Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Qualcuno ha iniziato a parlare di riot porn per descrivere l’attrazione del “pubblico” nei confronti delle immagini dedicate agli scontri di piazza e ai tafferugli con le forze dell’ordine. Le cariche indiscriminate, le manganellate a persone inermi, le istantanee di poliziotti che calpestano o schiaffeggiano i fermati credendo, magari, di non essere visti, in realtà si sprecano e sono abbondantemente disponibili in rete e altrove, insieme alle riprese, molto più rare, di reparti costretti alla ritirata grazie a una controcarica o a un fitto lancio di oggetti.

Merito dell’imperante economia dei click: una caratteristica dell’informazione ai tempi di Internet, capace di attirare i giornalisti sui luoghi del conflitto sociale come le mosce sul miele. Perché in fondo la fotografia di una testa spaccata o l’istantanea di manifestanti presi a calci è una delle poche cose che, sulla colonna destra dei quotidiani on-line, riesce a reggere il confronto con le gallery dedicate ai gattini o alle donne nude. E anche perché, sovraesponendolo, il dolore finisce per decontestualizzarsi: il manifestante colpito dal lacrimogeno, i cadaveri di decine di migranti stipati in un camion, il gol in rovesciata di un campione dello sport, il lato B di una famosa attrice di Hollywood, l’arte di impiattare i dessert, sono soltanto tessere di un palinsesto e, in questo schema, rispondono alla necessità di andare incontro agli sfaccettati gusti degli spettatori, non certo alla reale esigenza di riflettere su ciò che accade e su perché accade.

Per questa ragione, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire non sono le immagini dell’eventuale resistenza offerta dalle famiglie buttate in mezzo alla strada. Nei corpi scomposti di chi oppone resistenza a un nemico tanto più forte, numeroso e meglio armato come quello rappresentato da interi battaglioni di polizia, infatti, si cerca di cristallizzare ciò che, grazie all’esposizione, palesa una sconfitta presentata come inevitabile. Piuttosto, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire sono le immagini che parlano di ciò che fanno le forze dell’ordine, lasciate sole con se stesse, degli averi degli occupanti e degli spazi che questi hanno faticosamente strappato al degrado, recuperandoli alle proprie umanissime esigenze.

Ebbene, lasciate sole con se stesse, negli spazzi appena sgomberati, per prima cosa le forze dell’ordine si accaniscono contro i bagni. È un grande classico, ma sulla scia di una psichiatria insondabile gli uomini in divisa sembrano godere nel distruggere gabinetti e docce, quasi a voler implicitamente affermare che la loro controparte – uomini, donne, bambini… – non può davvero avere utilizzato un water o una vasca da bagno. Accade perché, se pensasse di fare tutto ciò che fa a uomini, donne e bambini, il personale in divisa finirebbe per abbandonare in massa il proprio servizio, da qui il bisogno di presentare il “nemico”, cioè il comune cittadino, come una sorta di animale, operare su di lui un’operazione di despecificazione fisica e morale utile al suo annientamento. Per questa ragione, le tazze del cesso degli spazi occupati, trasudando umanità, vengono immediatamente spaccate e divelte: la polizia afferma con quel gesto ricorrente che tutto ciò che ha fatto non lo ha fatto contro esseri umani e, considerando come né le cose né gli animali hanno mai usato i bagni, quei bagni non esistono, non devono esistere, quindi vengono distrutti.

Immancabile, dopo la devastazione dei servizi igienici, segue il bisogno da parte della polizia di marcare il territorio conquistato. Tradizionalmente tutto questo avviene pisciando sui vestiti degli sconfitti e sui loro letti. Cacare sui materassi, da parte della polizia, è un simbolo di vittoria e una modalità tipica di festeggiamento.

Una volta avvenuto tutto questo si può procedere alla spartizione del bottino: televisioni, macchine fotografiche e videocamere i beni più ambiti. Ma anche un bel paio di scarpe sparisce spesso e volentieri: avete mai visto degli animali girare provvisti di calzature?

E soprattutto, da che mondo e mondo, il saccheggio è il primo diritto concesso dalle stesse gerarchie di comando ai soldati dell’esercito invasore. Il tutto accade al di fuori e oltre ogni razionalità tecnica legata all’occupazione militare. Il furto è solo una piccola parte di ciò che accade in questi casi, considerando che lo stupro e la tortura vengono largamente praticati, segni indelebili della sopraffazione e punizione supplementare inflitta ai vinti.

Anche gli sgomberi delle occupazioni abitative parlano di guerra. In modo particolare parlano della guerra contro i poveri e della sopraffazione degli oppressori ai danni degli oppressi. E infatti immagini come quelle riprese dalla scena dello sgombero dello studentato occupato Degage non finiranno mai in una delle tante gallery dei quotidiani on-line. Perché mostrarle significherebbe ammettere l’odio brutale provato dalle forze dell’ordine nei confronti degli stessi cittadini che avrebbero il compito di tutelare (altro che “ripristino della legalità”!), riconoscendo in ultima istanza il corso – e l’aumento di intensità – di quella che è la nuova guerra civile italiana.

Dal sindaco al podestà: le nuove misure fasciste imposte dal Partito della Nazione di Matteo Renzi

Ieri a Bologna la Procura ci è andata giù pesante, notificando a Gianmarco De Pieri del centro sociale TPO il divieto di dimora nel capoluogo emiliano (è poco, ma a Gianmarco va tutta la nostra solidarietà).

All’attivista sono state concesse soltanto un pugno di ore per abbandonare la città dove vive e dove lavora, utilizzando un provvedimento (come il ricorrente reato di “devastazione e saccheggio”) preso di peso dal Codice Rocco, elaborato durante il regime mussoliniano per reprimere qualunque forma di dissenso, accostando le pratiche squadriste delle purghe e del manganello all’azione giudiziaria, grazie alla pratica del confino, subita da generazioni di antifascisti italiani.

La misura imposta a De Pieri è gravissima, ma purtroppo non è certo la prima volta che viene utilizzata. E se a Bologna ha già preso di mira chi non intende allinearsi con le compatibilità imposte dal renzismo in tema di casa, scuola e lavoro, a Teramo il divieto di dimora è stato utilizzato per punire gli antifascisti decisi a rispettare e a far rispettare l’eredità morale della Resistenza.

Quelli citati, purtroppo, sono solo alcuni esempi, niente affatto isolati. Ma dopo questa nuova svolta repressiva a Bologna è diventato naturale commentare come la città sia di fatto governata, più che da un’amministrazione eletta dai cittadini, da un organismo di polizia, nemico delle istanze sociali in quanto direttamente legato a un altro centro decisionale, vale a dire il comitato d’affari retto da Matteo Renzi a livello nazionale.

Questa osservazione, se applicata a Roma, sembra addirittura banale. In città, infatti, non ci si vergogna neppure – alla faccia del goffo Ignazio Marino – a sostenere che il vero sindaco si chiama Franco Gabrielli, un poliziotto passato per la Digos di Roma e Firenze, la prefettura de L’Aquila e la direzione del SISDE prima di essere nominato rappresentante del governo nella Capitale. Lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha sottolineato come a Gabrielli vada riconosciuta una delega speciale per quanto riguarda l’imminente Giubileo, una nomina che il «superprefetto» ha immediatamente festeggiato procedendo allo sgombero dello studentato occupato Degage.

Anche il divieto di dimora subito da De Pieri ha a che fare con uno sgombero: quello di Villa Adelante, una palazzina in viale Aldini che se condivide con la romana Degage lo stile liberty dell’immobile, più in generale ha a che fare con il pugno duro preteso dal Partito della Nazione di Renzi nei confronti di tutte le pratiche di riappropriazione. Case, studentati, centri sociali e, su questa falsariga, movimenti nati a tutela del territorio (ricordiamo quello che è successo a L’Aquila durante la recente visita di Renzi ai danni di chi rifiuta le trivellazioni dell’Adriatico?), ostacoli eliminabili, in ultima istanza, soltanto con la brutale violenza della polizia, in ossequio sia alle privatizzazioni imposte dall’Unione Europea, sia ai dettami del micidiale TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti), la cui devastante portata antipopolare non viene ancora percepita a livello di massa.

