Piero Bruno: passione e morte di uno studente comunista

22 novembre, giornata storta. Il cielo grigio promette la pioggia e il vento se la prende con chi passa per le strade di Roma, quasi urlando che è meglio per tutti restare a casa. Ci sono giorni, però, in cui la libertà non accetta di restare casa. Non lo accetta l’8 giugno del 1960, tra Catete e Bengo, quando alla notizia dell’arresto di António Agostinho Neto una folla di sostenitori del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA) si mette in marcia reclamando il rilascio del loro leader. E non lo accetta nemmeno in Italia, il 22 novembre del 1975, mentre un corteo di duemila persone affronta il freddo intenso per chiedere a gran voce il riconoscimento dell’indipendenza della nazione africana, uscita vincitrice dal confronto con il regime coloniale portoghese.
L’8 giugno del 1960 l’esercito di occupazione del dittatore lusitano António de Oliveira Salazar aveva aperto il fuoco sulla folla ammazzando trenta persone. A Roma, quindici anni dopo, dalla testa del corteo che si snoda tra piazza Santa Maria Maggiore e piazza Navona si sgancia un gruppetto di giovanissimi militanti di Lotta Continua. I duemila che hanno preso parte alla manifestazione continuano a gridare slogan contro l’imperialismo e a salutare, nell’Angola di Neto, un altro paese in cui il marxismo ha consentito di portare al potere un rappresentante del proletariato. Le parole d’ordine della manifestazione sono musica per le orecchie dei ragazzi che imboccano via Muratori: lì, all’incrocio con largo Mecenate, c’è il cancello dell’ambasciata dello Zaire, uno Stato che attraverso il governo del feroce Mobuto sostiene per conto degli Stati Uniti le forze che si oppongono ai movimenti popolari in Africa centrale. Nell’animo di quel pugno di manifestanti c’è la volontà di andare oltre gli slogan e per questo, istruiti dal servizio d’ordine di Lc, alcuni giovani stringono tra le mani biglie d’acciaio e bocce piene di benzina, l’ingrediente necessario per portare a termine un’azione dimostrativa; una “fiammata”, come si diceva negli anni Settanta, da accendere in faccia ai nemici della Repubblica popolare dell’Angola per fare arrivare fino in Africa il rumore del Movimento e la sua solidarietà.
Idee ambiziose, quelle che girano per Roma il 22 novembre. Idee destinate a restare sull’asfalto. Perché quando il gruppo di ragazzi arriva a intravedere il portone dell’ambasciata dello Zaire si sente gridare: «Eccoli! Eccoli!».
Non c’è nemmeno il tempo di indietreggiare. Un gruppo di poliziotti e carabinieri, appostato nelle vicinanze, inizia a sparare. Le bottiglie incendiare volano senza procurare danni. Viene lanciato qualche sasso e due macchine, trascinate in mezzo alla strada, sono rovesciate per evitare una carica. Per difendersi è troppo tardi: due manifestanti sono feriti alla testa ma, miracolosamente, riescono a mettersi in salvo rientrando nel corteo; un terzo, colpito alla schiena, si accascia: il suo nome è Piero Bruno. Sulla sua carta di identità c’è scritto che è nato a Roma l’8 dicembre del 1957.

Piero abita alla Garbatella insieme ai genitori e a due sorelle. Studia da elettrotecnico e ama tante cose: la musica, le immersioni subacquee e Barbara. La mattina varca il portone dell’istituto tecnico industriale Armellini, per il resto, oltre a frequentare la sezione di Lotta Continua della Garbatella: «Faceva ciò che era giusto fare: autoriduzioni nei lotti popolari, gruppi di studio per evitare bocciature, cortei, collettivi».
In via Muratori, Piero è solo un corpo che urla di dolore: qualcuno gli si avvicina tentando di metterlo in salvo ma neppure adesso, quando è palese che nessuno è più in grado di nuocere in alcun modo, viene dato l’ordine di far tacere le armi. Il soccorritore viene colpito a un braccio e le pallottole infieriscono ancora sul ragazzo steso a terra ferendolo nuovamente, questa volta al ginocchio. Tanto basta ai tutori dell’ordine per sentirsi finalmente padroni della situazione. Un agente senza divisa esce allo scoperto e il modo in cui tratta Piero non sfugge allo sguardo allibito di una signora affacciata alla finestra di casa sua, in via Muratori:

Ho […] sentito che il ragazzo disteso per terra di lamentava e contemporaneamente ho visto un uomo in borghese sbucare attraverso i poliziotti che si è avvicinato di corsa al ragazzo, disteso per terra urlando, presso a poco «Ti pare questo il modo di ammazzare un collega» e ancora, «Cane, bastardo, carogna», ho quindi visto che l’uomo ha puntato la pistola verso il ragazzo disteso per terra, urlando «Ti ammazzo» e ho sentito il clic del grilletto. Il ragazzo ha gridato «No» ed ha fatto il gesto di coprirsi il volto con le mani. Quindi l’uomo, chinandosi sul ragazzo gli ha detto «ma io ti ammazzerei veramente» e lo ha scosso (dichiarazioni rese da una testimone alla competente autorità giudiziaria, 1975).


Piero Bruno, in realtà, non ha ammazzato nessuno. Eppure gli insulti non sono l’unica forma di mistificazione praticata quel pomeriggio dalle forze dell’ordine. L’ospedale San Giovanni è vicinissimo al luogo dell’agguato ma, anziché correre al pronto soccorso, si preferisce trascinare il ferito per decine di metri per fare in modo che il suo corpo finisca molto più vicino all’ambasciata dello Zaire e dare l’idea che i proiettili lo abbiano raggiunto mentre attaccava la polizia e non, come è accaduto, mentre tentava la fuga. Gli stessi bossoli, esplosi in una quantità così numerosa da formare un tappeto lungo la strada insanguinata, vengono raccolti in fretta: l’esatto ammontare del loro numero, in questo modo, non potrà mai più essere appurato.
Intanto si perde tempo prezioso. Sono soltanto le venti e trenta quando, con i proiettili in corpo e addosso il pallore dei morti, Piero Bruno entra in sala operatoria. Per “sicurezza” la polizia lo piantona come se fosse nelle condizioni di poter scappare da un momento all’altro. E lui, con un filo di voce, ha ancora la forza di sussurrare: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi…».
Sono le sue ultime parole. Piero riesce a superare la notte ma, dopo due interventi chirurgici e il sopraggiungere di un blocco renale, nel pomeriggio del 23 novembre del 1975 smette di respirare. Gli mancavano soltanto quindici giorni. Poi avrebbe festeggiato il suo diciottesimo compleanno.

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Ma chi ha ucciso Piero Bruno?

Quando questa domanda viene posta in relazione al nugolo di militanti di sinistra uccisi dalla polizia la risposta più caratteristica è il silenzio mentre depistaggi e forzature giuridiche sono la regola più che l’eccezione della via giudiziaria alla ricerca della verità su chi muore per motivi di “ordine pubblico”.
Il caso di Piero Bruno, da questo punto di vista, è diverso dagli altri ma allo stesso tempo più atroce. Molto semplicemente, infatti, è stato possibile risalire all’identità dei militi che, agli ordini del vicequestore Ignazio Lo Coco, aprirono il fuoco il pomeriggio del 22 novembre 1975. I loro nomi, con le loro testimonianze, sono ancora lì, insieme ai buchi sui palazzi di via Muratori, tra le carte di un’inchiesta aperta dalla Magistratura per fare luce sul caso.

Si tratta del sottotenente dei carabinieri Saverio Bossio: «Ho esploso due colpi di pistola in direzione di un gruppo di persone col volto coperto che si trovava alla fine di via Muratori dalla parte del quadrivio».

Della guardia di pubblica sicurezza Romano Tammaro: «Mi sono avvicinato a loro sulla destra, ed ho visto un ragazzo a terra e due che lo trascinavano. Ho preso la pistola ed ho esploso dei colpi a scopo intimidatorio. I colpi erano diretti a terra».

E del carabiniere Pietro Colantuono: «I colpi che ho sparato, stando in piedi, li ho esplosi con l’avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e quelli che ho esploso da terra, con l’avambraccio verso l’alto sempre in direzione del gruppo di giovani».

All’appello manca soltanto un altro personaggio, il più importante e, in un processo virtuale, senz’altro l’imputato principale. Si tratta di Oronzo Reale: il ministro degli interni a cui si deve la paternità della legge che porta il suo nome.

