Linea di condotta

Nel bar all’angolo, seduti ai tavolini, con la Ceres davanti e la Marlboro in bocca, guardano quello che sta succedendo a Firenze. Ci conosciamo bene visto che da anni entro qui tutti i giorni per il caffè, la birra e le sigarette. Loro si riconoscono o simpatizzano o pensano di trovare qualche risposta in una delle tante sfumature di destra che tutti i giorni gli parlano dalla stessa scatola e che ora gli dicono che è uno scandalo che i senegalesi distruggano le fioriere.
Io passo per essere quello comunista. E per questo diversi di loro immaginano che sia matto. Non è il massimo, pure se si sa che spesso sono proprio i matti quelli che dicono la verità.
«Quelle fioriere le paghiamo pure io e te amico mio!» – mi apostrofa uno di quelli seduto a tavolino, che non mi ricordo più se in passato mi ha detto di votare Fratelli d’Italia o Lega o magari M5S – che cambia? – e che adesso intercetta il mio cipiglio.
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T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?

Un giorno arrivo al bar e prima che apro bocca per farmi dare una canadese, Tremolina, che al bar ci abita, subito mi dice: «Hai visto che ha fatto Carpano?».

Se a Carpano fosse capitato qualcosa di veramente, veramente brutto, lo avrei capito subito. Perché accanto al nome della persona, Tremolina, come si fa in questi casi, avrebbe aggiunto la parola “poro”. Usare le parole per dire della morte porta male a chi lo fa, quindi non sarebbe servito andare oltre, sarebbe bastato dire “hai visto che ha fatto er poro Carpano?” e avrei capito; come aveva capito la barista, che la canadese la tira fuori dal frigo senza che io aggiunga nulla al solo fatto di essere là…

Che ha fatto Carpano?

Me lo chiedo con la canadese in mano e il mento all’insù, per invitare chi avevo di fronte a spiegarsi meglio.

«Giù al cantiere, stava a lavorà, un manovale rumeno j’ha fatto rodè er culo, che ne so… l’ha preso a pizze e questo è cascato giù dar ponteggio…».

Rimanevo ancora in silenzio. Allora Tremolina aggiunge: «Stavano a dodici metri, mica cazzi».

E poi: «So arrivate le guardie e se lo so’ portato via».

Tiro un sorso di birra dalla bottiglia: «Ah»; poi mi metto una mano sulla faccia. Anche nominare ciò che rende romani porta male. Fare il gesto che significa essere stato carcerato può bastare. Però no, mi confida Tremolina: «Se lo so’ tenuto a bottega mezza giornata e l’hanno riportato a casa. Me sa che j’hanno dato i domiciliari».

«Ciaveva moje e tre figli», dice la barista. Ma parla del manovale romeno. Tarpano, a quarant’anni, abita ancora con la madre, nessuno gli conosce una ragazza, ma che è uno che si incazza facile lo sanno tutti. Devi esse’ scemo pe’ fa a cazzotti a dodici metri: se lo piji, chi cìai di fronte lo ammazzi – o vai a morì ammazzato te, per carità. Per le guardie, comunque, deve esse stato un incidente e quindi niente gabbio. Mejo pe’ Carpano.

S’è fatta una certa. E dentro al bar suona la musichetta del telegiornale. Edizione della sera. Parla di una ragazza morta sotto la metropolitana. Dice che è stata una prostituta. Dice che l’ha ammazzata con la punta di un ombrello.

Che strano, penso.

Di film ne ho visti tanti, ma in nessuno c’è mai stato un assassino che va in giro a fare i morti con l’ombrello.

Che strano, penso.

Se uno fa il falegname, il farmacista, il giornalista, il pescivendolo, il facchino, il fabbro, l’agente immobiliare, l’impiegato, il giocoliere, il tabaccaio, il contadino, il cavolo che gli pare, mica lo dicono falegname, farmacista, giornalista, pescivendolo, facchino, fabbro, agente immobiliare, impiegato, giocoliere, tabaccaio, contadino o il cavolo che gli pare se c’è un arresto.

Che strano, penso.

Se uno è italiano mica lo dicono se c’è un arresto.