Quello che sta succedendo è che con il perdurare e l’avanzare di quel processo di ristrutturazione del Capitale a cui è stato dato il nome fin troppo tranquillizzante di “crisi” (vedi la buffonata dei finti dati sull’occupazione dopo il Jobs Act…), lo Stato non può affidare alle sue articolazioni periferiche, già completamente private di risorse e quindi rese appositamente inutili, né la gestione degli interessi padronali, né, tantomeno, l’ordine pubblico. Da qui l’esigenza di affidare direttamente alle prefetture il governo cittadino e regionale e la scelta di utilizzare la “legalità” come cavallo di Troia della persecuzione dell’attivismo e “l’efficienza” per ignorare norme, delibere e trattative strappati dai movimenti impegnati sul territorio. La misura decisa dal governo Renzi è scoperchiatamente antidemocratica, ma non è certo nuova. Durante il fascismo, per esempio, non ci si vergognava di comportarsi nell’identica maniera e una carica come quella di Gabrielli aveva un nome preciso: il podestà.

Podestà

Per capire di cosa si tratta, basta lasciare la parola a wikipedia. Ognuno, poi, sarà libero di trarre le proprie conclusioni:

In Italia il regime fascista introdusse la figura del podestà con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, una delle cosiddette leggi fascistissime. Dal 21 aprile 1927 al 1945 gli organi democratici dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà, nominato con regio decreto per cinque anni e in ogni momento revocabile. Nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti il podestà poteva essere affiancato da uno o due vice-podestà (a seconda che la popolazione fosse inferiore o superiore a 100.000 abitanti), nominati dal Ministero dell’Interno. Il podestà era inoltre assistito da una consulta municipale, con funzioni consultive, composta da almeno 6 consultori, nominati dal prefetto o, nelle grandi città, dal Ministro dell’Interno.

Un’ultima considerazione. Ancora nei giorni scorsi, a Follonica, una signora è morta dopo aver mangiato (probabilmente la classica salamella) alla locale festa del Partito Democratico. La notizia è straziante. Ma se scegliere di andare alla festa del Partito Democratico è già un dramma, consentire che il Partito Democratico faccia la festa all’Italia sarà un’ecatombe.

E a proposito. Follonica è in provincia di Grosseto, la stessa città dove è nato il podes… scusate, il prefetto Gabrielli.

Lo sgombero di Degage: il funerale dei (nostri) diritti

Negli ultimi giorni la scansione dei principali fatti di cronaca, a Roma, si è avvitata su un percorso particolare. Come a quest’ora sanno anche in Alaska, è successo che Don Vittorio ha stirato le zampe (dice che alla morte non gliene freghi un cazzo a come fai di cognome…) e che, per accompagnare la sua dipartita dal pianeta terra, la sua zadruga(*) gli abbia fatto venire da Napoli un cocchio con dodici cavalli, scortato lungo il raccordo anulare da un corteo di duecentocinquanta macchine fino alla chiesa di Don Bosco, dove un elicottero ha sorvolato il corteo funebre inondando la Tuscolana di petali di rose.
Mentre la banda intonava le note dolci-amare de “Il Padrino” e grandi striscioni rendevano omaggio al “re di Roma”, la pomposa scenografia barocca dell’evento funebre iniziava a disturbare i teofori della platonica compostezza occidentale, quella stessa fobia nei confronti dei corpi che, se già nella Grecia antica portava i filosofi a stigmatizzare il pianto straziante delle prefiche, oggi riserva il termine “dignitoso” soltanto per una classe altoborghese che, più che vivere e/o esternare le proprie emozioni, sembra impegnata a infilarsi su per il culo manici di scopa sempre più grossi.
Il discorso è complesso, quello che è sicuro, in ogni caso, è che non importa se sei negro, zingaro od occupante di case: potresti rischiare persino di essere tollerato purché tu viva nella più completa indigenza, portando la tua scodella davanti alla Caritas e interiorizzando il ruolo del poverino, dell’accattone o del “negro da cortile” (così definiva la situazione Malcom X) che i signori abituati a baciare in bocca i boss mafiosi, coloro che gestiscono la cosa pubblica (cioè la cosa loro) e/o i grandi centri per l’emergenza abitativa per conto degli appositi comitati d’affari (quelli a cui appartiene tutto), hanno previsto per te.
Rispetto a simile gentaglia, quelli a cui, come accade all’ex ministro Maurizio Lupi, facoltosi imprenditori non vedono l’ora di regalare massicci orologi d’oro… di fronte a questa piccola massa di fedeli pronti a genuflettersi davanti all’altare della Compagnia delle Opere di Comunione e Liberazione e capace persino di mettere le mani al portafoglio se si tratta di foraggiare, comprando una pagina del Corriere della Sera, l’andazzo del governo Renzi insieme alle sue privatizzazioni (leggi: espropri ai danni del popolo)… ecco, rispetto alla faccia (da culo) di simili personaggi i funerali di Don Vittorio – succede quando il livello di partenza è affine alla disperazione – sono paragonabili a un piacevole refolo di aria fresca, sprigionata dall’ennesima contraddizione in seno alla gestione del potere, questa volta emersa proprio grazie al gusto chiassoso del clan Casamonica, colpito dal lutto per la perdita di Don Vittorio.
A disagio di fronte all’inchino organizzato a Don Bosco, in una chiesa che non manca mai di trasformarsi in comoda garçonnière per chi davvero conta qualcosa, la stessa gestione politico-amministrativa romana e nazionale che ha prodotto, tra le tante altre belle (si fa per dire) cose, il sistema noto come “Mafia Capitale”, ha reagito con feroce durezza: l’elicotterista che ha lanciato i petali sul feretro è stato privato della licenza di volo, al cocchiere hanno sequestrato la livrea mentre i cavalli venivano torchiati per bene, per capire fino a che punto fossero complici dello scandalo…
L’osservazione della realtà dimostra che chi ha la faccia come il culo paga questa sovrabbondanza anatomica con la perdita del senso del ridicolo, niente di più naturale dunque che l’affaire Casamonica andasse avanti… come?
Prima di tutto, naturalmente, iniziando a gridare come ossessi il mantra “legalità! legalità!”… e le urla dovevano avere un tono forzatamente alto, considerando che se di legalità di vuole parlare è difficile farlo avendo negli occhi una famosa fotografia, quella in cui, comodamente seduti al tavolo di un bel ristoranti, pronti a farsi una panza come una capanna, sono accomodati proprio insieme a un illustre esponente del clan Casamonica nell’ordine (e tra gli altri): il ministro del lavoro Giuliano Poletti (quello che con il suo Jobs Act ha deciso che da oggi in poi si lavora gratis), l’ex assessore alla casa del comune di Roma Daniele Ozzimo (indagato per corruzione), l’ex ad di Ama, la compagnia municipale della raccolta dei rifiuti, Franco Panzironi (condannato a cinque anni per la vicenda clientelare di “parentopoli).

A cena con i boss

Tra i commensali, insieme al buon Salvatore Buzzi, uno dei vertici di Mafia Capitale, non poteva mancare un altro indagato eccellente, l’ex sindaco Gianni Alemanno, il numero due di un partito, “Fratelli d’Italia”, la cui leader, Giorgia Meloni, afferma senza problema alcuno: “Il funerale sceneggiata andava semplicemente impedito. Invece fonti del Campidoglio hanno fatto sapere che il Comune “non era al corrente”. Che strano… Nessun cedimento, da parte nostra, contro questa gente ma anche contro chi la spalleggia nelle Istituzioni. Di qualunque colore politico sia”.