La Legge Reale, approvata il 22 maggio del 1975, concede alle forze dell’ordine di utilizzare le armi da fuoco con estrema disinvoltura, rende possibile la perquisizione personale senza l’autorizzazione di un magistrato, prescrive l’arresto per chiunque sia trovato in possesso di “armi improprie” (lasciando alle forze dell’ordine la discrezionalità di decidere cosa possa essere considerato arma impropria) e reintroduce la misura del soggiorno obbligato per ragioni politiche già in auge nel periodo fascista. Le conseguenze di queste misure sono note: soltanto tra il 1975 e il 1990 sono almeno 685 le persone uccise sulla base della legge Reale e, tra queste, almeno 208 sono risultate colpevoli soltanto di non essersi fermate a un posto di blocco o, più tragicamente, si essersi trovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Qualsiasi momento, cioè, in cui la polizia perde la testa e spara.
Con questi presupposti la sentenza di archiviazione pronunciata dal giudice istruttore in relazione alla morte di Piero Bruno nel 1976 è poco più di una formalità. A nulla serve un collegio difensivo che, nel tentativo di fare chiarezza sull’omicidio del ragazzo, arruola il senatore Umberto Terracini e Giuseppe Mattina, uno dei fondatori di Soccorso Rosso. Nelle aule in cui venne discusso il caso furono sostenute le teorie più assurde, come quella di un colpo di pistola che rimbalza sul terreno e, colpendo il ginocchio di Piero Bruno, impegnato in una torsione mentre lancia una molotov, si incunea nel suo corpo fino a risalire lungo la spina dorsale lacerandogli l’aorta. Una battuta di Dario Fo legata alle tante morti violente di quegli anni recita: «Non è la polizia che spara per uccidere, sono gli studenti che volano».
Ma c’è poco da ridere. Assolvendo i poliziotti che spararono a Piero il giudice sentenzia: «Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i principi di diritto».

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La storia, per fortuna, non si fa nelle aule dei tribunali. E se gli stessi giudici, avvolti nelle loro toghe lucide e nere, possono essere inappuntabili quando si tratta di applicare alla vita quotidiana le regole della legalità, la giustizia resta comunque un’altra cosa. Che si tratti di sensibilità, di utopia o di «istinto di classe», nella sentenza che archivia il caso di Piero Bruno di giustizia non c’è traccia. Per recuperare questo sentimento, lo stesso in cui eccellono i folli e i bambini, bisogna cercare altrove. Nelle parole «tu vivrai», per esempio. Cioè in un verso della poesia La libertà è un sogno scritta da Antonio Pinto, un soldato impegnato nella guerra d’indipendenza angolana commosso alla notizia di un compagno morto per la sua stessa causa in un Paese tanto lontano:

La libertà è sogno / sogno colmo di desiderio / lungo cammino di guerra e d’amore / percorso da gente di ogni terra / cammino di proletari, di guerriglieri.
È volontà ferma / di chi soffre, di chi vince / sul cammino del futuro, che è nostro.
Libertà è grido / è grido che tu hai gridato / arma che tu hai impugnato / sete che non hai saziato / vita che hai perduto.
Vermi ti rubarono la vita / vermi si nutrono ora del tuo corpo.
Ma tu vivrai!
E viva sarà la volontà nei cuori / che un altro mondo e gente vedranno / oltre il tuo esempio luminoso / vivrai!
Di te che lontano sei caduto per la nostra causa questo ci resta: / la libertà non è di un solo popolo / da te ci viene la forza / perché la lotta continui / fino alla vittoria finale.

Ancora nel corso delle celebrazioni per il trentennale, alla Garbatella si inaugura il murales realizzato dal CSOA “La Strada”: un affresco dove, al volto di Piero, si affianca quello di Carlo Giuliani, ucciso nel corso della protesta organizzata a Genova contro il G8 del 2001.

Si tratta di una connessione che non è dettata soltanto dal destino che, a distanza di tanti anni, riesce a iscrivere il nome di Piero Bruno e quello di Carlo Giuliani nello stesso libro nero della giustizia negata, ma anche dalla volontà di affermare la forza di una tradizione importante e fin troppo spesso dimenticata. La stessa tradizione che negli anni Settanta, per capire i propri morti, ricorreva alla memoria della Resistenza e che, se si trattava di parlare di ragazzi come Piero Bruno, non aveva dubbi: “nuovi partigiani”; questo è il loro vero nome.

Brescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia

Cresciuto nell’ambiente dell’estrema destra bresciana, Silvio Ferrari, ventuno anni appena, ha un piede nella redazione del periodico «Anno Zero» e l’altro dentro “La Fenice” di Giancarlo Rognoni. Tra le sue frequentazioni spiccano quelle con i sanbabilini milanesi: la manovalanza di un disegno in cui, attentato dopo attentato, fioriscono sigle come quella del Movimento d’Azione Rivoluzionaria (Mar) di Carlo Fumagalli e delle Squadre d’Azione Mussolini (Sam) di Giancarlo Esposti, organizzazioni eversive impegnate a seguire la scia dell’appena disciolto Ordine Nuovo (e del suo erede “Ordine nero”) e di Avanguardia Nazionale, ognuna con i suoi interlocutori (e i suoi finanziamenti) all’interno dei servizi segreti, ognuna costretta a guadagnare la propria sopravvivenza lottando contemporaneamente su due fronti: 1) in mezzo alla gente, con lo scopo di seminare indiscriminatamente morte e distruzione per favorire un intervento militare che favorisse l’avvento di un colpo di Stato; 2) all’interno del sistema, per spingere nella direzione di una soluzione “dura”, prevedendo l’instaurazione di un regime dittatoriale simile a quello installatosi nella Grecia dei Colonnelli e destinato a imporsi anche nel Cile di Pinochet; o, viceversa, per favorire un approccio “morbido” alla gestione politica italiana: un Paese nel quale i fermenti sociali si sarebbero potuti tenere sotto controllo anche acquisendo il controllo dei mezzi di informazione, limitando le garanzie sancite dalla Costituzione e invocando la necessità di riforme in grado di scambiare una democrazia di tipo parlamentare con un repubblica presidenziale.

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aa.Silvio-Ferrari-1Esiste una fotografia che mostra il corpo di Silvio Ferrari orrendamente dilaniato. Uno scempio provocato da mezzo chilo di polvere da mina mescolato a mezzo chilo di tritolo. Sigillata all’interno di un pacco, la bomba, prima di esplodere, si trovava tra le gambe di Ferrari, evidentemente incaricato di trasportare l’ordigno per conto di qualcuno o di andare a piazzarlo chissà dove. Non si conoscono le intenzioni del giovane fascista né, tanto meno, è nota l’identità del mandante ma, alle tre di notte del 18 maggio 1974, il vespino di Ferrari è fermo a Brescia, in piazza del Mercato, quando salta in aria insieme al suo conduttore. La deflagrazione ha una forza in grado di rompere i vetri ai palazzi del quartiere, eppure l’iniziale ipotesi di uno scoppio accidentale durante il trasporto viene smentita dalla perizia disposta sull’esplosivo e sui resti del ragazzo:

È parere concorde dei periti che l’esplosivo fosse innescato con detonatore elettrico e l’accensione organizzata a tempo prestabilito mediante congegno a orologeria ottenuto con una sveglia di marca “Europa”. Sulle cause dello scoppio, la posizione di Silvio Ferrari e della motoretta, i periti ritengono che la Vespa non fosse in movimento. Il Ferrari era seduto sulla Vespa con il busto reclinato in avanti, le braccia appoggiate al manubrio e i piedi a terra. La perizia esclude che l’esplosione sia dovuta a un fatto accidentale. L’ordigno sarebbe invece esploso al momento prestabilito.

Detto in altri termini: Silvio Ferrari non è vittima di un “incidente” ma sarebbe stato assassinato.

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La notizia dell’esplosione avvenuta la notte del 18 maggio in piazza del Mercato è come una frustata su nervi già estremamente scossi. È dal 29 gennaio, quando tre ordigni innescati dalle Sam saltano contemporaneamente a Milano, che in Lombardia esplodono le bombe e si spara per le strade: numerosi militanti di sinistra sono feriti con le spranghe e i colpi di pistola nel corso di raid organizzati dagli ultras di estrema destra mentre le sedi delle loro organizzazioni vengono devastate. Gli attentati di marca neofascista provocano anche un morto a Varese, il 28 marzo, quando, in piazza Maspero, un fioraio perde la vita per la deflagrazione di una carica di esplosivo occultata tra i banchi del mercato.

