Di cosa si parla quando si parla della guerra contro i poveri combattuta dal governo Renzi

Rispetto al 2004, pare che i furti negli appartamenti (lo dice il Censis) siano aumenti del 127%. Una stima comprensibile se si tenesse conto all’indiscutibile aumento della fame, riscontrabile anche “a occhio” in questo paese. Come reagire, quindi, al problema che, proprio sull’onda della fame, sta evidentemente spingendo sempre più persone verso l’opzione individuale dell’illegalità, magari a scapito dell’alternativa sociale offerta dalla lotta?

Il governo non ha dubbi: con la riforma del codice penale, la pena minima per i reati di “furto in abitazione e furto con strappo” (art. 624-bis) passa da uno a tre anni, con severe limitazioni nella valutazione di eventuali circostanze attenuanti. Il discorso è analogo anche per i reati di rapina e di rapina aggravata, la cui pena minima è innalzata, rispettivamente, a quattro e a cinque anni contro i tre e quattro anni previsti dal codice vigente.

Diverso, ovviamente, è ciò che si sta prevedendo per il reato di tortura, tornato “di moda” dopo la condanna emessa nei confronti della polizia italiana dalla Corte europea per i diritti umani per i fatti della scuola Diaz e velocemente espulso dalle luci della ribalta. In realtà, gli abusi consumati tra le quattro mura delle carceri e delle prigioni nostrane potranno continuare indisturbati, forti dei segnali lanciati dall’alto. La stessa Commissione Giustizia che usa il pugno di ferro per colpire ladri e rapinatori, infatti, indossa il guanto di velluto e, stravolgendo il testo elaborato dalla Camera, rigetta l’idea di raddoppiare i tempi di prescrizione e riduce da quindici a dodici anni il massimo della pena prevista per i torturatori.

Le scelte governative, da questo punto di vista sono coerenti: se i reati frutto della fame devono essere colpiti senza pietà riempendo le carceri con nuove masse di proletari, bisogna tutelare l’azione violenta e persino la tortura commessa dal personale in divisa per tenere sotto scacco i fenomeni di insorgenza sociale. Con il contributo del ministro Andrea Orlando, intanto, la guerra contro i poveri dichiarata dal governo Renzi continua.

L’articolo 5 del Piano Casa di Lupi e i militanti del Partito Democratico: ecco perché non potete non dirvi fascisti

Il 30 ottobre del 1922, dopo la marcia su Roma di alcune migliaia di militanti fascisti, il re Vittorio Emanuele III cedeva alle pressioni della piazza nera affidando a Benito Mussolini la presidenza del Consiglio.

Secondo i nostalgici si tratta del prologo della “rivoluzione fascista”: un evento che avrebbe consegnato all’Italia un ventennio di abiezione, la deportazione nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica e degli oppositori del regime, l’annullamento di qualunque garanzia democratica e i milioni di morti della seconda guerra mondiale.

Si tratta, in effetti, di un periodo storico talmente cupo e scellerato che, nel corso del tempo, dopo aver dato una mano di vernice patriottica sui valori della Resistenza con l’obiettivo di annullare i valori di giustizia sociale che l’avevano animata, le narrazioni impegnate nel racconto e nell’analisi del fascismo hanno finito per rinchiudere gli anni di Mussolini all’interno di un paradigma dominato dall’eccezionalità: una parentesi senz’altro sconvolgente ma, a causa delle particolari condizioni che provocarono l’emersione del fenomeno, senz’altro irripetibile… ma è ancora possibile, oggi, accettare una simile visione delle cose?

Il 16 febbraio del 2014, Giogio Napolitano, nella veste di presidente della Repubblica, senza che il suo atto fosse suffragato da una qualche forma di consenso elettorale, prendeva atto della sfiducia ricevuta da Enrico Letta dalla direzione del suo Partito e conferiva l’incarico di formare un nuovo governo a Matteo Renzi, classe 1975, famoso per aver guidato un movimento detto “dei rottamatori” all’interno del Partito Democratico e per i discorsi pronunciati in manica di camicia… bianca: una sorta di divisa informale, da quel momento in poi adottata immancabilmente da tutti i sostenitori dell’ex sindaco di Firenze, non a caso detti “renziani”.

Se il vecchio Napolitano, novello Vittorio Emanuele III, guadagnava il soprannome di “Re Giorgio” grazie a un decisionismo più consono al vecchio regno d’Italia che non a una vera repubblica parlamentare, gli atti del nuovo governo Renzi non sono da meno e, immediatamente, si caratterizzano per un approccio a dir poco insofferente rispetto a quanto previsto dagli stessi dettami costituzionali.

In modo particolare, il governo Renzi si distingue per l’uso massiccio e disinvolto dello strumento del decreto legge: un dispositivo a cui l’articolo 77 di quel pezzo di carta straccia una volta chiamato Costituzione affida il ruolo di avere «effetto di legge» in frangenti di particolare necessità e gravità. Al contrario, e quindi contravvenendo alla stessa Costituzione, Renzi e i suoi ministri aggrediscono a colpi di decreti qualunque settore della vita pubblica e civile: dal lavoro, grazie al Jobs Act firmato da Poletti (DL n. 34 del 20 marzo 2014), alla cultura, con il decreto di Franceschini (DL n. 83 del 31 maggio 2014), fino ad arrivare alla casa grazie all’«interessamento» dello spietato Maurizio Lupi, oggi costretto alle dimissioni e sostituito dal fedelissimo di Renzi Graziano Delrio a causa del suo coinvolgimento in una brutta storia di tangenti e raccomandazioni, eppure confermato a suo tempo alle Infrastrutture e ai Trasporti anche dopo la defenestrazione di Enrico Letta.