Salvatore Buzzi, Luciano Casamonica, Gianni Alemanno

La faccia come il culo, si potrebbe chiosare parafrasando il don Abbondio de “I promessi sposi”, se uno non ce l’ha non se la può dare… allora tanto vale continuare a gridare ancora più forte: “Legalità! Legalità!”.
Lo fa, per esempio, il preposto assessore Alfonso Sabella, dichiarando che il funerale: “Certamente si poteva e si doveva evitare. Se non si è evitato è perché Roma non ha ancora gli anticorpi necessari per comprendere e prevenire cose di questo tipo: l’esistenza della mafia è stata negata fino a pochissimo tempo fa”.


Bolzaneto: Genova non è finitaAlla stessa maniera, si potrebbe far notare a Sabella, che anche le pareti insanguinate di Bolzaneto, dove i suoi uomini, nel corso del G8 genovese del 2001, si abbandonarono, parola di Amnesty International, “alla più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” (e quindi dopo i campi di concentramento di Hitler…), vengono ancora tranquillamente negate. E, strana ironia della sorte, lui è stato nominato addirittura “assessore alla legalità”, mentre altre persone stanno scontando condanne a dieci anni, colpite dalla mirabolante accusa di avere rotto una vetrina…

Il tweet a favore dei molestatori in divisaMiracoli della faccia come il culo unita alla forza del grido di battaglia “legalità! legalità!”, fatto immediatamente proprio anche dal neo assessore ai trasporti Stefano Esposito, uno talmente legalitario da avere difeso a spada tratta le molestie sessuali subite da una ragazza in Val di Susa, un vero e proprio campione, capace di trasformare le connivenze tra amministrazione e il clan Casamonica in un problema di case popolari occupate “abusivamente”: “Entro 15 giorni controlli sugli affitti dati a tutti gli appartenenti alla famiglia”, promette Esposito. Ma non dice affatto chi è che avrebbe concesso queste case: forse per paura di tornare a mostrare gli stessi personaggi (e chissà quali altri nelle stanze dei bottoni…) a cena con Casamonica e immortalati nella foto già citata?
In verità, “del maiale non si butta via niente”, deve aver pensato il legalitario Esposito. A patto di considerate che in tutta questa vicenda il famigerato maiale non rappresenta affatto il tradizionale volto dei governanti, al contrario, il maiale è il corpo vivo del disagio sociale romano: una macchia d’olio sempre più vasta, in grado di avvolgere studenti, disoccupati, precari e sottocupati in una totale assenza di futuro e di costringerli a una vita sempre meno degna in una città come Roma, il luogo dove perfino la speranza di prendere un autobus si trasforma in lotta per il potere, nel senso che davvero soltanto a provare a prendere la metropolitana diventa evidente che dopo mezzo secolo di furti, ritardi e cazzate varie, in questa città o si va a piedi o si fa la rivoluzione…
Del maiale, dunque, non si butta via niente. E allora perché non approfittare dello scandaletto Casamonica per regolare i conti con chi, a Roma come altrove, non ha mai accettato di piegarsi alla rassegnazione di una vita da sfollati e ha reagito con spettacolari prove di riappropriazione collettiva di beni pubblici, occupazioni abitative e organizzazione dal basso di un fermento sociale deciso a continuare a essere quel movimento reale che cambia lo stato di cose presenti?
Infatti, rispetto alla promesso di Esposito, dalle sue dichiarazioni (23 agosto) di giorni ne sono passati solamente due e cosa succede?
Succede che l’indignazione nei confronti dei funerali hollywoodiani di Vittorio Casamonica diventa indignazione contro gli “abusivi” e che, soffiando sulla brace della “legalità”, la prefettura ha finito per muoversi: forse contro qualche politico responsabile degli inciuci con gli stessi Casamonica o di altre peggiori efferatezze?
Certo che no!
Altrimenti a cosa serve la faccia come il culo?


Degage - studentato occupatoLa realtà infatti è proprio questa. Sono stati minacciati il fuoco e le fiamme ma il primo e unico provvedimento preso a Roma dalla Prefettura dopo lo scandalo di quel funerale è stato, questa mattina, all’alba del 25 agosto, lo sgombero dello studentato occupato in via Musa da Degage – Casa per Tutti: quaranta studenti-lavoratori presi di peso insieme alle loro poche cose e buttati in mezzo alla strada, dove sono tutt’ora. Sempre nel nome della “legalità” (c’è nessuno al comune di Roma che si sia speso per il diritto alla studio alla casa? Ovvio che no!).
Ovviamente, per la fregola dello sgombero che ha assalito la Prefettura romana, braccio armato della guerra contro i poveri combattuta con alacrità da Renzi (il prefetto è un suo uomo, non va dimenticato), non è contato assolutamente nulla che: 1) lo stabile di via Musa sia stato inserito alla fine del 2013 in una delibera regionale che si impegnava ad arginare l’emergenza trovando soluzioni – cioè case popolari! – per tutte le occupazioni abitative romane; 2) lo stabile di via Musa sia al centro di una poco chiara operazione di compravendita che ha riguardato la defunta provincia di Roma e il fondo Upside della Paribas (sull’argomento inutile dire che è in corso un’inchiesta della magistratura…).
Seppellita ogni idea di giustizia, dunque (altro che “legalità”), di questa triste mattinata di sgombero, insieme alla convocazione per le 17 di un’assemblea pubblica presso lo spazio “Tre Serrande”, nella città universitaria, a cui spetta il compito di rilanciare la lotta, restano alcune scene memorabili. Un milite che urla “c’è una ragazza nuda! c’è una ragazza nuda!” quando fa irruzione alle sei del mattino in una stanza dello studentato occupato (lui dorme forse con il cappotto ad agosto?); un ambulanza che arriva per ricoverare al policlinico un ragazzo collassato per lo shock dello sgombero; alcuni giovani classificati come “extracomunitari” e attualmente a rischio CIE per irregolarità nel permesso di soggiorno; la paura di chi a Roma è espulso da qualunque idea di mercato in rapporto al diritto alla casa e ora ha davanti agli occhi immagini di celerini armati di tutto punto che pisciano nei lettini dove fanno dormire i figli e distruggono ogni cosa.

Ma è proprio da questa paura, in realtà, che è necessario ripartire: con chi ha la faccia come il culo, infatti, non c’è logica che tenga mentre la rabbia liberata nei loro confronti è senz’altro più efficace. Questa è la materia prima con la quale ricostruire rapporti di forza favorevoli all’insorgenza popolare, altrimenti il celerino è già lì che aspetta agitando il manganello in attesa di nuove albe e, inevitabilmente, di altre famiglie da sgomberare. Ma questo non è certo tutto, e non è soltanto di lotta per la casa che si sta parlando, anzi. Perché sarebbe ingenuo pensare che il funerale più spettacolare a cui stiamo assistendo sia quello tributato a Don Vittorio, pace all’anima sua. Il funerale che ci tocca, cioè il nostro funerale!, è quello a cui la cricca piddina sta sottoponendo tutto ciò che possa puzzare di bene comune, di welfare e di diritti sociali. E voi, ora che la scuola è stata azzerata, la sanità resa di fatto a pagamento, l’acqua ceduta ai privati, la possibilità di avere un tetto sulla testa affidata alla sola possibilità economica delle famiglie, il territorio sventrato da ogni genere di opere inutili e dannose (a chi le trivelle, a chi le discariche, a chi le radiazioni dei ripetitori, a chi i gasdotti, a chi le linee ad alta velocità)… non vi siete accorti di essere stati invitati?

– – –

(*) Zadruga: Istituzione di carattere gentilizio che si incontra presso gli Slavi meridionali fin dall’epoca anteriore al loro stanziamento nei Balcani (sec. 6° e 7°). Può definirsi come una comunità rurale di vita, di beni e di lavoro tra famiglie e persone legate da un vincolo di parentela, che riconoscono l’autorità di un unico capo (kućegospodar, starješina, domaćin). Persona morale di diritto privato, questa comunità ha costituito la base del diritto di famiglia degli Slavi meridionali; sul finire del 19° sec. le z. erano composte da 20 a 30 membri. Stretta dagli sviluppi economici e sociali contemporanei (rapporti capitalistici nelle campagne, economia monetaria, specializzazione agricola), l’istituto della z. si è formalmente esaurito all’inizio del 20° sec., anche se alcuni studi antropologici contemporanei (R. Hammel, Alternative social structure in the Balkans, 1969) ne hanno dimostrato la vitalità ancora a metà degli anni 1960.

