Primo Maggio: e se la faccia ce la mettessimo tutti e tutte?

Noi le facce non le mettiamo“Noi le facce non le mettiamo”. Dopo la notizia dei dieci arresti eseguiti ieri tra Italia e Grecia ai danni di persone sospettate di aver animato la protesta del Primo Maggio No Expo, non sono mancati i mezzi di informazione indipendente che, per rispondere alla scelta forcaiola (la solita) del “Corriere della Sera”, immediatamente pronto a pubblicare le facce dei presunti black bloc, si sono affrettati a marcare una differenza: da un lato c’è il diritto e uno straccio di deontologia professionale, dall’altro fogli padronali stile “Corriere della Sera”.

Non c’è alcun dubbio che continuare a far pesare sempre e comunque a giornalisti come quelli in forza a il “Corriere” l’evidenza delle loro malefatte sia cosa buona e giusta, anche se è altrettanto innegabile come rinfacciare ai mezzi di informazione la propria natura di servitori del potere abbia lo stesso sapore scontato della scoperta dell’acqua calda.

Restando sul terreno della vetrina infranta dell’Expo milanese, davvero chi, da sinistra, ha speso parole di fuoco e di fiamme contro il “blocco nero” non aveva alcuna idea che i propri distinguo, i propri attacchi, il proprio giocare la partita dei “buoni” contro quella dei “cattivi”, si sarebbe tradotta prima in una strumentalizzazione, poi in una giustificazione ideologica non soltanto rispetto agli arresti, ma anche rispetto all’eccezionale durezza che si stanno meritando gli arrestati?

“Anche chi ha contestato democraticamente l’inaugurazione di Expo”, è scritto tra le righe di tutti i giornali e si legge dietro le fotografie di tutti gli arrestati, si è schierato compatto contro i “soliti teppisti”. A testimoniarlo, un esempio su tutti: l’articolo con cui il “Corriere della Sera” ha anticipato – evidentemente e ovviamente ben informato dalla Questura, di cui è abituale velina – gli arresti rispetto ai quali oggi ci si esprime. Come?

Passando in rassegna commenti ed opinioni, emerge o (1) la contestazione del reato di devastazione e saccheggio, residuato bellico del fascista Codice Rocco, pensato per situazioni di guerra e quindi assolutamente inappropriato per episodi come Expo2015 e, più indietro nel tempo, Genova2001; o (2) la condanna della gogna mediatica a cui la stampa main stream si è abbandonata con gusto orgiastico.

Per quanto riguarda la contestazione del reato di devastazione è saccheggio, si potrebbe dire che la battaglia utile alla sua cancellazione sarebbe cosa buona e giusta nella misura in cui potrebbe lavorare a una sempre utile ricomposizione di classe, evidenziando come le contraddizione per cui si scontano dieci anni per un bancomat rotto sono inaccettabili alla luce del governo ladro e mafioso che siamo costretti a subire. Eppure… se è opinione corretta e comune che dietro il famigerato reato di devastazione e saccheggio vi sia prima di tutto una forzatura, considerando che in punta di diritto quella legge non parla delle situazioni a cui viene applicata oggi, chissà cosa si potrebbero inventare – visto che di arbitrio stiamo parlando – una volta abrogata!

Forzatura per forzatura, tolta la devastazione e il saccheggio, potrebbero arrivare con lo stesso arbitrio le accuse di tentato omicidio anche per aver lanciato una bottiglietta di plastica vuota, o di associazione a delinquere per essere in possesso della tessera di una biblioteca… considerazioni che portano direttamente al secondo punto della questione, quello che ha a che fare con la condanna – più o meno di maniera – della gogna mediatica a cui i sospetti black bloc sono stati esposti, ovviamente senza che per loro abbia mai avuto alcun valore il “garantismo” di cui tanti si riempiono la bocca. Questo solo per dire che di fronte a fenomeni di insorgenza sociale non si può pretendere di avere salva la coscienza compartimentando la propria indignazione: è assurdo pensare di condannare pezzi di Movimento e addirittura additarli (alle attenzioni della Questtura) per poi stupirsi della durezza della repressione (“Ma come, dieci anni per una vetrina!”) o della connessa gogna mediatica (“Ma come, pubblicano i volti dei sospettati in dispregio delle garanzie democratiche!”). Per dirla in altri termini, rispetto ai fenomeni di insorgenza sociale, o si è dalla parte della soluzione che questi auspicano, o si è parte del problema, difficile pensare a comode vie di mezzo. Ed è per questo, che parlando di Expo, non sento la necessità di dire che “io le facce non le pubblico”, al contrario, ho voglia di dire che io la faccia ce la metto.