La morte di Silvio Ferrari segna una misura già colma. Eppure, dopo la notte del 18 maggio, il tempo della paura non si limita a sfogare le sue ansie in piazza del Mercato ma, dichiarando guerra a tutta la società civile, continua a proferire minacce come quelle contenute in un volantino recapitato al «Giornale di Brescia» (ma, d’accordo con la Questura, mai pubblicato) e riferite a un sedicente “Partito Nazionale Fascista – sezione Silvio Ferrari”.

Brescia non ha altra scelta: la città insorge contro il terrore nero e il Comitato antifascista si mobilita. Al termine di una riunione a cui, con l’esclusione del Movimento sociale, partecipano tutte le forze dell’arco costituzionale e i sindacati, per la giornata di martedì 28 maggio viene indetto un sciopero e annunciata una manifestazione. L’occasione è talmente grave e importante da auspicare la più grande partecipazione popolare e questo è quello che chiedono a Brescia i rappresentanti del Comitato all’indomani dell’orrenda morte di Ferrari:

Cittadini bresciani,

ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Per richiamare i democratici all’unità e alla vigilanza antifascista, perché sia con fermezza colpita ogni trama fascista, perché oltre agli esecutori materiali della violenza siano assegnati alla giustizia i mandanti ed i finanziatori, il Comitato permanente antifascista indice per martedì 28 maggio ore 10 in piazza Loggia una manifestazione antifascista in concomitanza con lo sciopero generale proclamato dai sindacati. Partecipano Franco Castrezzati, a nome delle organizzazioni sindacali e l’on. Adelio Terraroli, a nome delle forze politiche.

Ore 9: concentramento a piazza Garibaldi – Porta Trento – piazza Repubblica. Ore 9 e 30: partenza cortei per piazza Loggia. Ore 10: comizio pubblico

(Testo del manifesto redatto dal Comitato unitario permanente antifascista di Brescia e sottoscritto da Dc – Pci – Psi – Pri – Cgil-Cisl-Uil – Anpi – Ffvv – Aned – Anppia – Acli – Cogidas).

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L’antifascismo chiama e Brescia risponde. Il 28 maggio nella “Leonessa d’Italia” scendono in piazza migliaia di persone: lavoratori, militanti di sinistra, ex partigiani e cattolici del dissenso decisi a far sentire la propria voce. Al contrario di quanto accade nel corso degli scioperi “normali”, questa volta non si incrociano le braccia per sostenere una rivendicazione di tipo salariale ma per protestare contro il rigurgito di violenza che sta tormentando la regione e per sostenere i valori della democrazia. Alle 10 il luogo in cui si deve tenere il comizio è già pieno da un pezzo ma, dalle vie adiacenti, i cortei partiti da piazza Garibaldi, Porta Trento e piazzale della Repubblica continuano ad alimentare la folla. Per l’occasione, in piazza della Loggia è stato allestito un grande palco ornato con il panno rosso e sormontato dalle bandiere tricolore, e, all’ora convenuta, gli altoparlanti cominciano a diffondere le parole di Franco Castrezzati della Cisl, deciso a tenere un discorso in cui l’episodio che ha visto protagonista il giovane Ferrari viene inquadrato all’interno di un più ampio e inquietante scenario nazionale:

Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di chiara marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obbiettivi precisi. […] Si attenta alla vita umana che è un diritto naturale. Si innescano ordigni esplosivi contro sedi di partito, sindacati, cooperative, col proposto di intimidire. Il propellente à ancora una volta l’ideologia fascista. […] La nostra costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista. Eppure il Moviemento sociale italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana, ordinava fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e istituzionale.

A Milano…

«A Milano – avrebbe potuto continuare Castrezzati, riferendosi magari alle bombe del 1969 e alla strage di piazza Fontana – l’Italia è stata spinta sul baratro di una guerra civile da una carneficina senza precedenti che, accanto all’impiego di manovalanza fascista, lascia intravedere anche pesanti responsabilità da parte di importanti autorità dello Stato…».

Il sindacalista bresciano, però, non avrebbe mai avuto modo di completare il suo ragionamento. Sta parlando da pochissimi minuti quando, alle 10 e 12, l’aria viene raggelata da un rumore secco e assordante, simile a una fucilata. Istantaneamente, la piazza piomba in qualche secondo di silenzio irreale. Come se stesse trattenendo il fiato per prepararsi a un urlo spaventoso, la folla ammutolisce prima di sprofondare nel panico totale. C’è chi scappa, chi si dispera, chi, allucinato, resta immobile, con lo sguardo sbarrato:

Piazza della Loggia sembra una nave in tempesta, con la folla che ondeggia, prende a sussultare e poi a sbandare mentre bandiere e striscioni cadono a terra, la gente urla e molti fuggono. Sulla piazza, lungo i portici e davanti al cestino della morte è l’inferno: pezzi di gambe e di braccia, resti umani, feriti lievi e feriti gravi, persone agonizzanti, morti. C’è chi urla e chi si lamenta, i mariti cercano le mogli e le mogli i mariti, altri invocano il nome di un parente, altri ancora si aggirano come fantasmi con brandelli di vestiti tra le mani mentre qualcuno, muto, senza lacrime e senza espressione, fissa il vuoto (Giancarlo Feliziani, Lo Schiocco, Limina, Arezzo 2006).

Nel marasma generale, dalla voce aggrappata al microfono, sul palco degli oratori, vengono fuori frase intrise di fumo, avvertimenti acri come l’odore della paura e della polvere da sparo:

Aiuto… state fermi.

Compagni e amici, state fermi, calma. State calmi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone all’interno della piazza. State all’interno della piazza. Lavoratori, all’interno della piazza. Il servizio d’ordine… state calmi, tutti sotto il palco, lasciate il passo alla Croce Bianca… sotto il palco, portatevi alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza verso il palco, lavoratori… lascia… lasciate il passo, lavoratori… rechiamoci tutti in piazza della Vittoria, lasciate il passo alle macchine per il soccorso, tutti in piazza della Vittoria. Compagni, il senso di responsabilità in questo momento… andiamo in piazza della Vittoria, lasciate il passaggio alle macchine, lasciate il passaggio alle macchine…

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Sette etti di esplosivo nascosti in un cestino di rifiuti proprio sotto il porticato: questa è stata l’arma usata dei terroristi per provocare quello scempio di arti strappati dai corpi e sangue che devasta piazza della Loggia dopo l’attentato. Un’intenzione criminale favorita dall’inclemenza del tempo e dalla pioggia battente che, la mattina del 28 maggio, ha spinto i manifestanti ad accalcarsi dove era possibile trovare un riparo.

Per otto di loro, quell’intenso attimo di luce che precede l’urto di un’esplosione, è il confine che separa la vita dalla morte. La vita, nella fattispecie, è quella densa di impegni vissuta da Livia Bottardi, trentadue anni, professoressa attiva nella cgil Scuola. Livia, la mattina del 28, va in piazza anticipando di poco Manlio Milani, suo marito, un operaio. I due, da una parte all’altra dei portici, fanno in tempo a vedersi, a sorridersi, a farsi un cenno con la mano… ma dopo l’esplosione Manlio resta solo e gettarsi a capofitto nella folla che scappa via terrorizzata per trovarsi a stringere il corpo di Livia non serve a nulla. Manlio spera fino all’ultimo, continua ad abbracciare Livia anche sull’ambulanza ma… «Ormai è morta», sono le parole che non avrebbe mai voluto ascoltare, pronunciate da un’infermiera a testa bassa, nell’androne dell’ospedale.