Fatto passare con il tranquillizzante nome di «Piano-casa», il Decreto Lupi (DL n. 47 del 28 marzo 2014) reca il titolo di Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015 e, pur considerando: «L’attuale eccezionale situazione di crisi economica e sociale che impone l’adozione di misure urgenti volte a fronteggiare la grave emergenza abitativa in atto», e: «La necessità di intervenire in via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo che interessa sempre più famiglie impoverite dalla crisi e di fornire immediato sostegno economico alle categorie meno abbienti che risiedono prevalentemente in abitazioni in locazione», finisce per sferrare un attacco senza precedenti a chi, nel corso degli anni, ha rappresentato l’unica, vera risposta al disagio abitativo, vale a dire i Movimenti per il Diritto all’Abitare. In che modo?

La pietra nello scandalo è contenuta nell’articolo 5. Dove, alla voce «Lotta all’occupazione abusiva di immobili», si afferma senza mezzi termini che: «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Tradotto in parole semplici, Lupi e il suo decreto pretendono di spingere nell’invisibilità e di escludere da ogni forma di welfare chiunque abbia preso parte a un’occupazione abitativa e/o viva in una casa occupata. Al di là dei previsti distacchi di acqua e luce, misure contrarie ai più elementari diritti umani più che agli stessi diritti politici di qualunque cittadino, privare una famiglia della residenza, nei fatti, rende impossibile anche produrre i semplici certificati Isee e, di conseguenza, rende impossibile, o comunque molto difficile, iscrivere i bambini alle scuole. Ancora, senza residenza, si incontrano difficoltà nell’accedere ai servizi di medicina di base e, essendo questa parametrata su base circoscrizionale, priva persino dell’assistenza domiciliare i disabili che ne hanno diritto. Una vera e propria operazione di macelleria sociale, insomma. Resa ancora più crudele dagli articoli 3 e 4, con cui si facilità lo smantellamento dell’edilizia residenziale pubblica attraverso la messa in vendita degli stessi alloggi popolari che il decreto pretenderebbe di tutelare!

Eleanor Roosevelt la Dichiarazione universale dei diritti umani
Eleanor Roosevelt con la Dichiarazione

Con la conversione in legge del Decreto Lupi, il governo Renzi, tra le altre cose, si assume la responsabilità storica di andare a infrangere persino la Dichiarazione universale dei diritti umani; uno di quei pezzi di carta – sottoscritto in pompa magna a Parigi nel 1948 – spesso sbandierati di fronte all’opinione pubblica se si tratta di vantare la presunta superiorità occidentale o, magari, di “esportare” la democrazia a suon di bombe, ma che nell’Italia guidata dal Partito Democratico è contraddetto senza mezzi termini. Come viene affermato dall’articolo 25 della Dichiarazione, infatti: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (…) all’abitazione”.

Eppure, se il governo Renzi ha avuto modo di svelare la sua vocazione liberticida anche sui provvedimenti che sono andati a interessare settori nevralgici come la Scuola e la Legge Elettorale, la natura apertamente fascista della legge sulla Casa è confermata dalla vergognosa continuità storica tra il Decreto Lupi e la famigerata Legge 1092 del 6 luglio 1939, comunemente detta «legge contro la residenza» o «contro l’urbanesimo», che, nei fatti, aveva trasformato gli immigrati italiani in soggetti privi di qualunque diritto – dalla possibilità di iscriversi alle liste di collocamento a quella di ricevere assistenza sanitaria, fino all’esclusione dalle liste elettorali – e, per questo, esposti a qualunque ricatto anche in tema di salario e condizioni lavorative.

Come tante altre cose, la legge contro la residenza, non soltanto non venne abolita dal nuovo regime democratico, ma rappresentò una sorta di leva con la quale fare della povertà, più che una questione sociale, un problema di ordine pubblico. In questo modo, chiunque si fosse trovato a vivere una condizione di emergenza abitativa veniva semplicemente fatto sparire, smettendo, grazie al provvedimento, di esistere dal punto di vista legale e, di conseguenza, di non poter pretendere un giusto compenso da parte del datore di lavoro né di rivendicare il diritto alla casa.

Una situazione scandalosa, una vera e propria ferita aperta nel paesaggio democratico italiano ma anche, in passato, il territorio sul quale fu possibile cogliere un’importate vittoria. Il 10 febbraio del 1961, infatti, dopo anni di lotte e mobilitazioni che non mancarono di costare denunce penali e feriti in piazza, veniva finalmente abrogata la norma fascista che limitava il diritto alla residenza. Fu un successo epocale e testimoniò una maturità politica che, ancora oggi, merita di essere sottolineata. Che fosse possibile, infatti, condurre in porto una battaglia unitaria ricomponendo all’interno di un interesse di classe le spinte centrifughe che, strumentalizzando la paura della concorrenza tra lavoratori, ostacolavano, anche da sinistra, la liberalizzazione delle residenze, era un fatto tutt’altro che scontato. Per arrivare a tanto, evidentemente, fu determinante la spinta delle proteste popolari, ma anche l’intelligenza e la perseveranza di alcuni tra i migliori dirigenti del Partito Comunista e delle associazioni collegate alla sinistra istituzionale. Oggi, che con l’articolo 5 del Decreto Lupi si torna a calcare i passi già seguiti dal fascismo, abrogando il principio della libertà di residenza conquistato a prezzo di lotte molto dure, lo si fa con un governo guidato dal Partito Democratico, ma anche con l’indegno silenzio delle stesse associazioni egemonizzate dal PD, a cominciare dall’Anpi, a cui in passato l’identico provvedimento aveva fatto orrore.