Io la faccia la mettoLa trovate qui, in basso a sinistra, dove è sempre stata. Mentre è impegnata a lasciare traccia del proprio dna su un pericolosissimo scovolino utile a fare le bolle di sapone, si fa una domanda: e se per dimostrare solidarietà e complicità con gli arrestati del primo maggio la faccia la mettessimo tutte e tutti, rispetto ai fatti di Milano come in rapporto ai luoghi dove le lotte reali conquistano a spinta la propria volontà di cambiare l’esistente, non questo l’unico, vero passo avanti?

TUTTI LIBERI! TUTTE LIBERE!

Chi se la canta, chi se la suona e chi se la lotta. Expo non è finito

Corriere della sera su Expo

Dicono che Expo sia finito. Senza contestazioni, a quanto pare. Tutta colpa di quei “riot che asfaltano il movimento”, commenta beffardo il «Corriere della sera», arrivando a citare «il manifesto» per riproporre un’analisi della giornata del primo maggio e persino immaginando di avere dalla sua chi la pensa così insieme alla Questura, che si è presa sei mesi di tempo per schedare, etichettare, analizzare e dio solo sa cos’altro. Ora si procederà agli arresti, informa il giornale padronale per eccellenza, ovviamente senza vergognarsi di mostrare il piacere che prova nel pensare all’eventualità di nuove persone in carcere.
I “buoni”, suggerisce l’articolo, scritto da qualcuno che dimostra di conoscerli bene, o persino di essere uno di loro, sarebbero stati talmente intimoriti dai “cattivi” da non riuscire più neppure ad avanzare una qualche critica, civile naturalmente, ad Expo, come invece le regole del gioco democratico vorrebbero. Un po’ come quando di tanto in tanto arrivano le elezioni e ci viene data l’opportunità di scegliere tra una Moratti e un Pisapia, e che non si venga a dire che alle nostre latitudini la mancanza di pluralismo rappresenti un problema!
Un Renzi, per esempio, è talmente convinto di un simile assunto che a passare per il vaglio elettorale non ci pensa neppure: perché perdere tempo se poi, come a Milano, gli unici che dimostrano di avere qualcosa da dire sono incompatibili come le vetrine che rompono e gli interessi di classe che incarnano?
Si prenda piuttosto esempio da Expo. E che i suoi uomini più efficienti, a partire dal prefetto Tronca, vadano a mettere ordine a Roma, dove, licenziato l’inutile sindaco Marino, al rispetto delle famose regole democratiche ci pensa il governo stesso, preferendo a qualunque forma di progettualità politica un controllo territoriale esercitato direttamente dalla polizia.
Certo, quella di Expo è stata una storia strana. Dal punto di vista della contestazione, infatti, non si è mai visto un problema che smette di esistere a causa della gestione di una singola giornata. Anche perché, se fosse così, non esisterebbe il problema, ma soltanto le persone che lo agitano, mentre pare che le questioni sociali funzionino nel modo esattamente opposto: è la loro esistenza a provocare agitazione, non il contrario. E qualcosa, nell’osservazione della realtà, sembra suggerire che il tema delle grandi opere e dei grandi eventi, simulacro della rapina perpetrata dagli sfruttatori ai danni degli sfruttati, esista eccome. Con buona pace di chi se la canta e se la suona, insomma, c’è anche chi se la lotta. E infatti, insieme a Tronca, quante centinaia di milioni hanno già mandato a Roma per consentire ai soliti noti di continuare a fare baldoria con l’imminente Giubileo?
Nello stesso lasso di tempo, invece, quante case popolari sono state assegnate? Quali garanzie per una scuola aperta a tutti e per una sanità efficiente e gratuita ottenute? E quali conquiste di diritti, dallo ius soli al reddito di cittadinanza (universale e incondizionato), sono state nel frattempo ascritte all’odierna civiltà del neoliberismo globale incarnato da Renzi e dalle sue giunte, arancioni o militari che siano?
Il silenzio di fronte a queste domande è imbarazzante come l’assenza dei “buoni” sullo scenario delle battaglie combattute ogni giorno in tutta Italia per la casa, il lavoro, la scuola, la sanità (altro che “assenza di contestazioni”, come scrive il «Corriere della sera»)… mentre chi di tutto questo è privo le vetrine in frantumi del primo maggio le ha ascoltate eccome. E ha sorriso. Mica è corso a piangere in Questura. L’istituzione repressiva per eccellenza, d’altro canto, era troppo indaffarata. Ora deve persino accollarsi di tirare avanti la baracca del Giubileo. E allora, senza neppure considerare la sorte delle tonnellate di metri cubi di cemento in procinto di essere abbandonate o regalate a qualche speculatore a Milano, si può dire che i nomi siano cambiati, ma come si fa a pensare che Expo sia finito?

