Dal sindaco al podestà: le nuove misure fasciste imposte dal Partito della Nazione di Matteo Renzi

Ieri a Bologna la Procura ci è andata giù pesante, notificando a Gianmarco De Pieri del centro sociale TPO il divieto di dimora nel capoluogo emiliano (è poco, ma a Gianmarco va tutta la nostra solidarietà).

All’attivista sono state concesse soltanto un pugno di ore per abbandonare la città dove vive e dove lavora, utilizzando un provvedimento (come il ricorrente reato di “devastazione e saccheggio”) preso di peso dal Codice Rocco, elaborato durante il regime mussoliniano per reprimere qualunque forma di dissenso, accostando le pratiche squadriste delle purghe e del manganello all’azione giudiziaria, grazie alla pratica del confino, subita da generazioni di antifascisti italiani.

La misura imposta a De Pieri è gravissima, ma purtroppo non è certo la prima volta che viene utilizzata. E se a Bologna ha già preso di mira chi non intende allinearsi con le compatibilità imposte dal renzismo in tema di casa, scuola e lavoro, a Teramo il divieto di dimora è stato utilizzato per punire gli antifascisti decisi a rispettare e a far rispettare l’eredità morale della Resistenza.

Quelli citati, purtroppo, sono solo alcuni esempi, niente affatto isolati. Ma dopo questa nuova svolta repressiva a Bologna è diventato naturale commentare come la città sia di fatto governata, più che da un’amministrazione eletta dai cittadini, da un organismo di polizia, nemico delle istanze sociali in quanto direttamente legato a un altro centro decisionale, vale a dire il comitato d’affari retto da Matteo Renzi a livello nazionale.

Questa osservazione, se applicata a Roma, sembra addirittura banale. In città, infatti, non ci si vergogna neppure – alla faccia del goffo Ignazio Marino – a sostenere che il vero sindaco si chiama Franco Gabrielli, un poliziotto passato per la Digos di Roma e Firenze, la prefettura de L’Aquila e la direzione del SISDE prima di essere nominato rappresentante del governo nella Capitale. Lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha sottolineato come a Gabrielli vada riconosciuta una delega speciale per quanto riguarda l’imminente Giubileo, una nomina che il «superprefetto» ha immediatamente festeggiato procedendo allo sgombero dello studentato occupato Degage.

Anche il divieto di dimora subito da De Pieri ha a che fare con uno sgombero: quello di Villa Adelante, una palazzina in viale Aldini che se condivide con la romana Degage lo stile liberty dell’immobile, più in generale ha a che fare con il pugno duro preteso dal Partito della Nazione di Renzi nei confronti di tutte le pratiche di riappropriazione. Case, studentati, centri sociali e, su questa falsariga, movimenti nati a tutela del territorio (ricordiamo quello che è successo a L’Aquila durante la recente visita di Renzi ai danni di chi rifiuta le trivellazioni dell’Adriatico?), ostacoli eliminabili, in ultima istanza, soltanto con la brutale violenza della polizia, in ossequio sia alle privatizzazioni imposte dall’Unione Europea, sia ai dettami del micidiale TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti), la cui devastante portata antipopolare non viene ancora percepita a livello di massa.

Quello che sta succedendo è che con il perdurare e l’avanzare di quel processo di ristrutturazione del Capitale a cui è stato dato il nome fin troppo tranquillizzante di “crisi” (vedi la buffonata dei finti dati sull’occupazione dopo il Jobs Act…), lo Stato non può affidare alle sue articolazioni periferiche, già completamente private di risorse e quindi rese appositamente inutili, né la gestione degli interessi padronali, né, tantomeno, l’ordine pubblico. Da qui l’esigenza di affidare direttamente alle prefetture il governo cittadino e regionale e la scelta di utilizzare la “legalità” come cavallo di Troia della persecuzione dell’attivismo e “l’efficienza” per ignorare norme, delibere e trattative strappati dai movimenti impegnati sul territorio. La misura decisa dal governo Renzi è scoperchiatamente antidemocratica, ma non è certo nuova. Durante il fascismo, per esempio, non ci si vergognava di comportarsi nell’identica maniera e una carica come quella di Gabrielli aveva un nome preciso: il podestà.