Una volta sì, lo facevano. Dicevano calabrese, leccese, siciliano, foggiano e napoletano, pure se uno era di Salerno, di Avellino o di Caserta. Adesso hanno smesso. Dicono romeno se è bianco o senegalese se è nero.

E se dicono romeno o senegalese, poi è dura che aggiungano che «è stato un incidente», non importa più quello che è successo.

E infatti nemmeno questa volta lo fanno. Passano i giorni e di questa ragazza che chiamano prostituta si viene a sapere che ha preso la condanna più dura di tutta la storia della Repubblica italiana per un omicidio preterintenzionale. Al bar, se dici che a questa – che la chiamano prostituta – se la so’ bevuta così male, ai politichi che rubbeno, allora, che toccherebbe da’ faje?; tutti fanno a gara pe’ aggiunge che ce vorrebbe ‘n sacco de benzina co’ li politichi, pe’ daje foco a tutti insieme alla mejo anima de li mortacci loro…

Quella che chiamano prostituta intanto ‘sta al gabbio.

Poteva fa la fine de Carpano, che il reato mica era tanto diverso, però a lui non je l’avevano scritto sul giornale che era romeno.

Carpano, sul giornale, non ce l’hanno proprio messo. La ragazza che chiamano prostituta sì, e lei era finita pure in televisione se è per questo. Infatti, una volta che è uscita in semilibertà, si è fatta una foto al mare mentre sorrideva e così se la so’ bevuta n’antra volta.

Aoh, ma che sei de coccio?

T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?

Prima gli italiani.

Che cosa significa?

Teso come il filo di uno stendipanni, un ragazzo indugiava davanti alle piante esposte al chiosco del fioraio. Combattuto tra la voglia di fare bella figura e quella di spendere poco, trasudava un imbarazzo completamente estraneo alle mutande appese a prendere il sole.

Cosa significa?

Niente. Ho appena visto un tipo così e ne sono stato colpito. Potrei scriverci un racconto o addirittura un romanzo con un simile incipit, no?

Ma visto che tanto ora c’è Facebook, ci sono i blog e ci sono i social network questa storia finisce qui.

La faccia della fiducia

La statistica sulla fiducia degli italiani

Strana questa statistica sull’affidabilità, ho fatto le stesse domande al bar della coltellata vicino a dove abito e, parlando di notai, il discorso è finito subito, che “chi non è bono a chiude co’ ‘na stretta de mano vor dì che è ‘n mezzo ‘nfame. Allora artro che’r notaro, je ce serve ‘a spiritosa”.

Per quanto riguarda poi la fiducia, al primo posto si sono piazzati i rapinatori, “perché ce se po’ fidà de chi va a saltà ‘n bancone”, tallonati dai ladri, “quelli che vanno a lavorà ai Parioli, famo a capisse”, seguono a una certa distanza i pusher, perché un lavoro sicuro è vero che ce l’hanno, però “vabbè, so’ affidabili finché je conviene, ma a spigne so’ boni tutti”.

Ho provato a domandare delle forze dell’ordine, ma uno m’ha guardato brutto e ha sbraitato “forze dell’ordine lo dici a tu’ sorella”, allora ho lasciato perde. Pe’ vede’ dove se sarebbero piazzati banchieri, politici o assicuratori, lo confesso, m’è mancato er core.

Ogni volta che mi convocano in Questura

Ogni volta che mi convocano in Questura ne approfitto sempre per fermarmi dal vecchio Garibaldi. Il foglio firmato dall’incaricato di turno in tasca, esorcizzo le brutte parole che gli uomini in divisa dicono di me con la carta ammuffita dei libri vecchi e i ricordi di quando gli editori trattavano direttamente con i bancarellai, visto che ancora non esistevano né i promotori né i distributori. Tra piazza della Repubblica e la stazione Termini, c’è sempre qualche volume di autori che nessuno stampa più, dedicato a temi e soggetti che avrebbero fatto il loro tempo e che ora se ne stanno là, stipati in chioschi come quello di Garibaldi, insieme a pile di vecchie videocassette porno, a vinili improponibili e a un variopinto assortimento di oggetti di antiquariato.

«Lo sai che la Morante pretese che La storia venisse stampato in edizione economica perché voleva che il suo libro fosse accessibile a tutti?», mi chiede Garibaldi.