Milano pulisce ancora

Tanti discorsi sulla libertà di espressione e il diritto alla critica sono improvvisamente svaniti nel nulla. “Colpevole” della grande amnesia collettiva seguita al delirio securitario andato in scena a Milano dopo il primo maggio, un po’ di sana street art e un pugno di artisti concordi nel definire Expo per quello che è: una truffa in grande stile, rappresentabile attraverso le centinaia di sfumature di cazzo prescelte dagli autori chiamati a raccolta da Guerrilla Spam & Hogre per demistificare la retorica renziana del grande evento.

I politici che credevano di potersela cavare con due spicci per parlare di riqualificazione urbana, scoprono l’acqua calda. E cioè che l’arte non è nata per arredare la tavola dei potenti. E che la street art appartiene ai vandali: gli eternamente infamati, spesso arrestati, a volte oggetto di colpi di pistola esplosi dalle guardie contro di loro… sono sui muri alla stessa maniera in cui i “teppisti” sono per le strade. Anche la circostanza è la stessa: parliamo sempre del primo maggio; e il comune di Milano, mentre patrocinava la rimozione delle scritte “Carlo Vive”, comparse dopo il passaggio della manifestazione, provvedeva anche a “ripulire” la città dalle opere su cui troneggiava forte e chiaro il motto “No Expo”.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, ecco dimostrata tutta la pretestuosità dei discorsi contro la “violenza” del corteo del primo maggio. E così come non esistono manifestanti buoni e manifestanti cattivi, non è neppure vero che esiste un modo “civile” di esprimere il proprio dissenso. Tutto ciò che colpisce nel segno, infatti, viene ridotto al silenzio e censurato.

D’altronde, se non viene diffamata e oscurata, che protesta è?

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Milano: una parte della street art No Expo rimossa dal Comune

EXPO non è finito: un orizzonte dopo la rivolta del primo maggio

Era il 3 maggio del 1886 quando, a Chicago, negli Stati Uniti, una folla di lavoratori in sciopero si assembrava davanti ai cancelli della fabbrica di macchinari agricoli McCormick. Il presidio, nato sulla scia di uno sciopero indetto il primo maggio per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore, viene brutalmente attaccato dalla polizia che, aprendo il fuoco sulla folla, uccide due operai, ferendone molti altri. Sulla scia dell’indignazione,il giorno seguente, cioè il 4 maggio, la stessa folla si riversò in piazza Haymarket, dove dopo l’esplosione di un ordigno la polizia inizia a sparare all’impazzata, uccidendo altre undici persone e colpendo con il “fuoco amico”anche un gran numero di agenti. Come se non bastasse, al termine di un processo-farsa, la corte chiamata a giudicare i fatti di Haymarket condannò a morte sette sindacalisti. Uno di loro, August Spies, prima di salire sul patibolo ammonì i suoi boia: «Verrà il giorno», disse loro, «in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate».

E furono quelle voci, in effetti, a trovare eco in tutto il mondo, seminando tra chiunque si trovasse dalla parte degli sfruttati la coscienza del sacrificio dei “martiri di Chicago”. Anche in Italia la notizia dell’esecuzione di Spies e dei suoi compagni non passò inosservata e a Livorno,addirittura, il popolo inferocito attaccò le navi statunitensi ancorate al porto e, in seguito, la questura, dove si diceva che il console americano si fosse rifugiato.