Insieme a Livia, a Brescia cadono altri quattro insegnanti, tutti attivi all’interno del sindacato e amici tra di loro. Soltanto la sera prima della Strage, a cena con Livia e Manlio c’erano anche Clementina “Clem” Calzari e Alberto Trebeschi. Lei, trentuno anni, ragazza molto bella, non aveva avuto paura di affrontare i pregiudizi quando si era trattato di opporsi alla volontà del padre, convinto che per una ragazza non stesse bene proseguire gli studi, ed era diventata professoressa di latino. Lui, trentasette anni, laureato in fisica ed esperto di filosofia della scienza, è l’autore di un’importante ricerca intitolata Fisica e filosofia, redatta con la collaborazione della stessa Clementina. Tra le pagine del suo diario c’è una frase che resta a rappresentarlo meglio di un autoritratto: «Se mi andasse si perdere il sapore del travaglio intellettuale, in me rimarrebbe esclusivamente l’animale e questo rappresenterebbe il primo passo verso la morte, la vera morte che è quella dello spirito».

Coppia felice e innamorata, Clementina ed Alberto non avevano rinunciato alle proprie idee nemmeno quando si era trattato di sposarsi: erano disposti ad andare incontro alla madre di Clementina che non accettava l’idea di una convivenza ma la cerimonia che li avrebbe dichiarati marito e moglie non si sarebbe tenuta in chiesa bensì in municipio. Poi ci avrebbe pensato Giorgio a cementare la loro unione: un ragazzino che, a nemmeno due anni, è costretto a vedere i nomi di entrambi i genitori tra quelli delle vittime della Strage.

In questo macabro elenco c’è anche Luigi Pinto, venticinque anni, sposato con Ada, nato Foggia e arrivato a Brescia dopo aver lavorato in uno zuccherificio in Puglia e alla Sir di Porto Torres, in Sardegna. L’incarico di insegnante di Educazione tecnica, per lui, è un punto d’arrivo importante visto che il contatto con i giovani – insieme alla politica – è la cosa che lo appassiona di più. Quando arriva in ospedale, insieme a più di cento feriti, Luigi respira ancora: la sua tempra è forte e, a tratti, sembra che ce la possa ancora fare… invece morirà il primo di giugno, dopo tre giorni di coma.

Oltre a lavorare per la Cgil Scuola, Luigi frequentava il circolo di Avanguardia operaia, lo stesso in cui è di casa un’altra compagna del sindacato: Giulietta Banzi in Bazoli, trentaquattro anni, detta anche “Giulietta la rossa”, come la bandiera che adornerà la sua bara il giorno dei funerali. Sposata a un assessore della Democrazia cristiana anche se convinta sostenitrice del marxismo-leninismo, Giulietta, madre di due figli, insegna francese senza avere nessuna necessità di ricorrere ai formalismi autoritari che, troppo spesso, separano il professore dai suoi allievi. Allievi che, riuniti in assemblea subito dopo la notizia della carneficina, si dimostreranno perfettamente in grado di mettere in pratica il sapere appreso insieme alla loro insegnante inquadrando con lucida precisione i meccanismi nascosti dietro la bomba di piazza della Loggia: «Di fronte al tentativo di mistificare i connotati politici di questi caduti – sostengono gli studenti della Banzi – facendoli passare per individui casualmente coinvolti nella Strage, è necessario testimoniare l’impegno politico che li ha portati al sacrificio».

Gli studenti della Banzi hanno ragione. Perché l’impegno politico è esattamente ciò che tiene insieme non soltanto il gruppo degli insegnanti – tra l’altro spesso richiamati dalla stessa direzione della cgil in quanto accusati di “sorpassare a sinistra” le linee-guida del sindacato – ma anche gli altri caduti di piazza della Loggia.

Tra gli iscritti al sindacato, per esempio, c’è l’artigiano Bartolomeo Talenti detto Bartolo, cinquantasei anni: una mago nella manutenzione e nella riparazione delle armi, mestiere che aveva appreso direttamente dal padre; ma anche un militante talmente esperto da guadagnarsi tra i più giovani il soprannome di “papà”.

Ancora dalle fila del Partito comunista, con un passato nei Gruppi di azione partigiana, viene Euplo Natali: sessantanove anni e, alle spalle, un licenziamento provocato dal suo acceso antifascismo ma anche, dopo la Liberazione, l’orgoglio di avere rappresentato il Cln nella provincia di Brescia.

Anche l’operaio Vittorio Zambarda è iscritto al Pci praticamente da sempre: dopo una vita di lavoro durissimo, avrebbe dovuto iniziare a riscuotere la pensione. L’esplosione della bomba, però, non gli consentirà mai di andarsi a mettere in fila all’ufficio postale ma lo tormenterà con una lunga agonia, chiusa dal sopraggiungere della morte soltanto il 15 giugno, diciotto giorni dopo l’attentato.

Sono questi i morti provocati dalla bomba fascista di piazza della Loggia: «Non si chiamino vittime ma caduti consapevoli», si dirà di loro, per sottolineare come, a differenza delle altre stragi compiute dall’eversione nera in Italia, quella di piazza della Loggia non è stata pensata per colpire nel mucchio ma per abbattersi sui settori più progressisti dell’opinione pubblica. Come preciserà nel 1993 nella sua sentenza-ordinanza il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, la strage di Brescia è quella «a più alto tasso di politicità nel novero delle stragi che hanno scandito la storia d’Italia dal 1969».

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Cosa c’è di peggiore della morte?

Non c’è niente di peggiore della morte. A parte il comportamento – a metà strada tra l’incompetente e il complice – di chi esisterebbe (polizia e magistratura inquirente) proprio per impedire che un fatto come quello di Brescia possa accadere o, al limite, per portare un contributo di verità alle ragioni più profonde di un simile lutto. Il comportamento a metà strada tra l’incompetente e il complice, passando in rassegna la gestione investigativa e giudiziaria della strage di piazza della Loggia, è quello della questura di Brescia e del dottor Aniello Diamare, uno dei suoi massimi dirigenti. Perché la bomba è esplosa da poco più di un’ora quando il funzionario, spinto da un lampo di follia o da chissà cosa, ordina ai pompieri di accorrere sulla scena del delitto per irrorare la piazza con potenti getti d’acqua. In questo modo piazza della Loggia viene tirata a lucido: dopo mezzogiorno non ci sarà più traccia del sangue versato e, naturalmente, nemmeno più traccia di qualsiasi reperto in grado di dispensare indizi sull’identità dei bombaroli e sugli autori della Strage.

Perché il vicequestore Diamare ordinò ai pompieri di lavare la Piazza?

L’attitudine delle forze dell’ordine a ripulire la scena del delitto, quando si tratta di stragi, più che un errore o una manifestazione di pura incompetenza è una specie di tradizione. Già nel 1944, a Palermo, quando un battaglione di soldati aprì il fuoco su una folla inerme, subito dopo l’eccidio si procedette a lavare via Maqueda e le strade circostanti. Ancora nel 1969, il giorno della strage di piazza Fontana, un altro ordigno inesploso venne immediatamente fatto brillare dagli artificieri di Milano con il risultato di distruggere per sempre una prova preziosa.

Si tratta di stranezze più che sospette che, nel caso di piazza della Loggia, iniziano addirittura prima dell’esplosione della bomba. Ai bresciani abituati a partecipare alle manifestazioni, infatti, il 28 maggio non sfuggì il movimento dei carabinieri incaricati di svolgere il servizio di vigilanza che, poco prima dell’inizio del comizio, abbandonarono il loro solito presidio – collocato esattamente sotto i portici, nei pressi del cestino contenente l’ordigno – per schierarsi all’interno del cortile della Prefettura. Si potrebbe pensare a un gesto di buona educazione, compiuto dagli uomini al comando del vicequestore Diamare e del tenente Ferrari per dare modo a chi affluiva in piazza della Loggia di trovare un riparo… un presunto atto di distensione che è difficile interpretare come tale tenuto conto che, subito dopo l’esplosione e poco prima che gli idranti dei pompieri iniziassero ad annacquare l’inchiesta, i manifestanti superstiti vennero sgombrati dalla piazza a manganellate!

Come mai Diamare e Ferrari spostarono i loro uomini dal porticato di piazza della Loggia al cortile della Prefettura?

Per completare il profilo della Questura di Brescia si deve ancora aggiungere una cosa. Quando si tratta di esprimersi sulla natura della Strage, le prime dichiarazioni ufficiali, insieme alle tracce lasciate sulla Piazza, cercano di rimuovere anche la matrice politica dell’attentato: «Indaghiamo in tutte le direzioni – si sentenzia dalla Questura – ma chi può escludere che si sia trattato del gesto di un folle?» (citato in «Paese Sera» del 30 maggio 1974).