Parliamo, evidentemente, di altri tempi e di personaggi di ben altra caratura morale rispetto alle mistificazioni odierne. Ma, allo stesso tempo, descriviamo una situazione in cui l’impostazione dittatoriale del governo Renzi riesce, grazie all’azione di polizia, ad arrivare anche dove i poteri locali sono costretti a cedere di fronte allo scandalo di famiglie lasciate senza acqua e senza luce dalla legge formulata dall’inquisito ex ministro Maurizio Lupi.

Da questo punto di vista, un altra data da segnalare sul calendario dell’orrore è quella del 7 luglio del 2014 quando, a Bologna, si apprende dell’apertura di: “Un’inchiesta contro il riallaccio dell’acqua all’occupazione abitativa di via Mario de Maria ordinata dal sindaco Merola lo scorso 23 aprile”; una situazione resa ancora più grave, come denuncia in un comunicato la bolognese Assemblea Occupanti e Comitato Inquilini Resistenti con Social Log, dal fatto che: “Solo poche settimane fa anche la vice-presidente Gualmini della regione Emilia Romagna, a seguito di un tavolo di contrattazione sulle nostre istanze di lotta, ha garantito pubblicamente l’indisponibilità a recepire l’articolo 5 all’interno del piano casa regionale”.

Ciò che accade è che anche dove, a livello locale, si tenta una mediazione istituzionale rispetto alle contraddizioni aperte dalla legge nazionale, è il potere centrale a intervenire in senso oltranzista, sbandierando un ridicolo vessillo di “legalità” e affidando il ripristino dell'”ordine” alla magistratura e alla polizia. Non è facile evitare di vedere in un simile modo di procedere, oggi particolarmente evidente nel caso bolognese, una strategia da intendere come prassi del governo Renzi: ridurre gli organi del potere periferico a puri fantocci, dominati nei fatti da magistrati, prefetti e poliziotti scelti con cura tra i fedelissimi del Partito della Nazione e quindi piazzati nei posti ritenuti “giusti” dal nuovo Duce fiorentino.

Alla luce di simili considerazione, i valori dell’antifascismo trovano una compiuta necessità di dispiegarsi in forma diretta contro il Partito Democratico e le sue articolazioni. Mentre alle donne e agli uomini del PD ancora ciechi e sordi di fronte agli abusi compiuti da Renzi e dai suoi sgherri, ciechi e sordi di fronte al livello di violenza antipopolare di cui questo governo è colpevole; agli uomini e alle donne ancora organizzate all’interno di un Partito Democratico responsabile di scadere nell’abominio, insieme all’onta di essere detti senza mezzi termini fascisti e trattati come tali, non può che essere rivolto in forma di maledizione quanto scritto da Antonio Gramsci già nel 1917: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva (…). Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Mafia Capitale: il film che non piacerà al Partito della Nazione

Guardo pochissima televisione. E non sono di tipo ideologico le questioni che mi tengono lontano dal piccolo schermo. Ma il fatto è che, con il suo corollario di situazione comoda e luce soffusa, per me la televisione significa prima di tutto sonno, a prescindere dall’interesse che possa nutrire per un determinato film o programma.

Al contrario, di natura squisitamente ideologica è l’avversione radicale che nutro nei confronti della televisione a pagamento. Non solo, infatti, Sky non mi ha mai avuto né mi avrà mai, ma non sono neppure poche le polemiche da pianerottolo in cui, con i miei vicini paytvdotati, ho sostenuto la tesi luddista secondo la quale l’unica televisione a pagamento buona è quella eventualmente ottenibile con una scheda criptata o altri mezzi pirata. Prima di tutto perché, veicolandosi attraverso l’etere o dipanandosi grazie a cavi ospitati dal sottosuolo, qualunque segnale televisivo utilizza per esistere l’aria e la terra, beni che in nessun caso mi sono mai immaginato di privatizzare; e in secondo luogo perché reputo la televisione a pagamento responsabile di quella grande confusione in cui è precipitato il «mondo di sotto» al quale appartengo, capace persino di scegliere di pagare il proprio intrattenimento a prezzo di rinunce fatte scontare ad alcune tra le tante cose, decisamente più belle, messe a disposizione dalla vita. Ogni volta che un abbonamento Sky viene sottoscritto, c’è un viaggio che muore; una giornata al mare da regalare alla propria famiglia in meno; una cena romantica perduta; una colossale sbornia in giro per locali con gli amici a cui si rinuncia a partecipare; libri, dischi e ogni altra sorta di occasioni ludiche e formative sottratte a se stessi per prendere parte in modo isolato a ciò che viene venduto come un’irrinunciabile esperienza collettiva, che si tratti di una finale di champions legue o di un kolossal trasmesso in prima visione.

Per questa ragione, qualche sera fa, trovatomi a casa solo e pensieroso e volendo sfogare questa solitudine e questi pensieri, mi sono seduto sul divano e ho acceso la televisione, sintonizzandomi sul canale pubblico chiamato «Rai Movie». In modo pressoché immediato, complice l’ora tarda, gli occhi hanno cominciato a chiudersi da soli, precipitandomi in uno stadio in cui facevo qualche difficoltà a capire se stavo dormendo, e quindi sognando, o se era il film in programmazione a mostrarmi ciò che comunque, a un certo punto, vedevo.