Da quel momento in poi la tragedia di Haymarket sarebbe stata parte di una storia collettiva di portata globale. Tant’è che non solo il primo maggio diventò pressoché ovunque la data in cui celebrare i lavoratori e le loro conquiste, ma anche gli eventi del 1886 finirono per essere considerati come il frutto sanguinoso di una conquista, parte di un processo grazie al quale una civiltà più giusta riusciva a guadagnare terreno sulla barbarie.Tant’è che nessuno storico, fino a oggi, si sarebbe mai sognato di disconoscere il valore dei sindacalisti di Chicago né, a maggior ragione, l’importanza sacrosanta di una causa che ha portato a battersi e a morire  una moltitudine di lavoratori: avanguardia del progresso civile o, seguendo le complicate torsioni di senso con cui si è arrivati a descrivere il presente per modificarlo in chiave conservatrice e neocorporativista, banda di pericolosi black bloc, branco di spaccavetrine,bestie assetate di violenza, cretini e – tanto per colmare la misura – se non infiltrati addirittura fascisti.

Tutto questo accade nel 2015, mentre a Milano si inaugura la contemporanea edizione dell’Esposizione Universale e, per farlo, si sceglie proprio la data del primo maggio, costringendo il mondo del lavoro a concedere deroghe definitive rispetto a una giornata ancora teoricamente considerata festa nazionale. La cosa, di per sé, non è certo strana: Expo, infatti,vorrebbe essere per i suoi mandanti – il Partito della Nazione e il suo duceMatteo Renzi – l’arco sotto il quale far passare il trionfo di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla speculazione edilizia, la distrazione d’ingenti somme di denaro pubblico, la santificazione delle multinazionali dello sfruttamento selvaggio delle persone e dell’ambiente e, quindi, l’annullamento definitivo di quel patto a cui, per il tramite della contrattazione, si era dato mandato di regolare il faticoso ed eternamente conflittuale rapporto tra capitale e lavoro.

Dall’inaugurazione di Expo in poi – tutto ciò è estremamente chiaro – il lavoro sarà soltanto una sorta di elargizione demandata nei modi e dei tempi all’iniziativa padronale, alle sue esigenze e alle sue necessità.Mentre per tutto il resto, di fronte alle residue alzate di testa dei lavoratori, ci sarà il licenziamento selvaggio o, spesso e volentieri, la forza brutale della polizia.

Fuori dal mondo del lavoro il discorso non cambia. La rapina che inizia in “fabbrica” (che si tratti dei call center o delle reception diExpo non fa nessuna differenza) prosegue nei territori, sia con lo strumento della devastazione e della privatizzazione delle risorse naturali (a cominciare dall’acqua), sia con l’imposizione di prelievi pesantissimi ai danni delle magre finanze dei lavoratori, grazie al monopolio delle pigioni, all’azzeramento dei programmi di edilizia popolare pubblica e, di conseguenza, attraverso l’arma degli sfratti.

È sulle macerie di un simile laboratorio di macelleria sociale che Expo sta edificando le sue fortune, affilando le armi di una propaganda senza precedenti, a sostegno della quale tutti i mezzi d’informazione parlano come in passato è stato fatto solo per descrivere le gesta delle truppe imperiali lanciate alla conquista dell’Abissinia. Ed è sulle stesse macerie che l’opposizione sociale è chiamata a raccogliere le sue forze e a costruire una resistenza né semplice né di breve durata. Se è vero come èv ero che Expo ha voluto mistificare le reali necessità di un corpo sociale stremato dalla povertà (cioè dalla prima arma che il padronato rivolge contro le classi subalterne per piegarle ai suoi scopi), rinchiudendo le legittime aspirazioni al cambiamento dentro le esigenze di una vetrina scintillante,allora spaccare quella vetrina è stato giusto, sia in termini metaforici che in termini reali. Eppure non è ancora questa la cosa più importante, né il campo in cui è necessario concentrare i propri sforzi. La cosa più importante,infatti, è sottolineare come Expo non è finito. E non è finito non solo perché il tributo preteso dal governo Renzi si estenderà sul Paese per ulteriori sei mesi, ma perché è lo stesso modello che Expo impone ad aver costruito una nuova cornice di “normalità” con la quale confrontarsi e che è necessario spezzare. Basti dire che, annunciando l’organizzazione del prossimo giubileo romano, è  già stata ventilata da parte del governo la possibilità di porre un blocco degli scioperi nel nome di un superiore interesse nazionale…