Per le questure italiane, l’attitudine a negare le responsabilità della destra relativamente agli episodi più sanguinosi degli anni di piombo, sembra essere una sorta di abitudine: un comportamento che, oltre a causare gravi perdite di tempo compromettendo l’esito delle investigazioni, priva i cittadini di una sponda istituzionale credibile, erodendo in maniera irreversibile qualunque idea di fiducia nei confronti dei rappresentanti del potere centrale.

Non a caso, una volta appresa la notizia della strage, tutta l’Italia insorge riversando la propria rabbia nelle strade e scagliandosi spesso contro le sedi del Movimento sociale e i luoghi di ritrovo della destra. A Brescia, in modo particolare, i fischi che sommergono le massime cariche dello Stato durante i funerali delle vittime di piazza della Loggia rappresentano in modo crudo ed eloquente una vera e propria chiamata in correità da cui, uomini come il presidente del Consiglio Mariano Rumor, il ministro Paolo Emilio Taviani e lo stesso presidente della Repubblica, Giovanni Leone, non riescono a sottrarsi. Con le mani tremanti, Leone dovrebbe essere a Brescia per esprimere la sua solidarietà ai familiari di Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina “Clem” Calzari, Euplo Natali, Alberto Trebeschi, Luigi Pinto e Bartolomeo “Bartolo” Talenti, ma, una volta arrivato sul palco riservato alle autorità, troverà l’assessore della Dc Luigi Bazoli, il marito di Giulietta Banzi, pronto ad afferrarlo per il bavero e a dirgli senza mezzi termini: «Caro Presidente basta con queste cose… Dobbiamo smetterla, impedire, non possiamo più accettare che questo avvenga, basta… Non possiamo permettere che avvengano queste cose nel nostro Paese…».

Giovanni Leone non è certo l’interlocutore più adatto a raccogliere la domanda di moralità avanzata prepotentemente dalla piazza… i voti del Msi grazie ai quali, nel 1972, è stato eletto Presidente pesano come macigni nel momento in cui il «marchio di fabbrica» della destra eversiva si stampa in maniera indelebile sulla Strage. La pista nera – malgrado i tentennamenti iniziali e i tentativi con cui il «Secolo d’Italia» proverà ad attribuire l’attentato alle Brigate rosse – inizia velocemente a fornire i primi indizi: i gruppi di Ordine nuovo attivi in Veneto, il movimento neofascista bresciano insieme ai settori più retrivi del padronato cittadino diventano presto i luoghi in cui cercare per dare un nome e un volto agli assassini di piazza della Loggia.

Per chiudere il cerchio di una simile teoria mancano alcuni tasselli fondamentali, magari una testimonianza diretta come quella di Ermano Buzzi: un ex missino bresciano vicino sia agli ambienti della criminalità politica che a quelli della criminalità comune (ha precedenti per furto e ricettazione di quadri), arrestato con l’accusa di essere responsabile dell’esecuzione materiale della strage. Ad inchiodarlo, la testimonianza di un altro fascista di Brescia, Angelino Papa, secondo cui, la mattina del 28 maggio, Buzzi avrebbe preannunciato l’attentato dichiarando, prima dell’esplosione: «C’è la manifestazione antifascista… Gli facciamo lo scherzetto…».

Ermanno Buzzi, auto-proclamatosi “conte di Blanchery” dopo aver acquistato il titolo da un notabile napoletano, non è certo un personaggio benvoluto dai suoi camerati. Dopo il suo arresto lo stesso Giorgio Almirante avrà buon gioco nel scrollarsi di dosso le accuse che chiamano in causa il Movimento sociale accusando Buzzi di essere «un noto pederasta» e, conseguentemente, giustamente espulso dal suo partito essendo l’Msi «l’unico partito veramente anti-omosessuale».

L’omofobia di Almiranti e camerati, ostentata come se si trattasse di un valore e non di un serio problema psichiatrico, fa parte delle eterne contraddizioni della destra italiana: ammantata di virilità e machismo fino al punto di costruire per i suoi militanti un’ideale di tipo spartiata o tebano, una “società di maschi” in cui, come ai tempi di Patroclo e Achille, anche la sessualità – recuperata in chiave antiborghese – viene esperita all’interno del gruppo di “guerrieri” o “soldati politici” che dir si voglia. In questo contesto, Ermanno Buzzi può ben rispecchiarsi del gruppo neofascista più celebre del Nord Italia, quello dei sanbabilini, “ritratti dal vero” dalla penna di Alessandro Preiser, pseudonimo di un’ex militante nero:

Eurialo non tardò a far parte della ristretta chiostra nella quale tutti riconoscevano gli eroi da emulare e seguire […]. Raimondo Forzi: era il più legato a Eurialo […] e al pari di questi, pur non disdegnando di quando in quando rapporti omosessuali, era sostanzialmente eterosessuale. […] Corrado: […] non s’è mai saputo se gli piacessero più gli uomini o le donne. […] Ruggero detto Ruggerino: un femmineo fanciullo diciassettenne basso e smunto con lunghe anella more, si truccava, aveva meravigliose mani inanellate che avrebbero fatto invidia ad Anna Karenina, delicato, con voce che pareva un soffio leggero, uranista sentimentale. Stravedeva per Silvano, ma essendo questi troppo moralista si lasciava coinvolgere nelle avventure di droga e sesso di Ennio, Eurialo e Raimondo. […] Luca: sedicenne, appena più mascolino di Ruggerino, leggermente più alto di questi ma più basso d’Eurialo. Legato a Corrado insieme col quale si faceva adusare da Eurialo e Raimondo dalle tentazioni dell’hashish e non soltanto a quelle (Alessandro Preiser, Avene selvatiche, Marsilio, Venezia 2004).

Più concretamente, il problema di Ermano Buzzi con gli uomini che gestiscono il terrorismo nero non è l’omosessualità ma il suo presunto status di spia: un uomo dei servizi infiltrato tra i camerati dalla polizia, considerato responsabile di molte soffiate e anche di aver architettato la morte di Silvio Ferrari. Questa, almeno, è l’opinione che, di Buzzi, hanno i camerati di «Quex», la famosa rivista autoprodotta dai detenuti politici di estrema destra e utilizzata per ospitare notizie “di movimento” insieme a una rubrica dedicata agli infami in cui, senza mezzi termini, si fanno i nomi dei personaggi da eliminare. Tra gli ospiti di questa rubrica – definita «vagamente jettatoria» dagli stessi lettori – c’è proprio Ermanno Buzzi: il teste più importante per le indagini su piazza della Loggia che, inspiegabilmente, nell’aprile del 1981, viene trasferito nel carcere di Novara, cioè dietro le stesse sbarre in cui è ospitato Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico ordine nuovo nonché diretto estensore della rubrica di «Quex» e della condanna a morte per il discusso “conte”.

Nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi ha le ore contate. A Concutelli, già noto con il soprannome di “Comandante” ma in carcere detto “Er Sentenza” in virtù delle esecuzioni portate a termine, bastano quarantotto ore per avvicinare Buzzi al passeggio… non appena questo succede, il 13 aprile del 1981, scocca l’ultima ora d’aria del conte di Blanchery. Su come sia possibile uccidere un uomo a mani nude dice la sua Pierluigi Concutelli, aiutato, nell’occasione, da un altro assassino fascista molto conosciuto dentro e fuori dal carcere:

Buzzi temeva per la sua vita e per i primi giorni non venne all’aria. Aveva paura, era terrorizzato dalle possibili ritorsioni. Dopo un po’ di tempo passato in cella senza uscire, si convinse che nessuno gli avrebbe fatto del male e scese in cortile. «Ah, ci sei anche tu,» disse rivolgendosi a me e diventando pallido come un cencio. Quando gli andai addosso cercò di fermarmi: «Prima mi picchi e poi ne parliamo? Prima fammi spiegare e poi, casomai, mi prendi a cazzotti». Non immaginava che l’avremmo ammazzato, era convinto che ci saremmo limitati a un semplice pestaggio di galera. […] Buzzi morì così, in un angolo del supercarcere di Novara, strangolato da me e da Mario Tuti. […] Io e Tuti chiamammo la guardia. Mario disse una cosa un po’ pesante: «Dovete far rimuovere dell’immondizia che è rimasta in cortile (Giuseppe Ardica – Pierluigi Concutelli, Io, l’uomo nero, Marsilio, Venezia 2008).

