedia.org/wiki/Blu_(artista)

Lo street artist inserito dall’autorevole The Observer in una lista comprendente i dieci artisti di strada più autorevoli del mondo, dopo aver regalato a Roma lavori importanti come quelli che possono essere ammirati sulle facciate del LOA Acrobax, di Porto Fluviale Occupato e dello Studentato Occupato Alexis, ha rivolto le sue attenzioni a San Basilio, trasformando la facciata grigia di una palazzina in un quadro trasudante storia e memoria. Oggetto prescelto da Blu, un San Basilio Magno in carne, ossa, barba e abito talare impegnato, con una cesoia al posto del tradizionale aspersorio, a scassinare lo stesso lucchetto forzato quarant’anni fa dalla gente della borgata, protagonista nel settembre del 1974 dell’occupazione di massa delle locali case vuote, una clamorosa prova di forza popolare capace di sfidare un dispiegamento senza precedenti di forze dell’ordine dando vita alla celebre “battaglia di San Basilio”, da allora evento-simbolo della lotta per la casa e dell’autorganizzazione.

Per rendere omaggio al protagonismo di quei giorni, il San Basilio di Blu è raffigurato come un colosso capace di irradiare una sorta di potere magnetico di fronte al quale un branco di maiali e pecorelle in divisa da poliziotto è costretto a inchinarsi tra dolorose contorsioni, come riconoscendo la supremazia della volontà popolare sul corrotto potere temporale dello stato o, per lo meno, soccombendo alla forza di un santo noto per le parole spese in favore dei diritti degli animali, a cui, chissà, lo stesso Blu potrebbe essersi ispirato:

O Signore, accresci in noi la fratellanza con i nostri piccoli fratelli; concedi che essi possano vivere non per noi, ma per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, come noi, la dolcezza della vita e ti servono nel loro posto meglio di quanto facciamo noi nel nostro

Implicazioni teologiche a parte, l’ennesima, bellissima opera di Blu è stata realizzata dall’artista – anonimo per precisa scelta politica – nel corso della grande festa popolare organizzata a San Basilio in occasione dell’anniversario della Battaglia e della morte di Fabrizio Ceruso, un ragazzo di diciannove anni accorso da Tivoli per partecipare alla difesa delle case occupate e assassinato dalle forze dell’ordine con una fucilata.

http://www.senzasoste.it/anniversari/8-settembre-1974-fabrizio-ceruso

Correva l’8 settembre del 1974, e da allora il caso di Fabrizio Ceruso giace insabbiato tra i misteri di una storia che, complice la cossighiana strategia della tensione, ha compreso l’impiego disinvolto di cecchini che, in quegli stessi anni, si presero la vita di altri ragazzi, dalla romana Giorgiana Masi (12 maggio 1977) al fiorentino Rodolfo Boschi (18 aprile 1975), ugualmente impegnati ad esercitare il proprio diritto al dissenso, anche opponendo il proprio corpo alla violenza dei tanti abusi in divisa che non hanno mai smesso di insanguinare le strade delle città italiane.

Nel corso della partecipata commemorazione, una festa popolare che, oltre all’esibizione di atleti delle palestre popolari, ha visto la partecipazione del cantautore Pino Masi e di diversi gruppi hip hop tra cui i mai abbastanza lodati Gente di Borgata, l’intervento commosso di Carla Ceruso, sorella di Fabrizio, ha contribuito a ricordare come la figura del diciannovenne di Tivoli, da sempre dimenticata e infamata dalle istituzioni responsabili della sua morte, sia al contrario vivissima nella memoria di tutto il quartiere: dedicare a lui un lavoro firmato da un’artista come Blu, insomma, appariva come un riconoscimento minimo nei confronti di chi, a un quartiere come San Basilio, ha lasciato addirittura la propria vita per garantire il diritto di tutti gli abitanti ad ottenere un tetto sopra la testa.

