Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle piazze? Una riflessione dopo la divisione delle curve dell’Olimpico

Il punto di domanda è d’obbligo considerando come sarà soltanto la realtà ad esprimere la misura e la direzione che assumeranno i fermenti sociali, in Italia come altrove. Di certo, di fronte alla feroce repressione da cui è stato attaccato negli ultimi anni, il movimento ultrà, al di là delle difficoltà – o delle possibilità – insite nell’esprimersi nei suoi confronti in termini unitari, ha spesso condensato la sua voglia di rivalsa nello slogan: «Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade».

Si tratterebbe, a ben vedere, di una sorta di “ritorno alle origini”. Non accadde, infatti, nel corso degli anni Settanta, che una fetta di popolo, spesso schierata a sinistra, iniziasse a trasferire nelle curve valori, nomi, cori e colori tratti direttamente dall’esperienza dell’antagonismo di classe?

E allo stesso modo, non è forse vero che con il passare del tempo pezzi importanti di sinistra salottiera e borghese iniziarono a stigmatizzare gli ultrà, delegittimando e isolando le radici popolari del movimento, fino a consegnare alla destra diversi stadi italiani?

Malgrado questo è innegabile come, anche in una stagione di forte disimpegno e deflusso, proprio negli stadi sia sopravvissuta e sia cresciuta una tendenza forte e organizzata, decisa a muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto ai valori dominanti, incarnati dall’odiosa paytv e sostenuti attraverso misure sul genere della tessera del tifoso, una delle tappe epocali nel percorso di disarticolazione del movimento ultrà, deciso a tavolino dalla politica parlamentare, espressione di precisi comitati d’affari, e dal suo braccio armato: le forze dell’ordine, la magistratura e gli addetti alla disinformazione in campo ideologico (leggi: giornalisti).

In queste settimane, mentre dalla Spagna arriva la notizia di nuove misure di identificazione, come il riconoscimento biometrico (!!!) per l’accesso allo stadio, a Roma, su iniziativa del prefetto Franco Gabrielli, le Curve dell’Olimpico vengono divise in due e durante la partita Roma-Juve la Sud viene profanata con la presenza diretta nel cuore dell’impianto sportivo di un concentramento di truppe degno della vera natura dell’iniziativa: l’occupazione militare di un territorio straniero.

Restando a Roma, dopo lo sgombero dello studentato occupato Degage, il provvedimento preso allo stadio Olimpico – che nel corso dell’ultimo Roma-Juve ha reagito in modo determinato ma non violento alla provocazione – è l’altra e sola iniziativa presa dalla Prefettura dopo aver promesso chissà che cosa in risposta alle polemiche per lo scandalo del faraonico funerale Casamonica: segno evidente di una priorità che può essere definita in tanti modi, ma non certo “legalitaria”.

Che la divisione delle Curve sia l’antipasto dell’avvento di uno stadio “finalmente” ridotto a salotto buono per un pubblico “bene educato”, educato cioè al pagamento senza fiatare di dazi sempre più alti, e alla sua riduzione a semplice tappezzeria per uno spettacolo teletrasmesso, sembra un dato di fatto. E sembra anche, uno spazio come quello dello stadio, telecamerizzato, scomposto, guardato a vista, trasformato in una prigione videosorvegliata e vigilata da personale armato oltre che riservato al teatro di una disciplina pesantemente contrassegnata da malaffare e corruzione, essere diventato particolarmente favorevole all’esercizio della repressione, all’accanimento contro gli episodi di resistenza al calcio moderno: espressione sinonimo di opposizione al modello economico imposto violentemente dal capitalismo imperante a tutto ciò che si muove, a cominciare dalle strutture autorganizzate dal basso e impegnate sul campo della riappropriazione diretta di reddito, case, sogni.

In questo contesto, l’idea di assistere a uno spostamento della lotta “dallo stadio alla strada” è una metafora interessante e tutta da scoprire, un ritorno all’antico che, chissà, verificando l’equazione “no al calcio moderno = no al capitalismo”, potrà realizzare quella che fu l’ultima profezia/invito di un osservatore-protagonista come il compianto Valerio Marchi. Perché, affermava Valerio nella sua Lettera agli ultrà, «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».

(Articolo scritto per Sportpopolare.it – 31 agosto 2015)

Dal sindaco al podestà: le nuove misure fasciste imposte dal Partito della Nazione di Matteo Renzi

Ieri a Bologna la Procura ci è andata giù pesante, notificando a Gianmarco De Pieri del centro sociale TPO il divieto di dimora nel capoluogo emiliano (è poco, ma a Gianmarco va tutta la nostra solidarietà).

All’attivista sono state concesse soltanto un pugno di ore per abbandonare la città dove vive e dove lavora, utilizzando un provvedimento (come il ricorrente reato di “devastazione e saccheggio”) preso di peso dal Codice Rocco, elaborato durante il regime mussoliniano per reprimere qualunque forma di dissenso, accostando le pratiche squadriste delle purghe e del manganello all’azione giudiziaria, grazie alla pratica del confino, subita da generazioni di antifascisti italiani.