Occorre precisare che mi trovavo tipo in quarta serata, e che quindi il palinsesto del mio canale Rai stava raschiando il barile del suo magazzino-titoli offrendo un qualche B, C o D-Movie di cui non ricordo il titolo ma soltanto qualche pezzo di trama, simile, credo (non sono mai stato un cinefilo, ed è già tanto che non scriva «cinofilo»…), a decine di altri film simili. Un film dove, a un certo punto, una qualche accusa terribile viene lanciata da un gruppetto di cospiratori malvagi contro un innocente; con l’innocente che, smessi i panni del buon padre di famiglia e/o del marito affettuoso, lavoratore serio ed esemplare, si trasforma in una sorta di macchina da guerra per smentire le bugie di cui è vittima. Sottraendosi alla cattura da parte della polizia, allora, l’eroe in questione si munisce di armi da fuoco che inizia a usare senza risparmio, sgominando decine di cattivi o presunti tali. Alla stessa maniera, ingaggiando inseguimenti a rotta di collo con i tutori dell’ordine, provoca incidenti terrificanti, con TIR che sbracano negozi e automobili che volano tra i ponti. Dopo essere passato anche per gli esplosivi e le bombe a mano per trovare gli argomenti utili a dimostrare la propria innocenza, questo eroe riesce effettivamente nell’intento: non è colpevole di nulla, ma sono stati i cattivi, magari pure con qualche talpa nella polizia, a fabbricare le prove per incastrarlo; ora che tutto è chiaro non gli resta che ricevere calorose pacche sulla spalla insieme alle scuse ufficiali. I morti, i feriti, le devastazioni che ha provocato non contano più nulla: era suo diritto difendersi; raggiunto lo scopo, può tornare alla sua casa, dove c’è una moglie bellissima che lo aspetta, e sprofondare nuovamente nelle sue abitudini quotidiane.

Nemmeno il tempo di assaporare il finale di questo anonimo film, che, grazie al ponte d’oro costruito per me dal sonno, a scorrere sullo schermo sono le notizie del telegiornale. Si parla di Buzzi, di Carminati, di Mafia Capitale…

L’annunciatrice, con fare compunto, snocciola i dati forniti dalla magistratura: tot arresti, tot avvisi di garanzia, tot dimissioni di uomini politici delle più disparate appartenenze di partito eccetera eccetera. Di fronte a un’assenza, però, mi pare di tornare lucido e, all’improvviso, di non avere più sonno, ma, al limite, sempre e comunque voglia di sognare.

L’assenza, in questo come tutti gli altri spacci di notizie riguardo a Mafia Capitale, riguarda la domanda più importante, vale a dire: da dove, tutto questo, è cominciato?

Ebbene, il terreno di questa nuova generazione affaristico-criminale è quello, drammatico (non certo per loro), dell’emergenza abitativa, nella sua doppia veste di fenomeno di impoverimento generalizzato, con conseguenza perdita della casa e/o del reddito necessario a mantenersi un tetto sopra la testa, e di business dell’accoglienza, con particolare riferimento ai migranti e, in modo particolare, ai richiedenti asilo e a coloro che hanno acquisito lo status di rifugiato politico.

Si tratta, come è ovvio, di due facce dell’identica medaglia: la morte, avvenuta in Italia, di qualunque politica dedicata all’edilizia residenziale pubblica, con il conseguente azzeramento nella disponibilità di case popolari, a cui peraltro i rifugiati avrebbero pieno diritto (lo afferma, parlando di legalità, la Convenzione di Ginevra, sottoscritta dall’Italia nel 1951).

A parlare sono i numeri. In una città come Roma, l’incidenza dell’edilizia popolare sul patrimonio immobiliare è ferma oggi al 3%, ben quattro punti percentuali in meno rispetto a quanto toccato una trentina di anni fa, ma comunque ben lontano dalla media europea, che assegna alle case popolari valori intorno al 12%. Parliamo, in questo caso, di metropoli come Londra o Berlino, cioè di templi del capitalismo avanzato e non certo di paradisi del socialismo reale. Infatti è proprio in questa macroscopica differenza che si consuma la natura mafiosa del regime italiano. L’attacco alle case popolari, non a caso, è funzionale sia a drogare il mercato immobiliare a vantaggio di una cricca di palazzinari e di operatori del business finanziario della cartolarizzazione (la pratica di trasformare in cedole dal valore arbitrario quote di proprietà immobiliari: do you remember la crisi dei mutui subprime?) e, contemporaneamente, di un sottobosco travestito da cooperazione sociale (Buzzi&Co. sono solo la punta dell’iceberg) e pure verniciato di sinistra (o di solidarismo cattolico), interessato a rendere sistemica l’emergenza per continuare a fare affari affittando al comune per qualcosa come 2000 euro al mese ognuno i loculi in cui vengono intubate le famiglie ridotte a vivere in strada dopo aver perso lavoro e casa con la crisi.

a.timthumbIl sogno, di fronte a una simile situazione, è quella di una massa brutta, sporca e cattiva, in grado di coagularsi per scagliarsi compatta contro i suoi affamatori armata di un simbolo nuovo e antico allo stesso tempo: un bel palo appuntito; uno di quei semplici attrezzi utilizzati per somministrare il connesso supplizio dell’impalatura; ultimo mezzo di dissuasione per la congrega di politici corrotti e per tutti i corpi intermedi che hanno edificato il peculiare sistema di sfruttamento italiano, mafioso perché incapace di tenere conto persino di quel minimo di welfare altrove somministrato per tenere basso il conflitto sociale…

Sempre sul divano, ormai in stato di trance per colpa della micidiale accoppiata sonno-telegiornale, non mi restava che assaporare un’altra notizia. Pare, infatti, che a Roma bisognerà starsene belli tranquilli, visto che papa Francesco I avrebbe deciso di proclamare il Giubileo…

L’idea è fantastica. Tant’è che già si parla di approfittarne per imporre il divieto di scioperare e di manifestare per non disturbare i necessari lavori, e poco importa se questi lavori toglieranno ulteriori risorse a ciò che spetterebbe all’emergenza abitativa: il modello Expo lo ha già insegnato, l’importante è accaparrarsi un posto da volontario – rigorosamente non pagato – con cui fregiare il proprio curriculum, per tutto il resto (nuove speculazioni immobiliari, colate di cemento ovunque e azzeramento di vigilanza grazie a qualche commissario a cui conferire poteri speciali) c’è Mafia Capitale; a cui sarebbe davvero più corretto togliere ogni connotazione etnica per iniziare a parlare compiutamente di Mafia Nazionale, e non certo per riferirsi alle organizzazioni vecchio stile di picciotti siciliani o calabresi, ma al Partito della Nazione, dove un simile sistema ha trovato la sua degna consacrazione… a che cosa è servito, altrimenti, il decreto con cui il fu ministro Lupi ha stabilito di privare della residenza chi vive in stabili occupati e di vendere le case popolari?