«Sì…», annuisco. Lo so. E so anche che i processi faranno il loro corso e, nel giro di un certo numero di anni, si tramuteranno in condanne: diffamazione a mezzo stampa, adunata sediziosa, invasione di edificio, resistenza… Io però, ogni volta che mi convoca la Questura, continuo ad approfittarne per passare tra la stazione Termini e piazza della Repubblica e fermarmi una mezz’ora dal vecchio Garibaldi. Lì un’idea per la riedizione di qualche libro scomparso dalla circolazione eppure ancora necessario la trovo sempre. In fondo lavoro nell’editoria. E ne approfitto per festeggiare ogni denuncia mettendo in cantiere la nuova edizione di un vecchio classico della lotta di classe.

PS: ringrazio l’insopprimibile puzza di piscio che, stagnando tra i chioschi, aiuta i vecchi marchettari e i tossici ancora in circolazione a impedire ai fighetti a caccia di luoghi esotici di invadere la zona trasformandola in un posto… di classe. Cioè della loro classe.

Democrazia

Questa notte ho sognato la ghigliottina. Dietro di lei faceva la fila tutta la famiglia Windsor, dal signor Carlo fino al piccolo George, con la manina sotto il naso, nel tentativo di sventolare il più lontano possibile la puzza del popolo da cui era attorniato.
C’erano pure Camilla, William, Catherine e sua sorella Pippa. Anche Diana Spencer stava nel mucchio. A lei, in realtà, ci aveva già pensato un tunnel sotto la Senna, ma in fondo era un sogno e quindi nessuno trovava strana la sua presenza lì.
“Vedete,” spiegava alla piccola folla di altezze reali un signore che stringeva tra le mani la corda della grossa lama sospesa sulla cima della ghigliottina, “non esiste che qualcuno nasca con una corona in testa per scroccare sulle spalle di chi lavora per secoli e secoli. Dunque accomodatevi, iniziamo con lei signora Elisabetta?”.
Gli astanti, nell’attesa, coccarde tricolori sui baveri delle giacche e sui cappelli, commentavano pacati: “Era ora, è dal 1789 che si parla a vanvera di democrazia…”.