Chi, essendo perfettamente al corrente della condanna a morte emessa contro Ermanno Buzzi, decise di trasferire il super-testimone di piazza della Loggia nello stesso carcere di Pierluigi Concutelli?

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Concutelli, nel futuro, continuerà a rivendicare la piena autonomia della decisione di assassinare Ermanno Buzzi. Quello che nemmeno “il comandante” tenta di smentire, però, è che la scelta di mandare “il conte” a Novara sia stata evidentemente compiuta da qualcuno che ha tutto l’interesse a sbarazzarsi dello scomodo camerata bresciano:

Siccome sapevano che con noi sarebbe finita male – dichiara Concutelli – ce l’hanno dato in pasto. A me qualcuno me l’ha fatto anche notare. Ma se io ho fame non sto a vedere chi mi dà da mangiare. Tu me lo mandi? Cazzi tuoi. Io non l’ho soppresso mica perché me lo hai detto te. È uno che già ho condannato io (intervista di Mario Caprara e Gianluca Semprini in Destra estrema e criminale, Newton Compton, Roma 2007).

Inutile specificare che lo stesso qualcuno che «ha dato in pasto» Buzzi a Concutelli è anche chi, all’interno delle istituzioni, ha contribuito a ostacolare l’inchiesta sulla Strage, provvedendo a cancellare le tracce e animando ogni sorta di mistificazioni. Nessuno sorpresa, quindi, che una verità giudiziaria sull’eccidio del 28 maggio non sia ancora venuta alla luce nel corso di quel calvario che è l’iter giudiziario della strage di piazza della Loggia. Nel 1979, la Corte di Assise di Brescia, basandosi sulle esternazioni di Angelino Papa, condanna Ermanno Buzzi all’ergastolo ma la sentenza viene ribaltata in Appello nel 1982, quando Buzzi, ormai assassinato a Novara, viene definito «un cadavere da assolvere» nelle motivazioni della sentenza. Da allora, per i fatti di piazza della Loggia sono stati spesi trentaquattro anni di indagini e 750.000 pagine di atti giudiziari: un materiale sufficiente a proiettare la torbida accusa di stragismo su tutto il neofascismo italiano e i collegati ambienti economico-militari in grado di alimentarlo. In modo particolare, risalgono al 1993 le dichiarazioni con cui Donatella Di Rosa, alias “Lady Golpe”, e suo marito, il tenente colonnello Aldo Micchittu, innescano l’inchiesta che culmina con la quinta istruttoria dedicata alla strage di Brescia.

Il nuovo processo è ancora in corso ma, vagliando le testimonianze di ex terroristi e collaboratori di giustizia, diventa sempre più chiaro che la decisione di colpire la manifestazione antifascista organizzata in piazza della Loggia nasce in un contesto fortemente condizionato dai “duri” dei servizi segreti e del così detto “Partito americano”: un’ala dell’Alleanza atlantica favorevole all’instaurazione di un regime militare fortemente antidemocratico, anticomunista e antipopolare. Non si tratta certo di un pugno di personaggi da avanspettacolo impegnati a vagheggiare un “golpe da operetta” ma di uomini estremamente pericolosi, in grado di poter contare sull’appoggio di poteri forti e dello stesso esercito italiano. Dopo lunghi anni di investigazioni, reticenze e mistificazioni, la quinta istruttoria entra nel vivo del dramma bresciano alla fine del 2007, quando il gup Lorenzo Benini chiede il rinvio a giudizio di un gruppo di persone accusate dei reati di strage, favoreggiamento e depistaggio. Si tratta di un pugno di vecchie conoscenze della criminalità politica italiana. Tra i presunti stragisti, infatti, ci sono nomi pesanti come quello del neonazista Delfo Zorzi: già condannato in primo grado per la strage di piazza Fontana e, a Mestre, capo della locale, agguerritissima cellula di Ordine Nuovo. Martino Siciliano, ex militante di on passato tra le fila dei collaboratori di giustizia e, oggi, iscritto insieme a Zorzi nel registro degli indagati. Secondo Siciliano, Zorzi:

Aveva un carattere molto forte, spesso duro, era molto manesco e privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati. Era chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui a far scoprire ad altri camerati il buddismo (intervista di Gianni Barbacetto, E lei sa anche chi mise la bomba? Sì, fu Delfo Zorzi, in «Diario», 11-17 dicembre 1996).

Il “Samurai”, oggi, ha coronato il suo sogno mistico riparando il Giappone, dove, assunto il nuovo nome di Roi Hagen, vive al riparo da ogni richiesta di estradizione esercitando con enorme successo il mestiere di imprenditore nel campo della moda. Zorzi, questo è chiaro, non accetterà mai di sottoporsi al giudizio della magistratura italiana, le sole condanne che possono riguardarlo saranno eventualmente emesse in contumacia. È un peccato. Ripercorrendo la storia della strage di Brescia, il Samurai avrebbe potuto godere della compagnia di vecchi camerati come Carlo Digilio (deceduto in seguito a un ictus mentre aveva iniziato a rilasciare pesanti dichiarazioni ai magistrati), conosciuto con il soprannome di “Zio Otto” dai militanti di Ordine nuovo e con il nome in codice “Erodoto” dai militari della cia; come Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine nuovo per il Triveneto; come Maurizio Tramonte, infiltrato dal sid in on con il nome in codice di “fonte Tritone”; o, addirittura, come Pino Rauti: attuale suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno, fondatore del Movimento sociale, di Ordine nuovo e, in tempi più recenti, protagonista delle avventure del partito della Fiamma, schierato a destra di Alleanza nazionale.

La lista degli indagati non finisce qui. E dagli ambienti più strettamente politici si sale ai piani alti delle istituzioni se, continuando a scorrere l’elenco delle coinvolte nella quinta istruttoria, ci si sofferma su Giovanni Maifredi, l’ex autista del ministro Taviani infiltrato in Ordine nuovo direttamente da un generale dei carabinieri: Francesco Delfino, uomo dei servizi segreti già condannato in via definitiva per truffa aggravata nell’ambito delle indagini sul sequestro dell’imprenditore bresciano Soffiantini. A completare questo desolante panorama, con l’accusa di intralcio all’autorità giudiziaria, favoreggiamente e depistaggio, insieme al neofascista Vittorio Pocci ci sono l’attuale parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella e Fausto Maniaci, rispettivamente avvocati di Delfo Zorzi e Martino Siciliano.

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Incrociando le informazioni elargite a suo tempo da Lady Golpe con le dichiarazioni rilasciate da imputati come Carlo “Zio Otto” Digilio, il micidiale esplosivo utilizzato in piazza della Loggia sarebbe stato procurato da Delfo Zorzi e, via Milano, sarebbe finito nelle mani delle sam di Giancarlo Esposti, materialmente incaricate di compiere la Strage. Secondo Tramonte, invece, a collocare la bomba nel cestino sotto i portici sarebbe stato Giovanni Melioli, capo degli ordinovisti di Rovigo.

Se le conclusioni a cui arrivano Digilio e Tramonte sembrano diverse, a essere identico è l’ambiente che i due personaggi “informati sui fatti” evocano attraverso i loro racconti: un mondo in cui, nelle riunioni tenute per organizzare la Strage, diventa difficile distinguere i “soldati politici” dagli agenti dei servizi segreti, i rappresentanti dello Stato dagli avventurieri senza scrupoli. Recentemente, tra le altre cose, è emersa anche una nuova fotografia in cui, tra la folla di piazza della Loggia, sembra di ravvisare lo stesso Maurizio “fonte Tritone” Tramonte: una possibilità che renderebbe ancora più complicata l’interpretazioni dei fatti; sopratutto se si tiene conto di una cosa: sia Giovanni Melioli, sia Giancarlo Esposti, vale a dire i terminali del disegno stragista evocato da Tramonte e Digilio, non sono assolutamente in grado di aggiungere la loro testimonianze a quelle raccolte nel corso della quinta istruttoria. Giovanni Melioli, infatti, è stato ritrovato morto nel suo letto nel 1991, con mezzo chilo di cocaina al suo fianco. Giancarlo Esposti, da parte sua, è deceduto in circostanze ancora più sospette. L’illustre esponente delle Squadre d’Azione Mussolini, appena due giorni dopo la Strage, si trova accampato in località Pian di Rascino (provincia di Rieti). Insieme a lui, in una tenda mimetica, dormono i camerati Alessandro D’Intino e Alessandro Danieletti. Nei pressi, è parcheggiata una Land Rover traboccante di armi e di esplosivo (tra le altre cose, nella vettura sono stipati 560 detonatori, dieci chili di plastico, trecento metri di miccia e quaranta chili di esplosivo da cava!).