L’articolo 5 del Piano Casa di Lupi e i militanti del Partito Democratico: ecco perché non potete non dirvi fascisti

Il 30 ottobre del 1922, dopo la marcia su Roma di alcune migliaia di militanti fascisti, il re Vittorio Emanuele III cedeva alle pressioni della piazza nera affidando a Benito Mussolini la presidenza del Consiglio.

Secondo i nostalgici si tratta del prologo della “rivoluzione fascista”: un evento che avrebbe consegnato all’Italia un ventennio di abiezione, la deportazione nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica e degli oppositori del regime, l’annullamento di qualunque garanzia democratica e i milioni di morti della seconda guerra mondiale.

Si tratta, in effetti, di un periodo storico talmente cupo e scellerato che, nel corso del tempo, dopo aver dato una mano di vernice patriottica sui valori della Resistenza con l’obiettivo di annullare i valori di giustizia sociale che l’avevano animata, le narrazioni impegnate nel racconto e nell’analisi del fascismo hanno finito per rinchiudere gli anni di Mussolini all’interno di un paradigma dominato dall’eccezionalità: una parentesi senz’altro sconvolgente ma, a causa delle particolari condizioni che provocarono l’emersione del fenomeno, senz’altro irripetibile… ma è ancora possibile, oggi, accettare una simile visione delle cose?

Il 16 febbraio del 2014, Giogio Napolitano, nella veste di presidente della Repubblica, senza che il suo atto fosse suffragato da una qualche forma di consenso elettorale, prendeva atto della sfiducia ricevuta da Enrico Letta dalla direzione del suo Partito e conferiva l’incarico di formare un nuovo governo a Matteo Renzi, classe 1975, famoso per aver guidato un movimento detto “dei rottamatori” all’interno del Partito Democratico e per i discorsi pronunciati in manica di camicia… bianca: una sorta di divisa informale, da quel momento in poi adottata immancabilmente da tutti i sostenitori dell’ex sindaco di Firenze, non a caso detti “renziani”.

Se il vecchio Napolitano, novello Vittorio Emanuele III, guadagnava il soprannome di “Re Giorgio” grazie a un decisionismo più consono al vecchio regno d’Italia che non a una vera repubblica parlamentare, gli atti del nuovo governo Renzi non sono da meno e, immediatamente, si caratterizzano per un approccio a dir poco insofferente rispetto a quanto previsto dagli stessi dettami costituzionali.

In modo particolare, il governo Renzi si distingue per l’uso massiccio e disinvolto dello strumento del decreto legge: un dispositivo a cui l’articolo 77 di quel pezzo di carta straccia una volta chiamato Costituzione affida il ruolo di avere «effetto di legge» in frangenti di particolare necessità e gravità. Al contrario, e quindi contravvenendo alla stessa Costituzione, Renzi e i suoi ministri aggrediscono a colpi di decreti qualunque settore della vita pubblica e civile: dal lavoro, grazie al Jobs Act firmato da Poletti (DL n. 34 del 20 marzo 2014), alla cultura, con il decreto di Franceschini (DL n. 83 del 31 maggio 2014), fino ad arrivare alla casa grazie all’«interessamento» dello spietato Maurizio Lupi, oggi costretto alle dimissioni e sostituito dal fedelissimo di Renzi Graziano Delrio a causa del suo coinvolgimento in una brutta storia di tangenti e raccomandazioni, eppure confermato a suo tempo alle Infrastrutture e ai Trasporti anche dopo la defenestrazione di Enrico Letta.

Fatto passare con il tranquillizzante nome di «Piano-casa», il Decreto Lupi (DL n. 47 del 28 marzo 2014) reca il titolo di Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015 e, pur considerando: «L’attuale eccezionale situazione di crisi economica e sociale che impone l’adozione di misure urgenti volte a fronteggiare la grave emergenza abitativa in atto», e: «La necessità di intervenire in via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo che interessa sempre più famiglie impoverite dalla crisi e di fornire immediato sostegno economico alle categorie meno abbienti che risiedono prevalentemente in abitazioni in locazione», finisce per sferrare un attacco senza precedenti a chi, nel corso degli anni, ha rappresentato l’unica, vera risposta al disagio abitativo, vale a dire i Movimenti per il Diritto all’Abitare. In che modo?

La pietra nello scandalo è contenuta nell’articolo 5. Dove, alla voce «Lotta all’occupazione abusiva di immobili», si afferma senza mezzi termini che: «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Tradotto in parole semplici, Lupi e il suo decreto pretendono di spingere nell’invisibilità e di escludere da ogni forma di welfare chiunque abbia preso parte a un’occupazione abitativa e/o viva in una casa occupata. Al di là dei previsti distacchi di acqua e luce, misure contrarie ai più elementari diritti umani più che agli stessi diritti politici di qualunque cittadino, privare una famiglia della residenza, nei fatti, rende impossibile anche produrre i semplici certificati Isee e, di conseguenza, rende impossibile, o comunque molto difficile, iscrivere i bambini alle scuole. Ancora, senza residenza, si incontrano difficoltà nell’accedere ai servizi di medicina di base e, essendo questa parametrata su base circoscrizionale, priva persino dell’assistenza domiciliare i disabili che ne hanno diritto. Una vera e propria operazione di macelleria sociale, insomma. Resa ancora più crudele dagli articoli 3 e 4, con cui si facilità lo smantellamento dell’edilizia residenziale pubblica attraverso la messa in vendita degli stessi alloggi popolari che il decreto pretenderebbe di tutelare!

Eleanor Roosevelt la Dichiarazione universale dei diritti umani
Eleanor Roosevelt con la Dichiarazione

Con la conversione in legge del Decreto Lupi, il governo Renzi, tra le altre cose, si assume la responsabilità storica di andare a infrangere persino la Dichiarazione universale dei diritti umani; uno di quei pezzi di carta – sottoscritto in pompa magna a Parigi nel 1948 – spesso sbandierati di fronte all’opinione pubblica se si tratta di vantare la presunta superiorità occidentale o, magari, di “esportare” la democrazia a suon di bombe, ma che nell’Italia guidata dal Partito Democratico è contraddetto senza mezzi termini. Come viene affermato dall’articolo 25 della Dichiarazione, infatti: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (…) all’abitazione”.

Eppure, se il governo Renzi ha avuto modo di svelare la sua vocazione liberticida anche sui provvedimenti che sono andati a interessare settori nevralgici come la Scuola e la Legge Elettorale, la natura apertamente fascista della legge sulla Casa è confermata dalla vergognosa continuità storica tra il Decreto Lupi e la famigerata Legge 1092 del 6 luglio 1939, comunemente detta «legge contro la residenza» o «contro l’urbanesimo», che, nei fatti, aveva trasformato gli immigrati italiani in soggetti privi di qualunque diritto – dalla possibilità di iscriversi alle liste di collocamento a quella di ricevere assistenza sanitaria, fino all’esclusione dalle liste elettorali – e, per questo, esposti a qualunque ricatto anche in tema di salario e condizioni lavorative.

Come tante altre cose, la legge contro la residenza, non soltanto non venne abolita dal nuovo regime democratico, ma rappresentò una sorta di leva con la quale fare della povertà, più che una questione sociale, un problema di ordine pubblico. In questo modo, chiunque si fosse trovato a vivere una condizione di emergenza abitativa veniva semplicemente fatto sparire, smettendo, grazie al provvedimento, di esistere dal punto di vista legale e, di conseguenza, di non poter pretendere un giusto compenso da parte del datore di lavoro né di rivendicare il diritto alla casa.