La misura imposta a De Pieri è gravissima, ma purtroppo non è certo la prima volta che viene utilizzata. E se a Bologna ha già preso di mira chi non intende allinearsi con le compatibilità imposte dal renzismo in tema di casa, scuola e lavoro, a Teramo il divieto di dimora è stato utilizzato per punire gli antifascisti decisi a rispettare e a far rispettare l’eredità morale della Resistenza.

Quelli citati, purtroppo, sono solo alcuni esempi, niente affatto isolati. Ma dopo questa nuova svolta repressiva a Bologna è diventato naturale commentare come la città sia di fatto governata, più che da un’amministrazione eletta dai cittadini, da un organismo di polizia, nemico delle istanze sociali in quanto direttamente legato a un altro centro decisionale, vale a dire il comitato d’affari retto da Matteo Renzi a livello nazionale.

Questa osservazione, se applicata a Roma, sembra addirittura banale. In città, infatti, non ci si vergogna neppure – alla faccia del goffo Ignazio Marino – a sostenere che il vero sindaco si chiama Franco Gabrielli, un poliziotto passato per la Digos di Roma e Firenze, la prefettura de L’Aquila e la direzione del SISDE prima di essere nominato rappresentante del governo nella Capitale. Lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha sottolineato come a Gabrielli vada riconosciuta una delega speciale per quanto riguarda l’imminente Giubileo, una nomina che il «superprefetto» ha immediatamente festeggiato procedendo allo sgombero dello studentato occupato Degage.

Anche il divieto di dimora subito da De Pieri ha a che fare con uno sgombero: quello di Villa Adelante, una palazzina in viale Aldini che se condivide con la romana Degage lo stile liberty dell’immobile, più in generale ha a che fare con il pugno duro preteso dal Partito della Nazione di Renzi nei confronti di tutte le pratiche di riappropriazione. Case, studentati, centri sociali e, su questa falsariga, movimenti nati a tutela del territorio (ricordiamo quello che è successo a L’Aquila durante la recente visita di Renzi ai danni di chi rifiuta le trivellazioni dell’Adriatico?), ostacoli eliminabili, in ultima istanza, soltanto con la brutale violenza della polizia, in ossequio sia alle privatizzazioni imposte dall’Unione Europea, sia ai dettami del micidiale TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti), la cui devastante portata antipopolare non viene ancora percepita a livello di massa.

Quello che sta succedendo è che con il perdurare e l’avanzare di quel processo di ristrutturazione del Capitale a cui è stato dato il nome fin troppo tranquillizzante di “crisi” (vedi la buffonata dei finti dati sull’occupazione dopo il Jobs Act…), lo Stato non può affidare alle sue articolazioni periferiche, già completamente private di risorse e quindi rese appositamente inutili, né la gestione degli interessi padronali, né, tantomeno, l’ordine pubblico. Da qui l’esigenza di affidare direttamente alle prefetture il governo cittadino e regionale e la scelta di utilizzare la “legalità” come cavallo di Troia della persecuzione dell’attivismo e “l’efficienza” per ignorare norme, delibere e trattative strappati dai movimenti impegnati sul territorio. La misura decisa dal governo Renzi è scoperchiatamente antidemocratica, ma non è certo nuova. Durante il fascismo, per esempio, non ci si vergognava di comportarsi nell’identica maniera e una carica come quella di Gabrielli aveva un nome preciso: il podestà.

Podestà

Per capire di cosa si tratta, basta lasciare la parola a wikipedia. Ognuno, poi, sarà libero di trarre le proprie conclusioni:

In Italia il regime fascista introdusse la figura del podestà con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, una delle cosiddette leggi fascistissime. Dal 21 aprile 1927 al 1945 gli organi democratici dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà, nominato con regio decreto per cinque anni e in ogni momento revocabile. Nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti il podestà poteva essere affiancato da uno o due vice-podestà (a seconda che la popolazione fosse inferiore o superiore a 100.000 abitanti), nominati dal Ministero dell’Interno. Il podestà era inoltre assistito da una consulta municipale, con funzioni consultive, composta da almeno 6 consultori, nominati dal prefetto o, nelle grandi città, dal Ministro dell’Interno.

Un’ultima considerazione. Ancora nei giorni scorsi, a Follonica, una signora è morta dopo aver mangiato (probabilmente la classica salamella) alla locale festa del Partito Democratico. La notizia è straziante. Ma se scegliere di andare alla festa del Partito Democratico è già un dramma, consentire che il Partito Democratico faccia la festa all’Italia sarà un’ecatombe.

E a proposito. Follonica è in provincia di Grosseto, la stessa città dove è nato il podes… scusate, il prefetto Gabrielli.