A pensarla in maniera opposta, però, ci hanno pensato le stesse forze dell’ordine citate da Blu nel suo murales. Talmente colpite dalla provocazione da presentarsi in massa nel cuore della notte per provvedere a cancellare, deturpando il lavoro dell’artista, le pecore e i maiali dotati delle loro sembianze. Con quale autorità? Con quali permessi? Rispetto a quale preparazione e con quale rispetto nei confronti dell’opera d’arte i tutori della legge hanno compiuto un simile gesto?

Il commento dell’assessore ai lavori pubblici Paolo Masini, secondo il quale il lavoro di Blu è da considerarsi illegale oltre che colpevole di violare l’articolo 342 del codice penale (in quanto contenente immagini denigratorie delle forze dell’ordine), è infatti arrivato a cose già fatte. Ma come se non bastasse, da quando è un assessore, anziché un giudice, ad arrogarsi il diritto di applicare leggi e di comminare pene?

Per discettare di legalità, occorrerebbe ricordare a Masini, sarebbe necessario anche vivere nella legalità, essendo stato il comportamento suo e dei tutori dell’ordine coinvolti più appropriato a pseudogiustizieri della notte che non a dei rappresentanti delle istituzioni. A Masini si potrebbe anche ricordare che una simile solerzia sarebbe, dato il ruolo, benvenuta se andasse una volta tanto a ficcare il dito in piaghe come quelle relative agli scandali dei ritardi nei lavori delle metropolitane romane, tanto per fare un esempio, ma evidentemente il comune di Roma si muove secondo priorità estremamente distanti rispetto a quelle sentite dalla popolazione. A testimoniarlo, lo stesso sindaco Ignazio Marino che, a detta di quanto riportato dai giornali, si è affrettato a telefonare al Questore “per ribadire il proprio ringraziamento riguardo l’attività quotidiana svolta dalle donne e dagli uomini delle forze dell’ordine a tutela della sicurezza delle romane e dei romani”.

A Marino occorrerebbe  forse far sapere che tra le romane e i romani tutelati dalle forze dell’ordine c’è un ragazzo come Stefano Cucchi, assassinato il 22 ottobre del 2009, e che nessun rappresentante delle istituzioni ha ritenuto opportuno alzare il telefono per un abitante dei quartieri popolari quel giorno. Questo non accade a Roma, ma neppure a San Basilio, dove l’ultimo intervento comunale a favore della vivibilità del territorio e della sua tutela si perde nella notte dei tempi, segno che al sindaco interessa la sicurezza delle romane e dei romani come ai palazzinari la qualità del cemento utilizzato nell’edificazione dei loro scempi… altrimenti, d’altra parte, perché rendersi artefice di un provvedimento come quello passato sotto silenzio ultimamente, una ristrutturazione dei commissariati con la relativa imposizione della chiusura notturna per gran parte di questi (ben 29 dei 39 totali) e il dirottamento delle forze disponibili sull’ordine pubblico – per tenere meglio a bada le manifestazioni di piazza – e negli uffici della digos: repressione dell’opposizione sociale, quindi, questa è l’unica idea di “sicurezza” presente nella testa di Marino, mentre a poche settimane dall’omicidio del sedicenne napoletano Davide Bifolco, la solerzia può essere spiegata come una mano tesa all’immagine delle stesse forze dell’ordine, quanto mai appannata.

http://www.romatoday.it/politica/chiusura-notturna-commissariati-roma.html

In ogni caso, non è certo questa la prima volta che la street art affronta o si scontra con il tema della sicurezza. Negli ultimi anni, in virtù del successo del movimento, si sono sprecati i tentativi istituzionali di utilizzare persone e linguaggi della street art per dare verso l’esterno un’immagine “giovane”, dinamica e futuribile di enti locali o governativi. La stessa San Basilio, attraverso un progetto finanziato dal comune, ha conosciuto la pratica dei “muri legali”, tentativi di riqualificazione urbana che hanno visto impegnati street artist importanti come il bravissimo Agostino Iacurci. Ma, da questo punto di vista, è inaccettabile il commento del rappresentante del progetto, secondo il quale: “A distanza di pochi mesi dal progetto ‘SanBa’, studiato e approvato per la riqualifica del nostro territorio che ha visto protagoniste le scuole i bambini e molte realtà sociali buone di San Basilio, questo murales entra a gamba tesa e spiazza noi tutti, compreso chi ha nel cuore anche il lato religioso e morale del quartiere”.