Una situazione scandalosa, una vera e propria ferita aperta nel paesaggio democratico italiano ma anche, in passato, il territorio sul quale fu possibile cogliere un’importate vittoria. Il 10 febbraio del 1961, infatti, dopo anni di lotte e mobilitazioni che non mancarono di costare denunce penali e feriti in piazza, veniva finalmente abrogata la norma fascista che limitava il diritto alla residenza. Fu un successo epocale e testimoniò una maturità politica che, ancora oggi, merita di essere sottolineata. Che fosse possibile, infatti, condurre in porto una battaglia unitaria ricomponendo all’interno di un interesse di classe le spinte centrifughe che, strumentalizzando la paura della concorrenza tra lavoratori, ostacolavano, anche da sinistra, la liberalizzazione delle residenze, era un fatto tutt’altro che scontato. Per arrivare a tanto, evidentemente, fu determinante la spinta delle proteste popolari, ma anche l’intelligenza e la perseveranza di alcuni tra i migliori dirigenti del Partito Comunista e delle associazioni collegate alla sinistra istituzionale. Oggi, che con l’articolo 5 del Decreto Lupi si torna a calcare i passi già seguiti dal fascismo, abrogando il principio della libertà di residenza conquistato a prezzo di lotte molto dure, lo si fa con un governo guidato dal Partito Democratico, ma anche con l’indegno silenzio delle stesse associazioni egemonizzate dal PD, a cominciare dall’Anpi, a cui in passato l’identico provvedimento aveva fatto orrore.

Parliamo, evidentemente, di altri tempi e di personaggi di ben altra caratura morale rispetto alle mistificazioni odierne. Ma, allo stesso tempo, descriviamo una situazione in cui l’impostazione dittatoriale del governo Renzi riesce, grazie all’azione di polizia, ad arrivare anche dove i poteri locali sono costretti a cedere di fronte allo scandalo di famiglie lasciate senza acqua e senza luce dalla legge formulata dall’inquisito ex ministro Maurizio Lupi.

Da questo punto di vista, un altra data da segnalare sul calendario dell’orrore è quella del 7 luglio del 2014 quando, a Bologna, si apprende dell’apertura di: “Un’inchiesta contro il riallaccio dell’acqua all’occupazione abitativa di via Mario de Maria ordinata dal sindaco Merola lo scorso 23 aprile”; una situazione resa ancora più grave, come denuncia in un comunicato la bolognese Assemblea Occupanti e Comitato Inquilini Resistenti con Social Log, dal fatto che: “Solo poche settimane fa anche la vice-presidente Gualmini della regione Emilia Romagna, a seguito di un tavolo di contrattazione sulle nostre istanze di lotta, ha garantito pubblicamente l’indisponibilità a recepire l’articolo 5 all’interno del piano casa regionale”.

Ciò che accade è che anche dove, a livello locale, si tenta una mediazione istituzionale rispetto alle contraddizioni aperte dalla legge nazionale, è il potere centrale a intervenire in senso oltranzista, sbandierando un ridicolo vessillo di “legalità” e affidando il ripristino dell'”ordine” alla magistratura e alla polizia. Non è facile evitare di vedere in un simile modo di procedere, oggi particolarmente evidente nel caso bolognese, una strategia da intendere come prassi del governo Renzi: ridurre gli organi del potere periferico a puri fantocci, dominati nei fatti da magistrati, prefetti e poliziotti scelti con cura tra i fedelissimi del Partito della Nazione e quindi piazzati nei posti ritenuti “giusti” dal nuovo Duce fiorentino.

Alla luce di simili considerazione, i valori dell’antifascismo trovano una compiuta necessità di dispiegarsi in forma diretta contro il Partito Democratico e le sue articolazioni. Mentre alle donne e agli uomini del PD ancora ciechi e sordi di fronte agli abusi compiuti da Renzi e dai suoi sgherri, ciechi e sordi di fronte al livello di violenza antipopolare di cui questo governo è colpevole; agli uomini e alle donne ancora organizzate all’interno di un Partito Democratico responsabile di scadere nell’abominio, insieme all’onta di essere detti senza mezzi termini fascisti e trattati come tali, non può che essere rivolto in forma di maledizione quanto scritto da Antonio Gramsci già nel 1917: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva (…). Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Mafia Capitale: il film che non piacerà al Partito della Nazione

Guardo pochissima televisione. E non sono di tipo ideologico le questioni che mi tengono lontano dal piccolo schermo. Ma il fatto è che, con il suo corollario di situazione comoda e luce soffusa, per me la televisione significa prima di tutto sonno, a prescindere dall’interesse che possa nutrire per un determinato film o programma.

Al contrario, di natura squisitamente ideologica è l’avversione radicale che nutro nei confronti della televisione a pagamento. Non solo, infatti, Sky non mi ha mai avuto né mi avrà mai, ma non sono neppure poche le polemiche da pianerottolo in cui, con i miei vicini paytvdotati, ho sostenuto la tesi luddista secondo la quale l’unica televisione a pagamento buona è quella eventualmente ottenibile con una scheda criptata o altri mezzi pirata. Prima di tutto perché, veicolandosi attraverso l’etere o dipanandosi grazie a cavi ospitati dal sottosuolo, qualunque segnale televisivo utilizza per esistere l’aria e la terra, beni che in nessun caso mi sono mai immaginato di privatizzare; e in secondo luogo perché reputo la televisione a pagamento responsabile di quella grande confusione in cui è precipitato il «mondo di sotto» al quale appartengo, capace persino di scegliere di pagare il proprio intrattenimento a prezzo di rinunce fatte scontare ad alcune tra le tante cose, decisamente più belle, messe a disposizione dalla vita. Ogni volta che un abbonamento Sky viene sottoscritto, c’è un viaggio che muore; una giornata al mare da regalare alla propria famiglia in meno; una cena romantica perduta; una colossale sbornia in giro per locali con gli amici a cui si rinuncia a partecipare; libri, dischi e ogni altra sorta di occasioni ludiche e formative sottratte a se stessi per prendere parte in modo isolato a ciò che viene venduto come un’irrinunciabile esperienza collettiva, che si tratti di una finale di champions legue o di un kolossal trasmesso in prima visione.

Per questa ragione, qualche sera fa, trovatomi a casa solo e pensieroso e volendo sfogare questa solitudine e questi pensieri, mi sono seduto sul divano e ho acceso la televisione, sintonizzandomi sul canale pubblico chiamato «Rai Movie». In modo pressoché immediato, complice l’ora tarda, gli occhi hanno cominciato a chiudersi da soli, precipitandomi in uno stadio in cui facevo qualche difficoltà a capire se stavo dormendo, e quindi sognando, o se era il film in programmazione a mostrarmi ciò che comunque, a un certo punto, vedevo.

Occorre precisare che mi trovavo tipo in quarta serata, e che quindi il palinsesto del mio canale Rai stava raschiando il barile del suo magazzino-titoli offrendo un qualche B, C o D-Movie di cui non ricordo il titolo ma soltanto qualche pezzo di trama, simile, credo (non sono mai stato un cinefilo, ed è già tanto che non scriva «cinofilo»…), a decine di altri film simili. Un film dove, a un certo punto, una qualche accusa terribile viene lanciata da un gruppetto di cospiratori malvagi contro un innocente; con l’innocente che, smessi i panni del buon padre di famiglia e/o del marito affettuoso, lavoratore serio ed esemplare, si trasforma in una sorta di macchina da guerra per smentire le bugie di cui è vittima. Sottraendosi alla cattura da parte della polizia, allora, l’eroe in questione si munisce di armi da fuoco che inizia a usare senza risparmio, sgominando decine di cattivi o presunti tali. Alla stessa maniera, ingaggiando inseguimenti a rotta di collo con i tutori dell’ordine, provoca incidenti terrificanti, con TIR che sbracano negozi e automobili che volano tra i ponti. Dopo essere passato anche per gli esplosivi e le bombe a mano per trovare gli argomenti utili a dimostrare la propria innocenza, questo eroe riesce effettivamente nell’intento: non è colpevole di nulla, ma sono stati i cattivi, magari pure con qualche talpa nella polizia, a fabbricare le prove per incastrarlo; ora che tutto è chiaro non gli resta che ricevere calorose pacche sulla spalla insieme alle scuse ufficiali. I morti, i feriti, le devastazioni che ha provocato non contano più nulla: era suo diritto difendersi; raggiunto lo scopo, può tornare alla sua casa, dove c’è una moglie bellissima che lo aspetta, e sprofondare nuovamente nelle sue abitudini quotidiane.