Alle sette del mattino del 30 maggio 1974, una pattuglia di carabinieri al comando del maresciallo Antonio Filippi, si avvicina all’accampamento. Quando Esposti si affaccia dalla tenda i militari gli chiedono: «Siete delle Brigate rosse?».

La domanda è retorica. Esposti farfuglia qualcosa – «Siamo radioamatori…» – poi mette mano alla pistola. I colpi del neofascista raggiungono in rapida successione i carabinieri Alessandro Jagnemma e Pietro Mancini. Ma la reazione rabbiosa di Esposti non basta a salvargli la vita. Crivellato dai proiettili del maresciallo Filippi, Esposti si accascia al suolo. Rantola. È ancora vivo. Filippi, però, ha ancora qualche colpo in canna. E la sua pistola, a questo punto, ha cura di avvicinarsi bene alla testa di Esposti prima di fare fuoco. Praticamente si tratta di un’esecuzione. Ma da cosa è stata provocata?

Forse soltanto da un eccesso di ritorsione. Un momento di rabbia che ha preso il sopravvento decidendo che Esposti voleva morire. Peccato solo che il maresciallo Filippi risulti attivo anche come agente del Sid. E che, insieme a Giancarlo Esposti, finiscano in una cassa da morto una grande quantità di segreti: memorie storiche che molti personaggi importanti hanno tutto l’interesse di non rivelare.

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Che cosa stava facendo esattamente Giancarlo Esposti nei boschi di Pian di Rascino? A cosa sarebbe dovuto o potuto servire l’arsenale che si trascinava dietro insieme alla Land Rover?

Quello che è sicuro è che, a un certo punto, nel mese di maggio del 1974, Esposti decide di far perdere le proprie tracce. Testimone di questa scelta, il padre del ragazzo, a cui Esposti telefona dicendo di essere costretto a scappare «perché i carabinieri li avevano traditi» (citato in Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000).

La domanda, allora, diventa: chi è, esattamente, che, almeno secondo Esposti, è stato tradito dai carabinieri?

La risposta è contrassegnata da una data precisa: il 9 maggio del 1974, alla vigilia di una scadenza referendaria – quella sul divorzio – che, di per sé, contribuisce a foraggiare polemiche, desideri di rivalsa, tensioni. Quel giorno, con un blitz spettacolare, i carabinieri arrestano decine di militanti del Movimento d’azione rivoluzionaria, un cartello che, in chiave anticomunista, tiene insieme fascisti, cattolici intransigenti, qualunquisti ed esponenti della “Maggioranza silenziosa”, altra corrente utilizzata per mobilitare l’opinione pubblica contro la sinistra di piazza. A finire in manette c’è anche il fondatore del Mar: Carlo Fumagalli, ideatore di un disegno destinato ad imporre, attraverso il terrore, una svolta politica catto-autoritaria. Mentre Fumagalli viene tradotto in carcere, il suo vice, Gaetano Orlando, riesce ad avvisare i camerati, consentendo la breve fuga di Giancarlo Esposti: una fuga che, considerato l’armamento di cui poteva disporre, non doveva servire semplicemente a sottrarsi alla giustizia. Al contrario, asserragliato a Pian di Rascino, Esposti sperava ancora che il piano di Fumagalli e soci, quella strategia responsabile dell’incredibile numero di attentati organizzati nel corso del 1974, potesse trovare il suo pieno compimento. A Pian di Rascino, in buona sostanza, Esposti aspettava lo scoccare dell’“ora X”: un segnale che avrebbe dovuto far entrare in azione altri commando simili a quello guidato dall’estremista milanese, pronti ad unirsi all’esercito e a prendere il potere.

Esposti, evidentemente, non stava tenendo conto di una cosa. Nei piani alti dei servizi segreti, tra i protagonisti delle trame occulte della storia Repubblicana, il vento stava cambiando. Gli stessi fascisti, con il loro rozzo culto della violenza e la loro ridicola ossessione per ideali politici ormai superati, sono visti come semplici ferri vecchi: un validissimo aiuto fino a quando la violenza è stata indispensabile per arginare la vocazione progressista dell’Italia ma, a questo punto della Storia, soltanto un ostacolo per un rinnovamento reazionario in grado di mettere in alto strategie di controllo molto più raffinate di quelle che passano per un attentato dinamitardo, un’aggressione squadrista o una sparatoria.

Certo. Smobilitare una rete di assassini, bombaroli e picchiatori costruita con un paziente lavoro di intelligence e cospicuamente finanziata non è facile. Come non è facile convincere tutti gli esponenti e tutti i militanti del «partito del Golpe» dell’avvenuto mutamento di rotta. Sono tante le camice nere poco desiderose di indossare il doppiopetto e numerosi i gruppi ancora votati all’azione violenta. Schegge impazzite che, con i vecchi sistemi, continuano a giocare alla guerra sporca, lasciando il proprio “marchio di fabbrica” sulla strage di Brescia e, ancora nel 1974, sull’esplosivo piazzato sul treno Italicus, saltato in aria all’uscita di una galleria all’altezza di San Benedetto Val di Sambro il 4 agosto dell’anno destinato a chiudere il ciclo di attentati inaugurati nel 1969 con i morti milanesi di piazza Fontana. A morire sull’Italicus, dilaniati dalla bomba o bruciati vivi nell’incendio seguito all’esplosione, furono dodici persone. Per tutti loro c’è un volantino firmato Ordine nero che, al grido di «Giancarlo Esposti è stato vendicato», rende completamente esplicita la natura ricattatoria della strage:

Abbiamo voluto dimostrare alla Nazione – scrivono gli attentatori – che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti.

«Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti», scrivono gli attentatori. E le loro parole, come tutta la storia dello stragismo di destra, vanno lette come se fossero indirizzate a due tipi diversi di interlocutori. Da un lato c’è il contenuto palese della rivendicazione: quella diretta corrispondenza tra significante e significato decriptabile da chiunque conosca i termini della lingua italiana. Poi c’è un livello esoterico del discorso, riservato agli iniziati: nella fattispecie gli esponenti delle diverse fazioni interne al sistema; come abbiamo scritto aprendo il capitolo sulla Strage di Brescia, i sostenitori della necessità del colpo di Stato cruento e i seguaci di nuove politiche di controllo delle masse che, seppur assimilabili ai loro avversari nella volontà di imprimere al Paese una svolta reazionaria, sono convinti della necessità di rispettare la forma democratica delle istituzioni (… la forma, non la sostanza!).

Nell’anno del Signore 1974, tra queste due fazioni è guerra aperta. Una lotta senza esclusione di colpi che, alla fine, vedrà prevalere i supporter dell’“ordine democratico” sui golpisti di vecchio stampo fascio-militare. Intorno alle strutture predisposte all’intimidazione, all’aggressione e alla strage, contro i bombaroli precedentemente assoldati dai servizi segreti si fa terra bruciata ed ecco, nel mese di maggio 1974, scattare improvvisamente le operazioni di polizia che stroncano la “carriera” di un Carlo Fumagalli, gli “incidenti” che provocano la morte di un Giancarlo Esposti o i “trasferimenti” che decretano l’assassinio di un Ermanno Buzzi. Dall’altra parte, però, chi sogna l’avvento di un nuovo duce non si rassegna ad abbandonare le leve del potere occulto e sferra colpi micidiali: la Strage di Brescia e la Strage dell’Italicus, i più gravi episodi terroristici del ’74, sono solo il frutto di questa guerra intestina; un frutto amaro fatto mangiare, più o meno indiscriminatamente, a tutta la popolazione italiana.

C’è ancora un problema, però. Affinché, alla fine del conflitto, i vincitori possano continuare a usare illegalmente e per i propri fini lo Stato e tutte le sue strutture, è necessario che tutto avvenga nel completo silenzio. Non è un caso, infatti, se il processo per la Strage di Brescia sia ancora in corso o se, per quanto riguarda l’Italicus, la preziosa testimonianza di una donna che potrebbe inchiodare all’istante gli attentatori di Ordine nero e il “Fronte nazionale rivoluzionario” di Mario Tuti, detto “il Caterpillar”, non venga minimamente presa in considerazione. Addirittura, il giudice che raccoglie le dichiarazioni della donna provvede a smentirne pubblicamente la validità e a suggerire, per la testimone, il ricovero in un ospedale psichiatrico!