Le contraddizioni di Expo, insomma, non possono essere denunciate né tantomeno superate nel corso di una sola giornata: le multinazionali che sponsorizzano l’evento resteranno ai loro posti, lo stesso faranno le condizioni imposte ai lavoratori e anche la volontà di sottoporre a un feroce revisionismo la storia della lotta di classe è determinata a compiere nuovi passi avanti. Da questo punto di vista, mentre ogni occasione sarà buona per denunciare gli abomini targati Expo organizzando momenti di confronto pubblico sempre più importanti, è anche necessario iniziare a muoversi immediatamente verso un orizzonte preciso, all’interno dei sei mesi di durata che si è data l’esposizione milanese. Alla chiusura del carrozzone, infatti, il simbolo diExpo, la scultura nota con il nome di “Albero della Vita”, vorrebbe essere ricollocata in un luogo-simbolo della storia italiana. Con una mossa tutt’altro che innocente, i leader renziani hanno annunciato di voler trasferire l’istallazione direttamente a piazzale Loreto, vale a dire nel luogo in cui la repubblica nata dalla Resistenza celebrò nel 1945 il trionfo dell’insurrezione popolare e la distruzione del fascismo. Impedire, a cominciare da adesso, che tutto ciò possa accadere non significa soltanto lottare per la permanenza di un simbolo nella storia di domani. Significa anche riappropriarsi della sovranità popolare che, salendo sulle montagne o combattendo nelle città, offrì la migliore dimostrazione di come un altro mondo sia davvero possibile.

In questo modo diventa più semplice rispondere alla domanda che tutti si sono fatti dopo il primo maggio No Expo andato in scena a Milano,considerando che al di là delle vetrine rotte, della manifestazione moltitudinaria e dei contenuti anticapitalisti portati in piazza, contro il progetto politico renziano che, sul modello del corporativismo fascista,continua a pretendere di subordinare i diritti sociali agli interessi della nazione (cioè dei padroni), l’unica cosa giusta resta quella di non fare neppure un passo indietro.

Primo Maggio: quello che si dice

Si dice che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, le ragioni del No Expo siano state completamente oscurate. Infatti, prima di ieri, queste ragioni erano all’ordine del giorno, venivano affrontate con correttezza dalla stampa ed esposte con chiarezza dalla televisione generalista, che invitava gli esponenti dell’opposizione sociale a dibattiti e ad approfondimenti, talmente ascoltati da essere quasi riusciti ad annullare l’evento.
Si dice anche che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, ora l’intero Movimento si trovi sotto attacco, esposto alle sevizie della polizia e della magistratura, pronta a usare come un ariete l’arma più micidiale del codice (fascista) di procedura penale: il reato di devastazione e saccheggio. Infatti, prima di ieri, questo stesso reato non era mai stato usato, né per colpire i partecipanti al vertice contro il G8 di Genova e neppure, più recentemente, per processare i partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre utilizzando un imputazione che prevede pene fino a quindici anni. Alla stessa maniera, per colpire il movimento No Tav, la magistratura non si era certo sognata di trattare quattro ragazzi accusati di aver danneggiato un compressore alla stregua di pericolosi mafiosi, imponendo loro un isolamento degno di quanto previsto dal famigerato 41bis.
Si dice persino che da questo momento in poi, considerate le “violenze” al primo maggio di Milano, nessuno vorrà più scendere in piazza. Infatti prima di ieri le piazze erano traboccanti di folle decise a riconquistare i propri diritti, né si stava cercando, visto il surplus di partecipazione, di giocare la delicatissima partita con la quale – magari passando per errori e sbandamenti – tentare di rompere la stagione del reflusso e riconquistare una necessaria ricomposizione di classe. E poi basta guardare quanto accaduto a Cuba con il Movimento 26 Luglio, in Russia con i Soviet o a Parigi con la Comune: quando si registrano episodi di violenza popolare le piazze si svuotano, è la storia che lo insegna.
Insomma, si dicono tante cose. Una in più non farà la differenza, è tanto semplice battere i tasti di un computer, pare che anche molte scimmie siano in grado di farlo… intanto Expo non è ancora finito. Mentre fino a prova contraria solo la lotta paga.