Si tratta del classico tentativo di dividere i buoni dai cattivi per tracciare un confine inesistente tra street artist legali e illegali ai quali i protagonisti si piegheranno molto difficilmente. Al di là del campo libero delle scelte personali, infatti, la street art non perde di senso quando entra nelle gallerie, ma quando dimentica che l’arte non è nata per abbellire le case dei potenti o per soddisfare le necessità di istituzioni antipopolari, ma, al contrario, nel caso della street art per riappropriarsi – per occupare – lo spazio pubblico dell’immaginario sottraendolo al monopolio che la pubblicità a pagamento e/o la propaganda di regime intende esercitarci. Per questo tra street art e forze dell’ordine – sensibilissime alla loro immagine e mai sazie di fiction televisive progettate solo per esaltare chi indossa la divisa – è un eufemismo dire che non corra affatto buon sangue. Lo stesso ricchissimo e popolarissimo Obey, noto per aver realizzato l’icona che avrebbe spianato ad Obama la strada della vittoria elettorale (ma su questo argomento l’artista ha fatto autocritica…), vanta un curriculum di ben 19 arresti, l’ultimo dei quali subito nel corso dell’inaugurazione di una sua mostra in un ufficialissimo museo di arte contemporanea statunitense!

Le forze dell’ordine, insomma, bersagliate dalle critiche degli street artist, reagiscono con particolare durezza di fronte a chi pratica l’arte urbana. Non a caso un altro scandalo italiano dimenticato è quello che ha visto protagonista Rumesh Rajgama Achrige, uno street artist diciannovenne di Como colpito a bruciapelo da un colpo di pistola esploso da un membro della locale squadriglia antigraffiti. Era il 29 marzo del 2006. Inutile precisare che neppure in questo caso gli stimati rappresentati delle istituzioni, essendo il ferito soltanto un graffitaro, hanno mai telefonato.

Pulirsi il culo con le (nostre) mani. L’anima del capitalismo di rapina e lo sgombero del Volturno Occupato

In una Roma messa a dura prova dal caldo e da un anno in cui la spinta repressiva ha toccato altissimi livelli, la notizia è stata di quelle comunque in grado di arrivare come una frustata in faccia alla città: «Stanno sgomberando il Volturno!».

Erano le otto e un quarto del 16 luglio quando un indignato passaparola ha fatto accorrere davanti al portone dell’ex cinema occupato un centinaio di attivisti, ma era già troppo tardi. Numerosi blindati avevano sbarrato le vie limitrofe e nutriti cordoni di celerini, facendo ondeggiare ritmicamente il manganello, non nascondevano di certo le loro reali, voluttuose idee di violenza. La stessa violenza che, nel nome della legge, si scatenava sugli spazi del Volturno, aggredito da picconi immediatamente in grado di demolire arredi e pavimenti, producendo nel giro di un’ora un’immagine in grado di commentarsi da sola: ci sono voluti sei anni per fare del Volturno un teatro aperto alla città e uno degli sportelli del diritto alla casa più noti a livello nazionale, mentre nel giro di appena sessanta minuti tutto è stato distrutto senza nessuna remora. Mancano effettivamente le immagini dei celerini che pisciano per dispetto sugli oggetti degli occupanti, ma alla resa dei conti, quando c’è stata la possibilità di entrare per recuperare le cose più importanti, diverse parti dell’impianto luci e audio risultavano assenti:qualcuno tra poliziotti e operai assoldati per l’apertura della porta se li era rubati!