Nemmeno il tempo di assaporare il finale di questo anonimo film, che, grazie al ponte d’oro costruito per me dal sonno, a scorrere sullo schermo sono le notizie del telegiornale. Si parla di Buzzi, di Carminati, di Mafia Capitale…

L’annunciatrice, con fare compunto, snocciola i dati forniti dalla magistratura: tot arresti, tot avvisi di garanzia, tot dimissioni di uomini politici delle più disparate appartenenze di partito eccetera eccetera. Di fronte a un’assenza, però, mi pare di tornare lucido e, all’improvviso, di non avere più sonno, ma, al limite, sempre e comunque voglia di sognare.

L’assenza, in questo come tutti gli altri spacci di notizie riguardo a Mafia Capitale, riguarda la domanda più importante, vale a dire: da dove, tutto questo, è cominciato?

Ebbene, il terreno di questa nuova generazione affaristico-criminale è quello, drammatico (non certo per loro), dell’emergenza abitativa, nella sua doppia veste di fenomeno di impoverimento generalizzato, con conseguenza perdita della casa e/o del reddito necessario a mantenersi un tetto sopra la testa, e di business dell’accoglienza, con particolare riferimento ai migranti e, in modo particolare, ai richiedenti asilo e a coloro che hanno acquisito lo status di rifugiato politico.

Si tratta, come è ovvio, di due facce dell’identica medaglia: la morte, avvenuta in Italia, di qualunque politica dedicata all’edilizia residenziale pubblica, con il conseguente azzeramento nella disponibilità di case popolari, a cui peraltro i rifugiati avrebbero pieno diritto (lo afferma, parlando di legalità, la Convenzione di Ginevra, sottoscritta dall’Italia nel 1951).

A parlare sono i numeri. In una città come Roma, l’incidenza dell’edilizia popolare sul patrimonio immobiliare è ferma oggi al 3%, ben quattro punti percentuali in meno rispetto a quanto toccato una trentina di anni fa, ma comunque ben lontano dalla media europea, che assegna alle case popolari valori intorno al 12%. Parliamo, in questo caso, di metropoli come Londra o Berlino, cioè di templi del capitalismo avanzato e non certo di paradisi del socialismo reale. Infatti è proprio in questa macroscopica differenza che si consuma la natura mafiosa del regime italiano. L’attacco alle case popolari, non a caso, è funzionale sia a drogare il mercato immobiliare a vantaggio di una cricca di palazzinari e di operatori del business finanziario della cartolarizzazione (la pratica di trasformare in cedole dal valore arbitrario quote di proprietà immobiliari: do you remember la crisi dei mutui subprime?) e, contemporaneamente, di un sottobosco travestito da cooperazione sociale (Buzzi&Co. sono solo la punta dell’iceberg) e pure verniciato di sinistra (o di solidarismo cattolico), interessato a rendere sistemica l’emergenza per continuare a fare affari affittando al comune per qualcosa come 2000 euro al mese ognuno i loculi in cui vengono intubate le famiglie ridotte a vivere in strada dopo aver perso lavoro e casa con la crisi.

a.timthumbIl sogno, di fronte a una simile situazione, è quella di una massa brutta, sporca e cattiva, in grado di coagularsi per scagliarsi compatta contro i suoi affamatori armata di un simbolo nuovo e antico allo stesso tempo: un bel palo appuntito; uno di quei semplici attrezzi utilizzati per somministrare il connesso supplizio dell’impalatura; ultimo mezzo di dissuasione per la congrega di politici corrotti e per tutti i corpi intermedi che hanno edificato il peculiare sistema di sfruttamento italiano, mafioso perché incapace di tenere conto persino di quel minimo di welfare altrove somministrato per tenere basso il conflitto sociale…

Sempre sul divano, ormai in stato di trance per colpa della micidiale accoppiata sonno-telegiornale, non mi restava che assaporare un’altra notizia. Pare, infatti, che a Roma bisognerà starsene belli tranquilli, visto che papa Francesco I avrebbe deciso di proclamare il Giubileo…

L’idea è fantastica. Tant’è che già si parla di approfittarne per imporre il divieto di scioperare e di manifestare per non disturbare i necessari lavori, e poco importa se questi lavori toglieranno ulteriori risorse a ciò che spetterebbe all’emergenza abitativa: il modello Expo lo ha già insegnato, l’importante è accaparrarsi un posto da volontario – rigorosamente non pagato – con cui fregiare il proprio curriculum, per tutto il resto (nuove speculazioni immobiliari, colate di cemento ovunque e azzeramento di vigilanza grazie a qualche commissario a cui conferire poteri speciali) c’è Mafia Capitale; a cui sarebbe davvero più corretto togliere ogni connotazione etnica per iniziare a parlare compiutamente di Mafia Nazionale, e non certo per riferirsi alle organizzazioni vecchio stile di picciotti siciliani o calabresi, ma al Partito della Nazione, dove un simile sistema ha trovato la sua degna consacrazione… a che cosa è servito, altrimenti, il decreto con cui il fu ministro Lupi ha stabilito di privare della residenza chi vive in stabili occupati e di vendere le case popolari?

Inutile specificare, rimpallando tra il film su Rai Movie e uno a piacere tra i telegiornali di regime, che a differenza di quanto accaduto al povero eroe ingiustamente calunniato, coloro che in questi anni hanno attaccato concretamente il sistema mafioso e il business dell’accoglienza, vale a dire i militanti dei Movimenti per il Diritto all’Abitare, non si sono mai visti rimettere tutti i reati di cui sono stati accusati: dalla resistenza aggravata all’invasione di edificio, ogni denuncia è restata al suo posto, e giorno dopo giorno dispensa misure restrittive e anni di galera. È proprio qui, però, che l’idea di papa Francesco potrebbe rivelarsi davvero geniale, almeno per quella massa brutta, sporca e cattiva comparsa a un certo punto del sogno o della visione con tanto di palo appuntito in testa. L’idea di lanciare un grande, autentico Giubileo popolare. Come è stato scritto:

Secondo l’Antico Testamento il Giubileo portava con sé la liberazione generale da una condizione di miseria, sofferenza ed emarginazione. Così la legge stabiliva che nell’anno giubilare non si lavorasse nei campi, che tutte le case acquistate dopo l’ultimo Giubileo tornassero senza indennizzo al primo proprietario e che gli schiavi fossero liberati.

Adattando ai giorni nostri una simile prospettiva, il programma del prossimo Giubileo dovrebbe contemplare:

  • L’azzeramento di tutti i debiti nei confronti di Equitalia;
  • La regolarizzazione a tempo indeterminato di tutti i contratti atipici insieme a quella di tutti i lavoratori precari;
  • La nazionalizzazione di tutte le imprese che, in regime privatistico, erogano servizi utili alla collettività;
  • L’amnistia generalizzata a favore dei prigionieri dello stato italiano attualmente in carcere;
  • E, naturalmente:

La requisizione immediata di tutto il patrimonio immobiliare sfitto, direttamente proporzionale ai numeri dell’emergenza abitativa nonché sola misura in grado di fare fronte allo stato di crisi e di debellare Mafia Capitale o Nazionale che dir si voglia.