Inutile specificare, rimpallando tra il film su Rai Movie e uno a piacere tra i telegiornali di regime, che a differenza di quanto accaduto al povero eroe ingiustamente calunniato, coloro che in questi anni hanno attaccato concretamente il sistema mafioso e il business dell’accoglienza, vale a dire i militanti dei Movimenti per il Diritto all’Abitare, non si sono mai visti rimettere tutti i reati di cui sono stati accusati: dalla resistenza aggravata all’invasione di edificio, ogni denuncia è restata al suo posto, e giorno dopo giorno dispensa misure restrittive e anni di galera. È proprio qui, però, che l’idea di papa Francesco potrebbe rivelarsi davvero geniale, almeno per quella massa brutta, sporca e cattiva comparsa a un certo punto del sogno o della visione con tanto di palo appuntito in testa. L’idea di lanciare un grande, autentico Giubileo popolare. Come è stato scritto:

Secondo l’Antico Testamento il Giubileo portava con sé la liberazione generale da una condizione di miseria, sofferenza ed emarginazione. Così la legge stabiliva che nell’anno giubilare non si lavorasse nei campi, che tutte le case acquistate dopo l’ultimo Giubileo tornassero senza indennizzo al primo proprietario e che gli schiavi fossero liberati.

Adattando ai giorni nostri una simile prospettiva, il programma del prossimo Giubileo dovrebbe contemplare:

  • L’azzeramento di tutti i debiti nei confronti di Equitalia;
  • La regolarizzazione a tempo indeterminato di tutti i contratti atipici insieme a quella di tutti i lavoratori precari;
  • La nazionalizzazione di tutte le imprese che, in regime privatistico, erogano servizi utili alla collettività;
  • L’amnistia generalizzata a favore dei prigionieri dello stato italiano attualmente in carcere;
  • E, naturalmente:

La requisizione immediata di tutto il patrimonio immobiliare sfitto, direttamente proporzionale ai numeri dell’emergenza abitativa nonché sola misura in grado di fare fronte allo stato di crisi e di debellare Mafia Capitale o Nazionale che dir si voglia.

In alternativa, l’unica soluzione per combattere concretamente i mafiosi saldamente in sella è, come sempre, quella di occupare tutto. Espropriare gli espropriatori per tornare a disegnare una prospettiva di classe che è anche una prospettiva di salvezza rispetto alla barbarie che ci attende dietro l’angolo di un capitale boccheggiante e per questo feroce nella sua pretesa ristrutturazione. Occupare tutto, dunque. Per togliere di mezzo il mondo di sopra. E perché non si sta parlando di un film, ma della vita reale. L’unico ambito in cui, collettivamente, è decisivo tornare a ritagliarsi un ruolo da protagonisti.

La Scintilla: dalla Valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa

a.scintilla
SABATO 23 MAGGIO, ORE 19 – 770 OCCUPATO (Via Tiburtina 770) – Cristiano Armati presenta “La scintilla” con le compagne e i compagni che hanno dato vita alle mobilitazioni raccontate nel libro 
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Negli ultimi anni, con l’acuirsi della crisi economica che si è fatta ormai sistemica, e il susseguirsi dei vari governi tecnici che hanno tracciato la strada per la “guerra ai poveri”, incarnata da Renzi e i suoi ministri in misure legislative che vanno dal Piano casa al Jobs Act, dalla Buona Scuola allo Sblocca Italia, abbiamo assistito ad un sostanziale impoverimento della società italiana. Attraverso le riforme neoliberiste e la distruzione del welfare, e in una sostanziale emergenza sociale, il governo e gli enti locali hanno tracciato una linea netta fra solvibili e insolventi, fra chi a costo di sacrifici riesce a pagare indebitandosi e chi invece proprio non ce la fa.
In un contesto del genere i movimenti sociali si sono attivati per provare a costruire reti di solidarietà e di lotta nei territori. In questo senso la lotta per l’abitare di Roma, ma anche nel resto d’Italia, ha avuto e mantiene un ruolo fondamentale. La capacità di uscire dalla dinamica vertenziale per allargare a diversi ambiti il campo di intervento è stata fondamentale nella costruzione di importanti mobilitazioni, di cicli di lotta che ancora durano, di scommesse politiche e tentativi ricompositivi. Non a caso, infatti, il sottotitolo de “La scintilla” fa riferimento a “dalla Valle alla metropoli”, ovvero quell’intuizione politica sull’uso, anch’esso tutto politico, delle risorse da parte di chi governa questo paese sempre a favore dei grandi costruttori e delle lobby economiche e mai delle classi subalterne, che ha portato alle due importanti giornate del 18 e del 19 ottobre 2013, ma soprattutto a un tentativo “altro”, ovvero la scommessa di una possibilità ricompositiva all’interno dei movimenti sociali, che ci facesse percepire come un’unica classe di sfruttati/e e che l’unione delle lotte, delle vertenze, delle insorgenze e dei saperi sia l’unica strada perseguibile per costruire un movimento effettivamente radicale a questo sistema. 
Con la presentazione del libro * La Scintilla: dalla valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa * di Cristiano Armati (scrittore, ma soprattutto compagno ed attivista dei movimenti per il diritto all’abitare e sociali di questa città, con l’importante merito di mettere la sua scrittura e il suo sapere a favore di un background collettivo), vogliamo provare a ragionare sulle possibilità ricompositive di un movimento, per confrontarci con chi in altre città e a Roma sta portando avanti le lotte per il diritto all’abitare ma anche quelle assieme ai facchini della logistica, chi costruisce reti di solidarietà nel proprio territorio contro le devastazioni ambientali e chi combatte la buona scuola di Renzi e le politiche studentesche nel suo insieme. 
Un momento, dunque, di dibattito collettivo aperto a partire dalle esperienze che il libro racconta (dalla rivolta di San Basilio alle lotte di oggi), per valutare le strade finora percorse e trovare quelle percorribili, perché si continui a ragionare come tenere viva quella scintilla che vediamo accendersi nel Bronx di Torrevecchia, nelle fabbriche SDA, nei boschi della Val di Susa, nelle periferie e nei centri delle nostre città e far sì che si propaghi e diventi un incendio.
Un’occasione per sviluppare, insieme, un dibattito politico per comprendere l’attualità del conflitto immaginando nuove traiettorie di autorganizzazione, lotta, radicale trasformazione dell’esistente.
Saranno presenti i compagni del Social Log di Bologna.La presentazione del libro si terrà all’interno dell’occupazione abitativa di via Tiburtina 770 (Roma), che festeggia 2 anni di lotte!