Tra le questioni sociali che in questo momento a Roma scottano di più, c’è senz’altro la ferma volontà della prefettura – autentico sindaco-ombra della capitale – di “normalizzare” gli spazi sociali attivi sul territorio, promuovendo una campagna di sgomberi che mette a rischio,insieme ai luoghi liberati, gli strumenti dell’organizzazione dal basso e dell’autogestione. Lo stesso articolo 5 della mai abbastanza bestemmiata Legge Lupi, d’altro canto, nel momento in cui arriva a imporre il divieto di allacciare utenze a chi vive in spazi occupati, non sferra soltanto un infame attacco alla realtà delle occupazioni abitative, ma estende la sua portata su tutti gli spazi sociali, ed è, in ultima istanza, una delle cause profonde dello sgombero del Volturno a ben sei anni di distanza dalla sua occupazione. Niente di strano, dunque, se un simile atto sia riuscito a raccogliere una solidarietà ampia: la stessa solidarietà che, nella serata di giovedì 20 luglio, ha portato oltre tremila persone a conquistare il percorso di un corteo non autorizzato, ma in grado comunque di attraversare il centro della città, da piazza Indipendenza fino a Porta Pia.

«Il Volturno», si diceva nel corteo parafrasando Vittorio Arrigoni secondo cui l’attacco a Gaza comincia sull’uscio della casa di chiunque, «è la nostra Palestina»: una situazione in cui, di fronte all’incomparabile superiorità di uomini e mezzi messi in campo dalla speculazione, bisogna in ogni caso trovare il modo di autorganizzarsi per dare una risposta concreta, pena un arretramento generalizzato del concetto stesso di diritto all’abitare fino a livelli difficilmente pensabili – nelle intenzioni dei padroni, ovviamente, fino al suo annientamento.

Mentre la rabbia e le lacrime del corteo defluivano, gli speculatori non restavano a guardare, né ovviamente davano prova di alcuna sensibilità. Il primo atto dei padroni del Volturno (le società che risultano eredi di ciò che è stato uno dei lotti messi in vendita dopo il fallimento Cecchi Gori appaiono come una serie di nebulose scatole cinesi), non a caso, è stato il gesto di asportare il murales di Sten e Lex che faceva bella mostra di sé all’entrata dell’ex cinema, per coprire il portone con una triste mano di vernice nera.

Qui le contraddizioni si fanno talmente fitte da riuscire a tagliarsi con il coltello. Il giorno stesso dell’occupazione del Volturno, infatti, si insediava a Roma Giovanna Marinelli in qualità di nuova assessora alla cultura. Una nomina politicamente in linea con le mosse del governo centrale, un personaggio che, iniziando a parlare di cultura a Roma, ha immediatamente specificato come questa possa essere salvata soltanto con l’intervento dei privati. Ed eccoli qui i privati santificati dallo sfrenato neoliberismo renziano: sono gli stessi che, mettendo le mani sul Volturno, procedono immediatamente alla distruzione di un’opera d’arte realizzata da due artisti di strada come Sten e Lex, i classici esempi di artisti che “tutto il mondo ci invidia”, senz’altro tra i nomi più importanti della street art internazionale, artefici di lavori in grado di conquistare gli appassionati di tutti i continenti e di trovare spazio persino in importanti ambiti museali (digitare il loro nome su Google per credere).

Ma parlare di queste cose con gli speculatori, ed evidentemente anche con i politici impegnati nella loro copertura, è davvero gettare le parole al vento. Quale ridicolo buzzurro, infatti, trovandosi in possesso di un’opera d’arte bella e importante come il pezzo di Sten e Lex al Volturno avrebbe come prima cosa deciso di distruggerla?

Quale crasso ignorante avrebbe proceduto a cancellare un pezzo dalla simile portata senza minimamente mettersi nell’ottica della sua cautela?

Ai padroni del Volturno, ma anche ai loro referenti politico-polizieschi, verrebbe da chiedere: che cosa altro fate nel chiuso delle vostre case? Mangiate ficcando il grugno in un trogolo? O per pulirvi il culo usate le mani?