Via chissenefrega numero qualchecosa

Sono gli ultimi giorni d’agosto e se non sono le vacanze (c’è la crisi, chi è che va più in vacanza?) è il caldo che ci pensa. In ogni caso per Roma è una tregua. O almeno sembra…
Cammino per i marciapiedi vuoti cercando un punto di riferimento diverso dalle cicche spiaccicate, uniche testimoni di qualcosa che pure deve esserci stato, qualcosa che abbiamo sempre chiamato “vita”.
Faccio il giro dell’isolato – i bar sono chiusi, i parcheggi vuoti – e lo penso sul serio: “E se fossero tutti morti?”.
Il tempo di svoltare l’angolo. Poi, con le gambe larghe, la bocca spalancata e un paio di occhiali con le lenti scure, un vecchio se ne sta immobile in mezzo alla strada. Forse vuole attraversare e il silenzio assoluto che si respira nel quartiere gli ha portato via qualunque punto di riferimento, rendendolo incapace di agire e di pensare. Sui pantaloni marroni, una chiazza scura gli si arrampica sulle gambe per andare a formare un lago all’altezza dell’inguine. Non saprei come aiutarlo e vado avanti: “No, non sono tutti morti. Non ancora…”.
In realtà, proprio come il vecchio, neppure io so bene cosa fare: l’edicola – dice un cartello giallo – riaprirà il primo di settembre; inutile pensare di arrivare al parco per leggere il giornale: “Nel mare di Sicilia”, ci avrei trovato scritto, “quattromila persone stipate su tre barconi alla deriva sono state tratte in salvo dalla guardia costiera. Mentre i profughi saranno ospitati in strutture di prima accoglienza, si procede con la schedatura…”.
Immagino l’inchiostro sui polpastrelli di uomini, donne, bambini. Gli stessi che alla frontiera con la Macedonia, intanto, vengono manganellati a sangue, inseguiti per i campi, respinti a forza di gas lacrimogeni…
Con le mani in tasca, assorto in simili pensieri, torno alla realtà per colpa di un cicalino: un suono inconfondibile che mi allerta e mi scuote, nemmeno fossi una cazzo di gazzella che nella savana sente la puzza del leone sottovento.
Il cicalino suona ancora, mi volto e la vedo. La volante della polizia che procede a passo d’uomo, i finestrini aperti e la radio sintonizzata sulle frequenze riservate. Dentro, come è d’uso, ci sono due agenti, impegnati a scrutare i muri in cerca evidentemente di qualche indizio. Ma certo. La targa con il nome della via: impressa nero su marmo ed esposta in bella vista. Via chissenefrega numero qualchecosa. Gli uomini in divisa la vedono, quindi accostano, parcheggiano e scendono. Evidentemente sono arrivati dove volevano essere: in via chissenefrega, appunto. Dove ci sarà chi hanno ricevuto l’ordine di controllare mentre, con le mani distese lungo i fianchi, molto vicino al posto in cui portano appesa la pistola, ancheggiano nel caldo che, rimbombando sull’asfalto, alle guardie non deve fargli per niente bene dentro la testa.
Le caserme, gli ospedali, i tribunali e tutti quelli che ci girano intorno, si sa, non hanno mai promesso niente di buono… ma sperando sempre di averci a che fare il meno possibile nella vita, per quale motivo simili individui hanno pure il mio indirizzo?
Via chissenefrega numero qualchecosa… ma io già lo so dove abito, perché allora dovrebbe essere così facile rintracciarmi?
Nervoso, aumento l’andatura. Incerto se tornare a casa o continuare a camminare finché la strada non sia costretta a lasciare un po’ di spazio ai campi. Come accade sul confine tra Grecia e Macedonia, dove il potere di lasciare vivere o fare morire è affidato a uomini in divisa uguali a quelli che ho appena incontrato. Certamente rispetto alla città in cui vivo da quelle parti le cose sono molto più pericolose e quindi giù botte. La polizia è sempre più nervosa se ha a che fare con gente che non è stata ancora costretta a subire la pratica della schedatura di massa. Per tutti gli altri c’è sempre un indirizzo e magari persino un nome sulla cassetta delle lettere, quindi perché preoccuparsi? Non abitate anche voi in via chissenefrega numero qualchecosa?
Quando lo vorranno sapranno benissimo dove venirvi a cercare.