#RomaSiBarrica

Il diritto di critica secondo Matteo Renzi

Chi dice che ogni protesta è legittima purché “si esprima civilmente” intende dire che per conservare i propri privilegi è disposto a tutto, anche a spaccare la testa a manganellate a una ragazzina.

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Bologna, 3 maggio 2015: dopo le polemiche sulle “violenze” nel corso della manifestazione No Expo di Milano, la polizia carica violentemente un gruppo di manifestanti, decisi, in occasione della visita di Matteo Renzi, ad esprimere tutto il proprio dissenso contro la guerra ai poveri promossa dal governo del Partito Democratico e, in modo particolare, contro la terrificante riforma chiamata “Buona Scuola” dagli esperti del marketing assoldati dal PD.

Sgomberiamo EXPO! Come, quando e soprattutto perché

Venerdì 8 maggio. Perché no. Anche questa poteva essere una data buona per inaugurare Expo. Che cosa sarebbe cambiato in fondo? Gli speculatori si sarebbero messi in tasca comunque la loro bella fetta di soldi pubblici, il residuo verde lombardo avrebbe in ogni caso smesso di vedere un domani, e il lavoro gratuito, sancito dal Jobs Act, diventava lo stesso una cosa “normale” grazie all’impiego di una moltitudinaria avanguardia di forzati dello stage. Neppure la burinaggine della neolingua imposta da Renzi e dal suo Partito della Nazione avrebbe risentito di un’inaugurazione spostata appena di qualche giorno. Milano, in ogni caso, (ma quel che è peggio anche i nostri cervelli) si sarebbe riempita di portaborse e leccaculi tutti casa & conference call, chiesa & best practies, mazzette & spendig review…

Per quale motivo, dunque, insistere sulla data del primo maggio, arrivando anche allo scontro aperto con la residua fetta di lavoratori che si ricorda – incredibile! – come quella del primo maggio non sia proprio una data come le altre?

La risposta, purtroppo, è tristemente semplice. Cioè: il primo maggio non è una data come le altre! Il primo maggio è lo sbiadito ricordo di un tempo in cui le lotte degli sfruttati di tutto il mondo riuscirono a imporre il primato politico e morale dei lavoratori sulla scena pubblica, cristallizzando il loro protagonismo in una “festa”, che tutto dovrebbe essere tranne una semplice celebrazione, rappresentando piuttosto un’occasione di rilancio, un modo per restare all’attacco sul fronte dei diritti e del progresso. Ebbene, malgrado il primo maggio dei nostri tempi sia una ricorrenza dove il senso originario sopravvive in forme alquanto appannate, è come se nella memoria ancestrale del regime oggi incarnato da Renzi si sia conservata la memoria di altre stagioni; il ricordo indelebile di incubi davvero vissuti dai padroni di ogni tempo e ogni paese, dal giorno in cui Spartaco, capeggiando una ribellione di schiavi, osò sfidare le legioni dell’Impero Romano, per arrivare all’assalto al Palazzo d’Inverno o, facendo un passo indietro nella cronologia, ai giorni in cui sulla Comune di Parigi sventolò uno straccio rosso scelto come bandiera.

L’oligarchia renziana, evidentemente, sente ancora il potenziale dell’ostilità popolare alla maniera delle bestie selvatiche braccate nel bosco: perché si può dire tutto, ma è proprio la gente come Renzi e i suoi mandanti europei a sapere bene come in realtà loro sono e restano semplici “tigri di carta”; a essere davvero potente, si sarebbe detto in altri momenti, è il popolo. E allora perché non frustrare la consapevolezza di ciò che si può ottenere costruendo dal basso il proprio futuro sovrapponendo alla festa dei lavoratori una “bella” celebrazione dell’affermazione planetaria del grande capitale come l’inaugurazione di Expo? D’altro canto, come hanno già fatto sapere al volgo, quando Expo chiuderà la baracca e i burattini andranno a compiere i loro saccheggi altrove (a Roma, per esempio, ci sarà il Giubileo…), il grottesco “albero della vita”, vale a dire la scultura-simbolo del grande evento milanese, non verrà installata in un posto qualunque, ma addirittura a piazzale Loreto. Sì, proprio lì, esattamente nel luogo in cui settanta anni fa un’insurrezione popolare fece giustizia del corporativismo fascista, aprendo nuovi scorci di cielo al sole dell’avvenire. Renzi, evidentemente, sa bene che non spegni il sole se gli spari addosso. Per questo preferisce soffocare il senso stesso della storia del passato imponendo un’altra costruzione di senso a ciò che determinati luoghi e determinati giorni possono continuare a rappresentare in futuro. Oggi, questo evidentemente va riconosciuto, le forze che si oppongono al revisionismo integrale non solo della storia ma del destino dell’umanità su questa terra, vale a dire le forze del fronte anticapitalista, possono apparire deboli e stanche rispetto a ciò che pure sono state. Ma proprio per questo vale davvero la pena opporsi con tutto il cuore a Expo e alla sua inaugurazione. In fondo – anche in questa epoca oscura – abbiamo il dovere di fare il modo che il futuro continui a non essere mai scritto, dopo di che, se non toccherà a noi vedere “sbocciare mille fiori”, sappiamo come dentro una semplice scintilla continua comunque a conservarsi tutto il fuoco del mondo.