Sarà anche il caso di sottolineare che se Sten e Lex avevano lavorato sul portone dell’ex cinema Volturno, all’interno del cinema c’è o c’era una delle più interessanti collezioni di street art capitolina, con opere di Hogre, Diamond, Solo, Borondo, Omino 71 e di tanti altri grandi dell’arte urbana, come il collettivo teatrale artefice di una serrata programmazione aperta a tutta la città (gratuitamente) e lo sportello per il diritto alla casa, trattati alla stregua di carta straccia dal famigerato partito della legalità, un’accolita di soggetti il cui comportamento – l’accanimento contro le opere d’arte e la loro distruzione – denota nei confronti della “cultura” lo stesso interesse che i palazzinari sono soliti accordare alla qualità del cemento utilizzato per le loro grandi opere speculative.

Lo scandalo dello Sten e Lex distrutto, naturalmente, non ha trovato alcuno spazio sui giornali. Ma come potrebbe essere altrimenti?

Sarà appena il caso di ricordare che ancora recentemente una “giornalista” (?!?) de «la Repubblica» ha appellato con il termine di «imbianchino» un artista come Blu nel momento in cui, tanto per restare sul terreno del rapporto tra arte e spazi occupati romani, dopo essersi occupato delle facciate di Acrobax e prima di dedicarsi ai muri di Alexis, realizzava un capolavoro davvero ammirato in tutto il mondo sulle facciate di Porto Fluviale.

La giornalista de «la Repubblica», dopo l’infelicità del suo pezzo, venne pubblicamente sbeffeggiata da chiunque avesse avuto un minimo di interesse per parole come “riqualificazione urbana” o, semplicemente, “arte” e “cultura”. Nel caso del Volturno, dunque, meglio scegliere il silenzio: continuare a dare corpo alla disinformazione e fare finta di nulla finché negli spazi dell’ex cinema possa finalmente concretizzarsi la destinazione pensata dai padroni, vale a dire una patetica sala slot, l’ennesimo tempio delle macchinette mangiasoldi da tirare su nel cuore di Roma.

Le chiacchiere stanno a zero. E anche la neo assessora alla cultura, in vista del tavolo strappato per il 21 luglio dopo un’azione animata dal collettivo teatrale del Volturno e dagli attivisti del diritto all’abitare, dovrà essere chiamata ad esprimersi chiaramente su questo. L’unico modello di evoluzione degli spazi cittadini presente nella testa dei padroni della metropoli è quello di un degrado assistito dalla presenza di sale slot che spuntano come funghi: poli delinquenziali in grado di far convergere in un unico amalgama e di nascondere dietro macchinette mangiasoldi stratificati interessi di tipo mafioso, dallo spaccio di cocaina in grande stile fino allo sfruttamento della prostituzione. E quale luogo migliore del Volturno per realizzare un progetto del genere?

Roma possiede già intere arterie, basti pensare al tratto finale della via Tiburtina, in cui questo modello di (sotto)sviluppo è più che una realtà: è l’imposizione violenta di quel divieto di pensare e agire che i padroni hanno conquistato impedendo ai cittadini di vivere le proprie strade e di imprimere il segno della loro presenza alle vie che abitano, orientandone aspetto e destinazione d’uso. Siamo davvero, e la distruzione dell’arte contenuta dal Volturno lo dimostra, alla nuova preistoria di pasoliniana memoria: un’epoca in cui, nel nome della messa a valore totalitaria di tempi e spazi, qualunque complessità di tipo intellettuale, culturale ed esistenziale viene messa al bando a favore di progetti capaci di rimuovere ogni sorta di rapporto dialettico con l’essere qui e ora come collettività e di consegnare al futuro le facce di una stessa medaglia: le asettiche e scintillanti vie del centro commerciale per le necessità diurne, le strade sordide delle slot machine per gli impulsi notturni; il trionfo del consumo e la polizia ovunque, la cultura e il diritto all’abitare da nessuna parte. Questo è il mondo che vuole essere disegnato addosso a tutte e a tutti. Mentre se non si sarà in grado di opporre un’argine all’esondazione di arroganza padronale che ha appena sommerso il Volturno, il governo dei comitati d’affari attualmente e schifosamente al potere continuerà a ghignare, a distruggere opere d’arte, ad affondare il grugno in città trasformate in mangiatoie e, per pulirsi il culo, ad usare le (nostre) mani.