Carlo Giuliani e la morte di MP

Io lì non ci dovevo andare. Me lo avevano detto i miei colleghi sotto la doccia. Arrotolavano gli asciugamani e mi colpivano sulla schiena. E quando mi voltavo per vedere chi era stato giravano il dito indice, ridevano e facevano finta di niente: «Tu lì non ci puoi venire,» ripetevano, «perché sei stupido».
Erano tutti contenti di partire. Perché là pure a noi carabinieri di leva ci avrebbero pagato la giornata. E la mensa. E il posto dove dormire.
Qualcuno dei miei colleghi diceva pure che non c’era mai stato a Genova e già che c’era si sarebbe scopato qualche puttana. Magari una dei noglobal.
Io lì non ci dovevo andare. A fare il carabiniere. È che mio padre aveva un cugino che conosceva il maresciallo e allora mi hanno fatto passare. Anche se dicevano che non ci stavo tanto con la testa.
Poi un collega si è ammalato. E il comandante della caserma era convinto che dovevamo essere in tanti e allora mi ha mandato a dire che sarei salito anche io. Però dovevo stare attento perché mi volevano tirare i palloncini con il sangue infetto. E mettere le bombe nella macchina. Perché poi si volevano prendere tutto e a noi mandarci a casa.
Io comunque a casa non ci sto mica male. Conosco quelli del bar del mio paese. E loro non dicono che sono stupido.
Forse qualcuno lo dice. Ma solo perché mi sono fidanzato a una che era sposata e che aveva una bambina e quelli del bar pensano che le donne uno se le deve prendere nuove, come la macchine. No che prima le ha usate qualcun altro.
Ma a me lei piaceva. E anche la bambina.
Comunque sono partito. Con il pullman e tutti i colleghi.
Eravamo allegri.
Cantavamo.
Quelle canzoni non le conoscevo. Una diceva «faccetta nera», mi ricordo. Un’altra diceva «bella bionda apri le cosce». Un’altra ancora non la so ridire perché le parole erano in tedesco. Mi pare.
Quando siamo arrivati ci hanno fatto scendere e ci hanno detto di andarci a mettere la divisa.
Io mi sono trovato un posto vicino al muro nello spogliatoio. Così non potevano iniziare a darmi le botte con gli asciugamani. Ed ero contento perché avevamo pure un armadietto con la chiave. Che una volta avevo lasciato la roba nello spogliatoio e poi l’ho trovata tutta sporcata con la schiuma da barba.
Quando ci siamo vestiti ci hanno portato in una piazza. Non eravamo solo noi carabinieri, c’erano tutti. Quelli della guardia di finanza, quelli della polizia penitenziaria, pure quelli della forestale, c’erano. C’erano tutti.
E uno senza divisa, ma con la giacca e la cravatta, ci ha parlato. Ci ha detto che l’onore dell’Italia dipendeva da noi, che altrimenti le nostre donne avrebbero cominciato a fare l’amore con le cameriere e poi nelle chiese ci sarebbe finita la droga dove si mette l’acquasanta.
Alla fine tutti abbiamo urlato «sissignore». E siamo andati a prendere gli ordini al comando.
«Tanto tu sei stupido», mi ha detto un collega. E ce l’aveva con me soltanto perché il mio ordine diceva che dovevo stare di supporto, no fare le cariche proprio io. Invece il collega sbatteva il manganello nell’aria ed era tutto contento: «Perché a quelle zecche io glielo do sulla faccia così».
Intendeva dalla parte del manico. Perché fa più male il manganello dalla parte del manico. Ed è per questo che tutti lo usano in quel modo.
Come con il lanciagranate per i lacrimogeni. A me ne hanno dato uno e nella zona della Fiera mi hanno detto: «Spara!».
Io ho iniziato a sparare, e mi sono respirato un sacco di gas. Per questo io, durante il servizio, quasi nemmeno li ho visti quelli che stavano lì a Genova. Qualcuno sì. Mi sembravano ragazzini. Erano maschi e femmine in realtà. E una di loro, una femmina con lo zainetto, assomigliava alla figlia della mia fidanzata. L’ho riconosciuta subito, perché a lei voglio bene. Pure di più che se fosse figlia mia, anche se è diverso.
Non lo so se quella ragazzina si è fatta male oppure no. Mi dispiace se lei si è fatta male. Ma di sicuro mi sono fatto male io. Mentre sparavo i lacrimogeni non ci stavo proprio pensando che mi volevano tirare i palloncini con il sangue sieropositivo, e nemmeno che la mia fidanzata poteva fare l’amore con la cameriera perché da noi li lava lei i piatti e i panni, non c’è nessuna cameriera. Io sparavo solo i lacrimogeni, finché un ufficiale non è venuto da me e mi ha ordinato: «Levati di mezzo, che tu non sei capace».
Me lo ha preso lui il lanciagranate. E quando sparava, sparava dritto, così poteva colpire la gente in faccia.
«Qua siamo in guerra, cosa ti credi», mi spiegava.
E il mio compito era prendere i lacrimogeni e passarli a lui. Ma da quelli un po’ di gas usciva, e io me lo respiravo. È stato così che mi sono sentito male. Allora l’ufficiale ha perso la pazienza: «Sei un coglione», ha urlato. E mi hanno fatto salire sul gippone riservato agli ammalati.
Capirai. Io ero solo che contento di andarmene via. Se proprio potevo me ne sarei tornato a casa, al bar. Che mi mancava la mia fidanzata. E sua figlia.
Invece poi è successo. Non lo so se la colpa è stata del collega che mandava i messaggi con il cellulare, ma alla fine il gippone dove stavo è rimasto da solo, e intorno c’era tanta gente arrabbiata che ci lanciava le cose. Noi abbiamo provato a scappare, ma siamo rimasti incastrati addosso a uno di quei cosi dove la gente ci mette i vetri da buttare. E intorno che macello!
Ci tiravano i sassi, ci rompevano i vetri, sembrava ci volessero ammazzare, non me lo ricordo bene però. Io avevo respirato il gas. Avevo pure vomitato. Poi ho visto il sangue. Non lo so di chi era. E ho preso la pistola. E ho sparato in aria due volte. Ci ho messo un po’ perché non ero tanto capace a togliere la sicura, ma ho sparato in aria. E le cose si sono calmate. È arrivato pure un altro collega e finalmente mi hanno portato in ospedale. Lì mi hanno dato delle medicine, talmente tante medicine che mi veniva sonno, e se mi chiedevano qualcosa rispondevo piano, nemmeno io lo sapevo quello che dicevo. Quando proprio quasi dormivo mi hanno riportato in caserma. E li mi stavano aspettando. Tutti i colleghi. Sembravano felici. Hanno iniziato a battere le mani e a scandire in coro: «uno a zero per noi! uno a zero per noi!».
Allora, con una pacca sulla spalla, mi hanno informato che avevo ucciso un manifestante: «Benvenuto tra gli assassini», mi hanno salutato.
E da quel momento, ogni volta che uno di loro mi incontrava, mi indicava agli altri e avvisava: «State attenti, mi raccomando, non fate arrabbiare il cecchino».
Ma se io non sono mai stato capace a sparare!
Al poligono ero il peggiore di tutti, non ci prendevo proprio.
Ma ormai nessuno mi credeva. Mi hanno portato delle carte e io l’ho firmate: «Ti gestiamo noi, ricordatelo», venivano a raccomandarsi.
Ma cosa significa gestione?
Sono finito su tutti i giornali!
Mi hanno dato la colpa.
E mi hanno detto che non ero più buono per fare il carabiniere.
Capirai.
Io questo lo sapevo già.
E pure gli amici del bar, giù al paese, hanno cominciato a farmelo pesare. Secondo loro chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina. E che la mia fidanzata mi ha lasciato se lo immaginavano tutti. Secondo loro una volta che è stata fatta la strada tutti i cani ci passano. E da lei ne erano passati tanti…
Ma io le volevo bene.
A lei.
E alla bambina.
Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male. Quando sono venuti a prendermi l’ho spiegato bene: «Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male».
Ma loro insistono.
Insistono che io la toccavo.
O che mi sono fatto toccare, non me lo ricordo.
Io ho respirato i gas e ho pure vomitato.
E poi ho sparato in aria, sono sicuro.
Sono sicuro, anche se con tutte le gocce che mi hanno fatto prendere non è facile essere sicuri. Non riesco nemmeno a capire se è vero quello che vedo davanti agli occhi quando li chiudo. Se è vero un ragazzo con il passamontagna che mi guarda e alza il braccio puntandomi addosso le tre dita unite a formare una pistola. Lui, quando chiudo gli occhi, arriva e fa: «Pum!».
«Carlo Giuliani è vivo e tu sei morto».
Ogni volta che chiudo gli occhi il ragazzo con il passamontagna me la ripete sempre questa cosa qua.