E che solo la lotta paga.

SGOMBRIAMO EXPO!

Come si (ri)diventa fascisti: lo stato di polizia del governo Renzi

Come si (ri)diventa fascisti. Il titolo è impegnativo, quindi ciò che sto per scrivere non sarà esaustivo. Al contrario, si basa su riflessioni precedenti rispetto alla data di oggi e intende andare oltre per indicare una soglia di pericolo – il fascismo, appunto – che al momento appare già varcata.

Torniamo all’oggi dunque, giovedì 22 maggio, e ricordiamoci di questa data. Che cosa è successo?

Il presidente del consiglio Matteo Renzi, a capo di un governo (il terzo di fila) mai votato da nessuno, ha scelto piazza del Popolo per chiudere la campagna elettorale con cui il Partito Democratico ha affrontato le imminenti elezioni europee.

L’appuntamento con il discorso del “capo”, previsto per le ore 19 arriva insieme alla desolazione di una piazza semivuota, animata con molta fatica da zelanti volontari (o dipendenti?) che si affannavano a distribuire ai presenti quante più bandiere del PD possibili.

Il tempo, come è sua natura, passa: i militanti piddini sperano che qualcun altro arrivi, e i loro desideri vengono esauditi soltanto a metà. In piazza, infatti, insieme ai quattro gatti del comizio c’è anche un buon numero di cittadini e cittadine qualunque: studenti, precari, disoccupati, migranti, lavoratori impossibilitati ad arrivare alla fine del mese… una rappresentanza, insomma, di quelle oltre dieci milioni di famiglie italiane costrette a (sopra)vivere al di sotto della soglia di povertà.

Quello che salta agli occhi, appena la piazza viene animata da queste nuove presenze, è la profonda differenza antropologica tra i nuovi arrivati e i militanti del PD. Da una parte, insieme a tutti i colori del mondo, si sprigionano odore di officina, di libri e di cucina, mentre le voci parlano di cantiere e di call center e i vestiti raccontano l’arte di arrangiarsi. Tra i militanti del PD, al contrario, si apprezzano le giacche comprate in centro e le hogan ai piedi, gli afrori di lacca per capelli e i volti distesi di chi non si sta ponendo né il problema del pranzo né quello della cena. Questa spaccatura, ormai definitiva e irreversibile, dei corpi che un tempo non lontanissimo ancora condividevano uno spazio genericamente definito “di sinistra” dovrebbe essere presa in considerazione più attentamente, ma quello che è sicuro è che a piazza del Popolo una simile differenza produceva dissonanze incapaci di passare inosservate. I primi ad accorgersene, gli impiegati della DIGOS, la polizia politica che, per l’occasione, è stata mobilitata in grande stile: le stesse lacche dei militanti piddini sui capelli, le stesse hogan ai piedi.

I poliziotti della politica, mentre Renzi ancora non si affaccia sul palco allestito per l’occasione, sono decine e decine; e gli uomini ai loro ordini, in divisa, con i caschi e i manganelli, molte centinaia. Si coordinano e, incordonati, si gettano addosso a chi è considerato “diverso” e le pelli degli africani e degli indios sono le prime a farne le spese, insieme a quelle di chi ha meno anni sulle spalle, ritenuto, probabilmente, “colpevole” di non indossare le orrende magliette arancioni con cui si pavoneggiavano i Giovani Democratici presenti al comizio.

Così, senza proferire parola, la polizia si scaglia su tutta questa massa di intervenuti, spinta a manganellate fuori dalla piazza, con l’ausilio di schiaffi e pugni di volenterosi militanti del PD, completamente a loro agio in questo ruolo di ausiliari di polizia, né per nulla ostacolati in questo compito da chi la divisa la porta per mestiere: altra circostanza foriera di inquietanti parallelismi con le abitudini delle vecchie squadracce in camicia nera, sempre all’opera sotto l’occhio compiacente delle forze dell’ordine “regolari”.

Attenzione perché stiamo parlando di donne, studenti giovanissimi e signori di mezza età maltrattati e picchiati dalla polizia nel centro di una piazza dove era in programma un comizio, eppure nessun militante PD ha pensato di potersi schierare al fianco del più debole e del perseguitato.

In ogni caso, la prima domanda, di fronte alla polizia che si abbatte su un comizio per aggredire una parte dei presenti, potrebbe o dovrebbe essere spontanea: sulla base di quale legge, regolamento, norma o disposizione si può impedire a dei comuni cittadini di essere nel luogo in cui sono nel momento in cui ci vogliono essere?

Perché forse è anche così che si (ri)diventa fascisti: affrontando le cerimonie ufficiali con una massiccia ondata di fermi preventivi, giustificati da nulla ma eseguiti nel nome del sospetto che alcuni “malintenzionati” possano rovinare con il loro intervento la festa preparata dal capoccia di turno. Senza dubbio durante il fascismo si procedeva anche in questo modo, ma non è il Ventennio l’unica epopea dittatoriale da cui trarre un precedente, anche Mobutu, in Congo, usava comportarsi così: e in Cile? o in Argentina?