Sgomberiamo EXPO! Come, quando e soprattutto perché

Venerdì 8 maggio. Perché no. Anche questa poteva essere una data buona per inaugurare Expo. Che cosa sarebbe cambiato in fondo? Gli speculatori si sarebbero messi in tasca comunque la loro bella fetta di soldi pubblici, il residuo verde lombardo avrebbe in ogni caso smesso di vedere un domani, e il lavoro gratuito, sancito dal Jobs Act, diventava lo stesso una cosa “normale” grazie all’impiego di una moltitudinaria avanguardia di forzati dello stage. Neppure la burinaggine della neolingua imposta da Renzi e dal suo Partito della Nazione avrebbe risentito di un’inaugurazione spostata appena di qualche giorno. Milano, in ogni caso, (ma quel che è peggio anche i nostri cervelli) si sarebbe riempita di portaborse e leccaculi tutti casa & conference call, chiesa & best practies, mazzette & spendig review…

Per quale motivo, dunque, insistere sulla data del primo maggio, arrivando anche allo scontro aperto con la residua fetta di lavoratori che si ricorda – incredibile! – come quella del primo maggio non sia proprio una data come le altre?

La risposta, purtroppo, è tristemente semplice. Cioè: il primo maggio non è una data come le altre! Il primo maggio è lo sbiadito ricordo di un tempo in cui le lotte degli sfruttati di tutto il mondo riuscirono a imporre il primato politico e morale dei lavoratori sulla scena pubblica, cristallizzando il loro protagonismo in una “festa”, che tutto dovrebbe essere tranne una semplice celebrazione, rappresentando piuttosto un’occasione di rilancio, un modo per restare all’attacco sul fronte dei diritti e del progresso. Ebbene, malgrado il primo maggio dei nostri tempi sia una ricorrenza dove il senso originario sopravvive in forme alquanto appannate, è come se nella memoria ancestrale del regime oggi incarnato da Renzi si sia conservata la memoria di altre stagioni; il ricordo indelebile di incubi davvero vissuti dai padroni di ogni tempo e ogni paese, dal giorno in cui Spartaco, capeggiando una ribellione di schiavi, osò sfidare le legioni dell’Impero Romano, per arrivare all’assalto al Palazzo d’Inverno o, facendo un passo indietro nella cronologia, ai giorni in cui sulla Comune di Parigi sventolò uno straccio rosso scelto come bandiera.

L’oligarchia renziana, evidentemente, sente ancora il potenziale dell’ostilità popolare alla maniera delle bestie selvatiche braccate nel bosco: perché si può dire tutto, ma è proprio la gente come Renzi e i suoi mandanti europei a sapere bene come in realtà loro sono e restano semplici “tigri di carta”; a essere davvero potente, si sarebbe detto in altri momenti, è il popolo. E allora perché non frustrare la consapevolezza di ciò che si può ottenere costruendo dal basso il proprio futuro sovrapponendo alla festa dei lavoratori una “bella” celebrazione dell’affermazione planetaria del grande capitale come l’inaugurazione di Expo? D’altro canto, come hanno già fatto sapere al volgo, quando Expo chiuderà la baracca e i burattini andranno a compiere i loro saccheggi altrove (a Roma, per esempio, ci sarà il Giubileo…), il grottesco “albero della vita”, vale a dire la scultura-simbolo del grande evento milanese, non verrà installata in un posto qualunque, ma addirittura a piazzale Loreto. Sì, proprio lì, esattamente nel luogo in cui settanta anni fa un’insurrezione popolare fece giustizia del corporativismo fascista, aprendo nuovi scorci di cielo al sole dell’avvenire. Renzi, evidentemente, sa bene che non spegni il sole se gli spari addosso. Per questo preferisce soffocare il senso stesso della storia del passato imponendo un’altra costruzione di senso a ciò che determinati luoghi e determinati giorni possono continuare a rappresentare in futuro. Oggi, questo evidentemente va riconosciuto, le forze che si oppongono al revisionismo integrale non solo della storia ma del destino dell’umanità su questa terra, vale a dire le forze del fronte anticapitalista, possono apparire deboli e stanche rispetto a ciò che pure sono state. Ma proprio per questo vale davvero la pena opporsi con tutto il cuore a Expo e alla sua inaugurazione. In fondo – anche in questa epoca oscura – abbiamo il dovere di fare il modo che il futuro continui a non essere mai scritto, dopo di che, se non toccherà a noi vedere “sbocciare mille fiori”, sappiamo come dentro una semplice scintilla continua comunque a conservarsi tutto il fuoco del mondo.

E che solo la lotta paga.

SGOMBRIAMO EXPO!