In alternativa, l’unica soluzione per combattere concretamente i mafiosi saldamente in sella è, come sempre, quella di occupare tutto. Espropriare gli espropriatori per tornare a disegnare una prospettiva di classe che è anche una prospettiva di salvezza rispetto alla barbarie che ci attende dietro l’angolo di un capitale boccheggiante e per questo feroce nella sua pretesa ristrutturazione. Occupare tutto, dunque. Per togliere di mezzo il mondo di sopra. E perché non si sta parlando di un film, ma della vita reale. L’unico ambito in cui, collettivamente, è decisivo tornare a ritagliarsi un ruolo da protagonisti.

La Scintilla a “Il Caffè” di Raiuno

A chi, svegliandosi all’alba del primo giugno, si fosse sintonizzato su Raiuno e, alle 6 e 20 circa, vedendo una faccia conosciuta, avesse pensato di essere ancora addormentato, si può dire che no, non stava sognando: con la maglietta di “Roma si barrica”, c’era davvero Cristiano Armati. Intorno al dodicesimo minuto interviene nel programma “Il Caffè” di Raiuno per presentare “La Scintilla” e parlare di emergenza abitativa e di occupazioni, sostenendo la necessità di fermare le privatizzazioni per imporre un piano-casa degno di questo nome.

La Scintilla: dalla Valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa

a.scintilla
SABATO 23 MAGGIO, ORE 19 – 770 OCCUPATO (Via Tiburtina 770) – Cristiano Armati presenta “La scintilla” con le compagne e i compagni che hanno dato vita alle mobilitazioni raccontate nel libro 
*
Negli ultimi anni, con l’acuirsi della crisi economica che si è fatta ormai sistemica, e il susseguirsi dei vari governi tecnici che hanno tracciato la strada per la “guerra ai poveri”, incarnata da Renzi e i suoi ministri in misure legislative che vanno dal Piano casa al Jobs Act, dalla Buona Scuola allo Sblocca Italia, abbiamo assistito ad un sostanziale impoverimento della società italiana. Attraverso le riforme neoliberiste e la distruzione del welfare, e in una sostanziale emergenza sociale, il governo e gli enti locali hanno tracciato una linea netta fra solvibili e insolventi, fra chi a costo di sacrifici riesce a pagare indebitandosi e chi invece proprio non ce la fa.
In un contesto del genere i movimenti sociali si sono attivati per provare a costruire reti di solidarietà e di lotta nei territori. In questo senso la lotta per l’abitare di Roma, ma anche nel resto d’Italia, ha avuto e mantiene un ruolo fondamentale. La capacità di uscire dalla dinamica vertenziale per allargare a diversi ambiti il campo di intervento è stata fondamentale nella costruzione di importanti mobilitazioni, di cicli di lotta che ancora durano, di scommesse politiche e tentativi ricompositivi. Non a caso, infatti, il sottotitolo de “La scintilla” fa riferimento a “dalla Valle alla metropoli”, ovvero quell’intuizione politica sull’uso, anch’esso tutto politico, delle risorse da parte di chi governa questo paese sempre a favore dei grandi costruttori e delle lobby economiche e mai delle classi subalterne, che ha portato alle due importanti giornate del 18 e del 19 ottobre 2013, ma soprattutto a un tentativo “altro”, ovvero la scommessa di una possibilità ricompositiva all’interno dei movimenti sociali, che ci facesse percepire come un’unica classe di sfruttati/e e che l’unione delle lotte, delle vertenze, delle insorgenze e dei saperi sia l’unica strada perseguibile per costruire un movimento effettivamente radicale a questo sistema. 
Con la presentazione del libro * La Scintilla: dalla valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa * di Cristiano Armati (scrittore, ma soprattutto compagno ed attivista dei movimenti per il diritto all’abitare e sociali di questa città, con l’importante merito di mettere la sua scrittura e il suo sapere a favore di un background collettivo), vogliamo provare a ragionare sulle possibilità ricompositive di un movimento, per confrontarci con chi in altre città e a Roma sta portando avanti le lotte per il diritto all’abitare ma anche quelle assieme ai facchini della logistica, chi costruisce reti di solidarietà nel proprio territorio contro le devastazioni ambientali e chi combatte la buona scuola di Renzi e le politiche studentesche nel suo insieme. 
Un momento, dunque, di dibattito collettivo aperto a partire dalle esperienze che il libro racconta (dalla rivolta di San Basilio alle lotte di oggi), per valutare le strade finora percorse e trovare quelle percorribili, perché si continui a ragionare come tenere viva quella scintilla che vediamo accendersi nel Bronx di Torrevecchia, nelle fabbriche SDA, nei boschi della Val di Susa, nelle periferie e nei centri delle nostre città e far sì che si propaghi e diventi un incendio.
Un’occasione per sviluppare, insieme, un dibattito politico per comprendere l’attualità del conflitto immaginando nuove traiettorie di autorganizzazione, lotta, radicale trasformazione dell’esistente.
Saranno presenti i compagni del Social Log di Bologna.La presentazione del libro si terrà all’interno dell’occupazione abitativa di via Tiburtina 770 (Roma), che festeggia 2 anni di lotte!

#RomaSiBarrica

Come si (ri)diventa fascisti: lo stato di polizia del governo Renzi

Come si (ri)diventa fascisti. Il titolo è impegnativo, quindi ciò che sto per scrivere non sarà esaustivo. Al contrario, si basa su riflessioni precedenti rispetto alla data di oggi e intende andare oltre per indicare una soglia di pericolo – il fascismo, appunto – che al momento appare già varcata.

Torniamo all’oggi dunque, giovedì 22 maggio, e ricordiamoci di questa data. Che cosa è successo?

Il presidente del consiglio Matteo Renzi, a capo di un governo (il terzo di fila) mai votato da nessuno, ha scelto piazza del Popolo per chiudere la campagna elettorale con cui il Partito Democratico ha affrontato le imminenti elezioni europee.

L’appuntamento con il discorso del “capo”, previsto per le ore 19 arriva insieme alla desolazione di una piazza semivuota, animata con molta fatica da zelanti volontari (o dipendenti?) che si affannavano a distribuire ai presenti quante più bandiere del PD possibili.

Il tempo, come è sua natura, passa: i militanti piddini sperano che qualcun altro arrivi, e i loro desideri vengono esauditi soltanto a metà. In piazza, infatti, insieme ai quattro gatti del comizio c’è anche un buon numero di cittadini e cittadine qualunque: studenti, precari, disoccupati, migranti, lavoratori impossibilitati ad arrivare alla fine del mese… una rappresentanza, insomma, di quelle oltre dieci milioni di famiglie italiane costrette a (sopra)vivere al di sotto della soglia di povertà.

Quello che salta agli occhi, appena la piazza viene animata da queste nuove presenze, è la profonda differenza antropologica tra i nuovi arrivati e i militanti del PD. Da una parte, insieme a tutti i colori del mondo, si sprigionano odore di officina, di libri e di cucina, mentre le voci parlano di cantiere e di call center e i vestiti raccontano l’arte di arrangiarsi. Tra i militanti del PD, al contrario, si apprezzano le giacche comprate in centro e le hogan ai piedi, gli afrori di lacca per capelli e i volti distesi di chi non si sta ponendo né il problema del pranzo né quello della cena. Questa spaccatura, ormai definitiva e irreversibile, dei corpi che un tempo non lontanissimo ancora condividevano uno spazio genericamente definito “di sinistra” dovrebbe essere presa in considerazione più attentamente, ma quello che è sicuro è che a piazza del Popolo una simile differenza produceva dissonanze incapaci di passare inosservate. I primi ad accorgersene, gli impiegati della DIGOS, la polizia politica che, per l’occasione, è stata mobilitata in grande stile: le stesse lacche dei militanti piddini sui capelli, le stesse hogan ai piedi.

I poliziotti della politica, mentre Renzi ancora non si affaccia sul palco allestito per l’occasione, sono decine e decine; e gli uomini ai loro ordini, in divisa, con i caschi e i manganelli, molte centinaia. Si coordinano e, incordonati, si gettano addosso a chi è considerato “diverso” e le pelli degli africani e degli indios sono le prime a farne le spese, insieme a quelle di chi ha meno anni sulle spalle, ritenuto, probabilmente, “colpevole” di non indossare le orrende magliette arancioni con cui si pavoneggiavano i Giovani Democratici presenti al comizio.