Il nome di questo giudice è Mario Marsili. Di professione, oltre che magistrato, questo esponente delle istituzioni è genero di Licio Gelli, detto “il Venerabile”: un signore che, dalla sua tranquilla residenza in provincia di Arezzo, dà vita alla famigerata “Propaganda 2” (P2) una loggia massonica coperta, riservata a chiunque – militare, ricco imprenditore, magistrato, giornalista, eccetera – occupi un ruolo sociale particolarmente importante e delicato. Scopo ultimo dei fratelli, l’attuazione del Piano di rinascita nazionale, una sorta di manifesto dove i punti programmatici più importanti si chiamano accentramento e controllo dei mass media, riforma della Costituzione e, per quanto riguarda il sistema politico, repubblica presidenziale.

Qualsiasi osservatore, guardando alla realtà italiana (oggi e non del 1974!), non avrà difficoltà a rendersi conto di come gli auspici del Piano di rinascita nazionale siano ancora in corso. La loro progressiva attuazione è sotto gli occhi di tutti, specialmente in un periodo di cronica erosione della partecipazione popolare alla vita politica, di negazione di diritti soltanto apparentemente elementari (dal riconoscimento delle coppie di fatto alla xenofobia di Stato contro l’immigrazione) e di ascesa di figure istituzionali in grado di manovrare il Parlamento regolando l’attività legislativa sulle proprie esigenze personali…

aa.brescia_niente_piazza-della-loggiaE i caduti di piazza della Loggia? E le vittime dell’Italicus? E le centinaia di persone assassinate in innumerevoli altre occasioni – da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna – da quell’intreccio perverso tra terroristi neofascisti, vertici dei servizi segreti e P2?

Il sospetto – terrificante – è che tutti. Tutti. Siano morti invano:

Per questo non riesco a riconciliarmi definitivamente con le istituzioni, le ritengo inevitabilmente responsabili della mancata giustizia. Lo Stato ci ha negato il diritto alla giustizia e alla verità ed è difficile, in questo contesto, ridare equilibrio alle norme della convivenza civile. A volte penso che quei corpi martoriati nelle stragi non riescano a riposare in pace, li immagino come dei fantasmi che vagano. Ho sognato Livia che continuava a girarmi intorno con una valigia in mano, quasi a ricordarmi che non ha trovato ancora un pezzo di terra su cui riposare, perché il pezzo di terra è il principio di giustizia che non hanno ricevuto né loro come morti, né noi vivi, testimoni della loro morte (Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, vittima della strage di Brescia. In Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Rizzoli, Milano 2006).

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a.cuoriBrescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia, tratto dal volume Cuori rossi di Cristiano Armati

“Cuori rossi” di Cristiano Armati

Recensione di Giovanna Canzi, da Il Sole 24 Ore del 3 aprile 2009

a.cuoriDavide Cesare – «Dax» per gli amici e per il resto del mondo – ha ventisei anni, quando il 16 marzo 2003 viene assassinato sui Navigli a Milano. Lascia una donna, una figlia piccola, un lavoro faticoso consumato sulle strade. A ucciderlo due fratelli: Federico e Mattia Morbi di 28 e 17 anni. Nonostante Dax fosse un militante dell’Orso (Officina di Resistenza Sociale) e i due giovani Morbi fossero soliti scorrazzare per le strade con il loro rottweiler di nome «Rommel», un tributo all’omonimo generale nazista, la stampa e le istituzioni hanno sempre cercato di liquidare l’omicidio come «una rissa tra punk».
A questa storia – una delle tante, a cui è stata negata la matrice politica – Cristiano Armati è particolarmente legato. Così nel suo recente volume «Cuori rossi» (Newton Compton Editori, 504 pagine, 16.90 euro) per farci capire chi era Dax parte «dalle sue spalle larghe, dal suo fisico robusto e da un volto che ispira amicizia e simpatia, lasciando trasparire la sua passione…». Ma la vicenda di questo ragazzo milanese, che per vivere guida un camion e che per passione si batte per evitare gli sgombri o le privatizzazioni delle case popolari è solo una delle tante espressioni di violenza e di sopraffazione che si annida fra le viscere della nostra Italia.
Storie di assassini fatti passare per «tragici incidenti o fatalità», rimozioni collettive, morti della non memoria. A tutte queste vittime Armati, nato a Roma nel 1974, dedica pagine e pagine di accurata ricostruzione storica, per «tentare di restituire le lacrime e il sangue a un’asettica lista di contadini, operai, studenti, sindacalisti e militanti che, dopo aver pagato con la vita il prezzo delle proprie idee, sono stati troppo spesso ridotti a un nome che affiora nei verbali degli addetti all’ordine pubblico». Spinto da un criterio di natura emozionale, l’autore parte dagli eccidi di contadini e operai nel dopoguerra come la strage di Portella della Ginestra, ripercorre i sanguinosi anni del ’68, con i quei casi che hanno segnato profondamente la storia del nostro Paese, giunge ai giorni nostri, dove per essere picchiati o ammazzati basta veramente poco: partecipare a un concerto a Villa Ada, o presentarsi al mondo con un qualunque segno di apparente diversità (un abbigliamento trasandato, dei capelli lunghi…) rispetto a un modello codificato di feroce ed efferata «normalità».

Gli eterni anni di piombo. Vita e morte dei “cuori rossi”

Recensione di Matteo Tonelli, da Repubblica.it del 25 ottobre 2008

a.cuoriROMA – “Tutti gli anni sono di piombo”. Con la loro scia di sangue che parte nel 1944 con la strage del pane a Palermo, passa per gli anni ’70 e arriva ai giorni nostri. Si chiama Cuori rossi il libro scritto da Cristiano Armati (Newton Compton. 473 pagine. euro 16,90). Quasi cinquecento pagine per raccontare “la terza guerra civile italiana”, le storie delle tante vittime con il cuore che batteva a sinistra. Un libro che è un’esplicita risposta a quel Cuori neri uscito un anno fa che parlava dei morti di destra degli anni ’70.
Armati però va oltre. Non circoscrive il periodo. Parte da lontano, con la strage di Portella della Ginestra e quella della Fonderia Riunite a Modena nel 1950. Braccianti e operai massacrati mentre rivendicavano i loro diritti. Vittime, loro come quelli che verranno in seguito, “della violenza fascista e di una violenza a cui nemmeno le forze dell’ordine possono dirsi estranee”. Armati ripercorre le vite, spezzate, di tanti militanti o simpatizzanti della sinistra uccisi dai neofascisti o dalla polizia. Li lega tra di loro, come protagonisti di un’unica trama che si svolge negli anni. Ciò che viene fuori, però, non è un’enciclopedia, una semplice raccolta cronologica di fatti di sangue. E’ piuttosto il tentativo di spiegare quella “terza guerra civile italiana”, un conflitto “a bassa intensità”, in cui si sono intrecciati (e per Armati si intrecciano ancora), “eserciti clandestini, servizi segreti deviati, collusioni con la criminalità, per intimidire e spesso uccidere pensieri scomodi e persone ritenute pericolose”.
Come Alceste Campanile, Peppino Impastato, Fausto e Iaio a Milano e Valerio Verbano freddato davanti agli occhi dei genitori a Roma. E ancora la mattanza del G8, il corpo di Carlo Giuliani riverso in una pozza di sangue. Auro Bruni che muore nell’incendio del centro sociale Corto Circuito a Roma. E Federico Aldrovandi per la cui morte sono sotto processo alcuni poliziotti.
E si arriva così ai giorni nostri con la storia di Renato Biagetti, ucciso a coltellate a Roma al termine di un concerto di un centro sociale. E alle recentissime aggressioni organizzate dai militanti dell’estrema destra a Roma e a Verona.
E così, c’è anche spazio per chiedersi, come fa l’autore, se la morte di ragazzi come Luca Rossi, Francesco Lorusso o Giorgiana Masi, uccisi da “pallottole vaganti” può essere spiegata davvero come una tragica fatalità o se ci sia altro. Magari quella guerra non dichiarata ma spietata che ha lasciato sul terreno decine di cuori rossi. Spezzati.