Per sempre ragazzoRacconto di Cristiano Armati tratto dal volume Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani, a cura di Paola Staccioli, Tropea Editore, 2011.

E fu così che mi ritrovai laureato

Sono passato dalle parti della città universitaria oggi. E mi sono imbattuto in stormi di persone con l’alloro dietro le recchie come usava ai tempi di Dante e Virgilio, vestiti eleganti (devo essermi perso qualcosa: quando è iniziata la moda del farfallino?) e bei tomi rilegati in similpelle sotto il braccio. Tutti ridevano, qualcuno era ubriaco. Nel cervello mi si è accesa una fotografia datata 2002. Ci sono io in maniche di camicia color verde militare e praticamente nessun altro a parte la commissione: la discussione della mia tesi, in effetti, era fissata per le otto e mezza, a chi poteva reggere la pompa di svegliarsi per ascoltare una relazione su Ogotemmeli, un vecchio cacciatore Dogon? Venne un mio amico che entrò in aula un po’ in ritardo perché non riusciva a trovare parcheggio e una signora maliana in abito tradizionale a cui avevo parlato del mio lavoro. Altre persone le incontrai nell’atrio quando era tutto finito, intorno alle 9 più o meno. Così pagai ai convenuti cornetto e cappuccino nel bar di piazzale Aldo Moro, quindi mi presentai regolarmente al lavoro. “Quanto hai preso?”, mi domandò il capoccia di allora. “110 e lode”, risposi io. “Bravo, mo’ sposta ‘sto bancale”, ordinò lui. E fu così che mi ritrovai laureato.