Così, senza proferire parola, la polizia si scaglia su tutta questa massa di intervenuti, spinta a manganellate fuori dalla piazza, con l’ausilio di schiaffi e pugni di volenterosi militanti del PD, completamente a loro agio in questo ruolo di ausiliari di polizia, né per nulla ostacolati in questo compito da chi la divisa la porta per mestiere: altra circostanza foriera di inquietanti parallelismi con le abitudini delle vecchie squadracce in camicia nera, sempre all’opera sotto l’occhio compiacente delle forze dell’ordine “regolari”.

Attenzione perché stiamo parlando di donne, studenti giovanissimi e signori di mezza età maltrattati e picchiati dalla polizia nel centro di una piazza dove era in programma un comizio, eppure nessun militante PD ha pensato di potersi schierare al fianco del più debole e del perseguitato.

In ogni caso, la prima domanda, di fronte alla polizia che si abbatte su un comizio per aggredire una parte dei presenti, potrebbe o dovrebbe essere spontanea: sulla base di quale legge, regolamento, norma o disposizione si può impedire a dei comuni cittadini di essere nel luogo in cui sono nel momento in cui ci vogliono essere?

Perché forse è anche così che si (ri)diventa fascisti: affrontando le cerimonie ufficiali con una massiccia ondata di fermi preventivi, giustificati da nulla ma eseguiti nel nome del sospetto che alcuni “malintenzionati” possano rovinare con il loro intervento la festa preparata dal capoccia di turno. Senza dubbio durante il fascismo si procedeva anche in questo modo, ma non è il Ventennio l’unica epopea dittatoriale da cui trarre un precedente, anche Mobutu, in Congo, usava comportarsi così: e in Cile? o in Argentina?

La stessa, triste, gravissima cosa.

Di questo, adesso, bisognerebbe parlare. E questo è ciò che sarebbe utile leggere sui giornali: di uno stato europeo, l’Italia, in cui si è consumata a ciel sereno la pratica del fermo preventivo di massa, a totale arbitrio di uno schieramento misto di poliziotti in borghese, poliziotti in divisa e militanti del PD con la lacca sui capelli e le hogan ai piedi.

I numeri raccontano di 50 persone accusate di nulla eppure costrette con le buone, o più spesso con le cattive, a seguire le forze dell’ordine nelle caserme e nelle questure, affrontando uno stillicidio di ore dietro le sbarre, salvo poi essere rilasciati (mentre scrivo non si riesce ancora a capire se tutti) con un foglio che parla di “verbale di accompagnamento in ufficio”, visto che di altro non può proprio parlare.

Ma perché la pratica del fermo preventivo è ancora più grave di quello che sembra?

Perché la pratica del fermo preventivo disegna, con la sua indeterminatezza, un’area grigia di sospensione del diritto: una zona dove non si punisce un reato specifico, ma in cui ad alcuni – poliziotti e militanti del PD oggi – si affida il ruolo di giudicare tra omologati e non omologabili, salvando i primi e arrestando “per sicurezza” i secondi.

Per questo, d’altro canto, sto scrivendo un pezzo intitolato “come si (ri)diventa fascisti”, perché il fermo preventivo non è che l’ennesimo dispositivo con cui si consente l’arbitrio poliziesco su quote di cittadinanza di volta in volta ritenute esterne al campo delle libertà personali. Il fermo preventivo, infatti, giunge al culmine di una lunga stagione che ha introdotto, con i CPT, i CARA e i CIE, la detenzione dei migranti per questioni di natura burocratica (la mancanza di documenti) e non per ragioni di materia penale; proseguendo poi, prendendo come scusa la “sicurezza negli stadi”, con la pratica delle schedature di massa (vedi tessera del tifoso) e l’abominio giuridico di poter essere arrestati “in flagranza di reato” addirittura dopo 48 ore dallo stesso; arrivando con il ministro Alfano – cioè con il governo Renzi – a vietare come se niente fosse ai cortei “violenti” (e chi lo decide?) la possibilità di manifestare; e sommando tutto questo alla grande massa di leggi speciali e di emergenza (la legge Scelba, la legge Reale, eccetera) sempre rimaste attive anche dopo che il periodo emergenziale o presunto tale finiva per essere archiviato nei libri di scuola.

Tra gli appunti dedicati al come si (ri)diventa fascisti, un altro dato va sottolineato in rosso. La principale caratteristica del fascismo, infatti, non era e non è soltanto l’impianto razzista delle sue leggi e il carattere censorio della sua informazione – tutte pratiche tra l’altro perfettamente rintracciabili nell’attuale sistema statale – ma anche, e per certi versi soprattutto, la natura corporativa della sua governance: un’amministrazione che nasconde dietro valori “superiori” – ce lo chiede l’Europa!, urla Renzi, come Mussolini gridava “ce lo chiede la Patria!” – la realtà di un comitato d’affari che agisce con la mediazione-fantoccio di sindacati gialli, cioè senza nessuna mediazione, sul conflitto sociale e sulle rivendicazioni di classe. Fascismo come sistema corporativo, dunque, allo stato delle cose rappresentato in maniera inquietante non soltanto dai regolamenti liberticidi del già menzionato Angelino Alfano; ma con decreti come quello di Maurizio Lupi, il famigerato “piano casa”, che dichiara guerra ai movimenti per il diritto all’abitare imponendo il distacco delle utenze e la revoca delle residenze agli “abusivi” mentre finanzia senza pudore i palazzinari e le banche con meccanismi dipinti come bonus-affitti o sostegno ai mutui; o come quello del ministro del lavoro Poletti, che se nel ruolo di presidente della Lega delle Cooperative promuoveva lo sfruttamento selvaggio della manodopera – in primo luogo i facchini – dell’Emilia Romagna, all’interno di un sistema in cui il “pubblico” diveniva sinonimo di “Partito Democratico” e in cui “Partito Democratico” sinonimo di gestione personalistica degli apparati statali, da ministro istituzionalizza in scioltezza la precarietà, consentendo senza ritegno, grazie al suo “jobs act”, il perpetuarsi di qualunque tipologia contrattuale, purché non garantita.

Le persone fermate in piazza o prima di arrivare in piazza oggi avrebbero portato davanti a Renzi esattamente tutto questo, e posto problemi inerenti un cambio radicale dell’esistente, a partire dall’affermazione di un principio: viene definito “diritto” tutto ciò che non può essere né venduto né comprato, né tantomeno fatto oggetto di speculazione affaristica. La casa, l’istruzione, la salute, il reddito e il lavoro sono diritti che, in questa fase, vengono attaccati da un capitalismo deciso a recuperare l’affanno proprio sulle spalle dei meno garantiti, il contrario dei sostenitori di Renzi ed esattamente uguali a coloro che la polizia dello stesso Renzi ha attaccato, manganellato e recluso a scopo preventivo, anche se le urla contro il governo della fame dell’ex sindaco di Firenze si sono sentite lo stesso.

Le ha sentite persino Roberto Giacchetti, parlamentare piddino e attuale vicepresidente della Camera, che attraverso twitter ha dichiarato: “la DIGOS ha in mano 1 pugnale trovato a terra durante i tafferugli. E non era un giocattolo”.

Ora, persino spulciando tutti i verbali di “accompagnamento in ufficio” che hanno colpito chi intendeva contestare Renzi, la questione del pugnale non compare. Se il parlamentare piddino non mente spudoratamente, tanto per infamare “a buffo” l’opposizione sociale e i movimenti antagonisti, è lecito pensare che la polizia si sia rivolta direttamente a lui, faccia da pretino, camice stirate di fresco e sigaro nelle mani… ma da quando la digos parla di corpi di reato con soggetti diversi da quelli prescritti dalla legge? Cioè con soggetti diversi da un PM o da un Giudice per le indagini preliminari?

Da quando stiamo (ri)diventando fascisti, sicuramente sì.