Podestà

Per capire di cosa si tratta, basta lasciare la parola a wikipedia. Ognuno, poi, sarà libero di trarre le proprie conclusioni:

In Italia il regime fascista introdusse la figura del podestà con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, una delle cosiddette leggi fascistissime. Dal 21 aprile 1927 al 1945 gli organi democratici dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà, nominato con regio decreto per cinque anni e in ogni momento revocabile. Nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti il podestà poteva essere affiancato da uno o due vice-podestà (a seconda che la popolazione fosse inferiore o superiore a 100.000 abitanti), nominati dal Ministero dell’Interno. Il podestà era inoltre assistito da una consulta municipale, con funzioni consultive, composta da almeno 6 consultori, nominati dal prefetto o, nelle grandi città, dal Ministro dell’Interno.

Un’ultima considerazione. Ancora nei giorni scorsi, a Follonica, una signora è morta dopo aver mangiato (probabilmente la classica salamella) alla locale festa del Partito Democratico. La notizia è straziante. Ma se scegliere di andare alla festa del Partito Democratico è già un dramma, consentire che il Partito Democratico faccia la festa all’Italia sarà un’ecatombe.

E a proposito. Follonica è in provincia di Grosseto, la stessa città dove è nato il podes… scusate, il prefetto Gabrielli.

Il 15 ottobre di Davide Rosci: tra repressione e dissociazione, note sul come e sul perché della galera oggi

Non lo so se è stato il destino a stabilire la data e l’ora di quanto accaduto per costringermi a riflettere. Di sicuro ciò che poteva succedere in un altro momento si è verificato ieri, sabato 6 giugno, mentre mi trovavo nella Sala da The di Porto Fluviale Occupato, a Roma, per partecipare alla presentazione del libro “Parole inarrestabili”, il volume curato da Matthias Moretti e dedicato alle lettere scritte dal carcere dai militanti italiani. I relatori non avevano neppure iniziato a parlare che da Teramo mi arriva un messaggio. Poche, spietate parole per dire: «Davide è stato arrestato e sta venendo portato in carcere. Di nuovo».

a.davide-rosciMi è crollato il mondo addosso. Davide, per chi non lo conoscesse, è Davide Rosci: antifascista teramano arrestato una prima volta per i fatti del 15 ottobre 2011, quando una massa impressionante di persone si scontrò con la polizia in piazza San Giovanni nel nome dei troppi diritti bruciati sull’altare di una guerra contro i poveri che, da quel momento in poi, si sarebbe continuata ad abbattere sul Paese con durezza sempre crescente. Neppure nei momenti più duri del suo primo periodo di detenzione Davide ha smesso di far sentire la sua voce: lo testimoniano, tra le altre cose, proprio le lettere raccolte in «Parole in arrestabili», il segno tangibile di come né la galera, né i domiciliari abbiano impedito all’attivista teramano di continuare ad animare la lotta e di partecipare attivamente al dibattito sui diritti e la giustizia sociale.

Quello che è accaduto ieri, quando Davide è stato nuovamente tradotto in carcere, da un punto di vista tecnico riguarda il cumulo di vecchie condanne incassate in virtù dell’antifascismo militante scelto come vessillo dalla sua adorata curva teramana. Ma intanto pesa su di lui anche la sentenza della Cassazione e la conferma, decisa dei giudici, della condanna a sei anni, già incassata da Rosci nel momento in cui veniva riconosciuto colpevole del reato di «devastazione e saccheggio». Un argomento su cui è lo stesso Davide a intervenire attraverso la sua pagina Facebook, facendo il punto sulla situazione in cui versa una parte importante degli imputati del 15 ottobre e richiamando chiunque operi, viva e pensi in un ambito ancora definibile come “di sinistra” a dare concretezza ai valori della solidarietà:

Il girone dantesco dove sono finito pare essere per il momento senza uscita. Ieri infatti la corte di Cassazione ha confermato per me, Mauro e Cristian le pene stabilite dalla corte d’appello mentre per Marco è stata annullata la sentenza e rimandata in secondo grado. Di questo festeggiamo. C’è poco da dire e purtroppo nulla da fare quindi per il momento l’unica cosa su cui soffermarsi è riflettere su ciò che è stato e organizzarsi su ciò che sarà. A livello politico giovedi ho fatto una piccola analisi e penso che di più non vada detto mentre a livello umano e personale per me da ora sarà tutto diverso. A breve la condanna passerà definitiva e le prospettive sono o tornare dentro oppure trovare un lavoro stabile e sperare che non mi rompano ulteriormente il cazzo. Le porte, per uno che come me è uscito dal carcere, non sono di certo spalancate quindi approfitto di questo post nella speranza di trovare qualche anima pia, che si imbatte nel leggere queste righe, di tenermi presente qualora venisse a conoscenza di un qualsiasi impiego. Penso di aver dato tutto alla causa e spero di poter dare ancora tanto ma per il momento devo restare lucido ed evitare di diventare carne da macello. Nonostante tutto e tutti sempre a testa alta e con il sorriso sulle labbra. Passerà anche questo…

a.davide2_16447_10200140132423331_814482995048554580_nPer chi fosse ancora all’oscuro della piega profondamente reazionaria su cui si sta avvitando l’Italia del Partito della Nazione di Matteo Renzi, l’imputazione di «devastazione e saccheggio» è un residuo del fascista Codice Rocco, una norma ereditata dall’ordinamento repubblicano e, da Genova 2001 in poi, malgrado fosse nata per fronteggiare uno scenario di tipo militare, usata sistematicamente per annichilire l’espressione del dissenso politico, trasformando la realtà di reati minori, come per esempio il danneggiamento di una vetrina, in condanne esemplari: «Vale più una vetrina rotta o una vita spezzata?», ci si è chiesti tante volte riflettendo su un omicidio come quello di Carlo Giuliani, restato sostanzialmente impunito mentre dall’altra parte della barricata si andavano sprecando gli anni di galera.

Oggi, però, la domanda da farsi è un’altra, per cercare intanto di capire come mai, anche a fronte di una conflittualità sociale imparagonabile ai livelli del passato, la stretta repressiva si fa sempre più forte. Ed è inevitabile, tentando un’analisi degli scenari in corso, che una simile domanda rischi di lasciare l’amaro in bocca. Perché se carcere e repressione possono essere, come sono sempre stati, il corollario con cui la grande proprietà affronta le fasi di ristrutturazione del Capitale (condizioni esistenziali e lavorative sempre più dure producono fenomeni di insorgenza diffusi anche se non sempre organizzati), dall’altro lato della barricata ciò che accade non può essere liquidato semplicemente bestemmiando contro giudici, padroni e poliziotti vari, ma riguarda tutte e tutti noi. Quello che succede se e quando si spalancano le porte del carcere, infatti, riguarda in modo assolutamente diretto la solidarietà che si costruisce fuori e dentro l’istituzione repressiva, e chiama in causa in maniera ancora più importante un altro concetto: quello di unità.

Ora che la condanna per Davide Rosci è andata definitiva, infatti, diventa complicato smettere di ricordare ciò che successe all’indomani del 15 ottobre del 2011, quando a sinistra – o in una «certa» sinistra – si fece a gara per dissociarsi, stigmatizzare e, superando persino giudici e poliziotti, condannare senza alcun processo i protagonisti degli scontri. Tra i pezzi di cui la condanna di Davide in Cassazione è composta ci sono anche quelle dissociazioni!

Le stesse dissociazioni che, dopo il primo maggio, scegliendo di cadere nel tranello dei “buoni” e dei “cattivi”, non hanno mancato di vibrare contro la parte più conflittuale del corteo No Expo: un evento che, se è indubbiamente diverso rispetto al 15 ottobre (e d’altronde come possono, a distanza di anni, prodursi fenomeni uguali?), finisce per essere simile proprio nella volontà di molti di prendere le proprie distanza dalla massa, incuranti di come un simile atteggiamento – indegno umanamente prima che politicamente – sia il primo mandante di ciò che, portato poi nelle aule dei tribunali, si traduce in anni di galera. Il resto della partita, questo è evidente, è sempre in piazza che deve essere giocata: il terreno in cui i diritti continuano a conquistarsi a spinta e dove il conflitto costruisce attraverso la partecipazione la legittimità delle sue pratiche.

Altrimenti di cosa è che si parla quando si dice che per liberare tutt* occorre lottare ancora?

DAVIDE LIBERO! TUTTE E TUTTI LIBERI!

Per scrivere a Davide, indirizzare la corrispondenza a:

Davide Rosci – Casa Circondariale di Teramo, Strada Comunale Rotabile Castrogno, 64100 Teramo