La stessa, triste, gravissima cosa.

Di questo, adesso, bisognerebbe parlare. E questo è ciò che sarebbe utile leggere sui giornali: di uno stato europeo, l’Italia, in cui si è consumata a ciel sereno la pratica del fermo preventivo di massa, a totale arbitrio di uno schieramento misto di poliziotti in borghese, poliziotti in divisa e militanti del PD con la lacca sui capelli e le hogan ai piedi.

I numeri raccontano di 50 persone accusate di nulla eppure costrette con le buone, o più spesso con le cattive, a seguire le forze dell’ordine nelle caserme e nelle questure, affrontando uno stillicidio di ore dietro le sbarre, salvo poi essere rilasciati (mentre scrivo non si riesce ancora a capire se tutti) con un foglio che parla di “verbale di accompagnamento in ufficio”, visto che di altro non può proprio parlare.

Ma perché la pratica del fermo preventivo è ancora più grave di quello che sembra?

Perché la pratica del fermo preventivo disegna, con la sua indeterminatezza, un’area grigia di sospensione del diritto: una zona dove non si punisce un reato specifico, ma in cui ad alcuni – poliziotti e militanti del PD oggi – si affida il ruolo di giudicare tra omologati e non omologabili, salvando i primi e arrestando “per sicurezza” i secondi.

Per questo, d’altro canto, sto scrivendo un pezzo intitolato “come si (ri)diventa fascisti”, perché il fermo preventivo non è che l’ennesimo dispositivo con cui si consente l’arbitrio poliziesco su quote di cittadinanza di volta in volta ritenute esterne al campo delle libertà personali. Il fermo preventivo, infatti, giunge al culmine di una lunga stagione che ha introdotto, con i CPT, i CARA e i CIE, la detenzione dei migranti per questioni di natura burocratica (la mancanza di documenti) e non per ragioni di materia penale; proseguendo poi, prendendo come scusa la “sicurezza negli stadi”, con la pratica delle schedature di massa (vedi tessera del tifoso) e l’abominio giuridico di poter essere arrestati “in flagranza di reato” addirittura dopo 48 ore dallo stesso; arrivando con il ministro Alfano – cioè con il governo Renzi – a vietare come se niente fosse ai cortei “violenti” (e chi lo decide?) la possibilità di manifestare; e sommando tutto questo alla grande massa di leggi speciali e di emergenza (la legge Scelba, la legge Reale, eccetera) sempre rimaste attive anche dopo che il periodo emergenziale o presunto tale finiva per essere archiviato nei libri di scuola.

Tra gli appunti dedicati al come si (ri)diventa fascisti, un altro dato va sottolineato in rosso. La principale caratteristica del fascismo, infatti, non era e non è soltanto l’impianto razzista delle sue leggi e il carattere censorio della sua informazione – tutte pratiche tra l’altro perfettamente rintracciabili nell’attuale sistema statale – ma anche, e per certi versi soprattutto, la natura corporativa della sua governance: un’amministrazione che nasconde dietro valori “superiori” – ce lo chiede l’Europa!, urla Renzi, come Mussolini gridava “ce lo chiede la Patria!” – la realtà di un comitato d’affari che agisce con la mediazione-fantoccio di sindacati gialli, cioè senza nessuna mediazione, sul conflitto sociale e sulle rivendicazioni di classe. Fascismo come sistema corporativo, dunque, allo stato delle cose rappresentato in maniera inquietante non soltanto dai regolamenti liberticidi del già menzionato Angelino Alfano; ma con decreti come quello di Maurizio Lupi, il famigerato “piano casa”, che dichiara guerra ai movimenti per il diritto all’abitare imponendo il distacco delle utenze e la revoca delle residenze agli “abusivi” mentre finanzia senza pudore i palazzinari e le banche con meccanismi dipinti come bonus-affitti o sostegno ai mutui; o come quello del ministro del lavoro Poletti, che se nel ruolo di presidente della Lega delle Cooperative promuoveva lo sfruttamento selvaggio della manodopera – in primo luogo i facchini – dell’Emilia Romagna, all’interno di un sistema in cui il “pubblico” diveniva sinonimo di “Partito Democratico” e in cui “Partito Democratico” sinonimo di gestione personalistica degli apparati statali, da ministro istituzionalizza in scioltezza la precarietà, consentendo senza ritegno, grazie al suo “jobs act”, il perpetuarsi di qualunque tipologia contrattuale, purché non garantita.

Le persone fermate in piazza o prima di arrivare in piazza oggi avrebbero portato davanti a Renzi esattamente tutto questo, e posto problemi inerenti un cambio radicale dell’esistente, a partire dall’affermazione di un principio: viene definito “diritto” tutto ciò che non può essere né venduto né comprato, né tantomeno fatto oggetto di speculazione affaristica. La casa, l’istruzione, la salute, il reddito e il lavoro sono diritti che, in questa fase, vengono attaccati da un capitalismo deciso a recuperare l’affanno proprio sulle spalle dei meno garantiti, il contrario dei sostenitori di Renzi ed esattamente uguali a coloro che la polizia dello stesso Renzi ha attaccato, manganellato e recluso a scopo preventivo, anche se le urla contro il governo della fame dell’ex sindaco di Firenze si sono sentite lo stesso.

Le ha sentite persino Roberto Giacchetti, parlamentare piddino e attuale vicepresidente della Camera, che attraverso twitter ha dichiarato: “la DIGOS ha in mano 1 pugnale trovato a terra durante i tafferugli. E non era un giocattolo”.

Ora, persino spulciando tutti i verbali di “accompagnamento in ufficio” che hanno colpito chi intendeva contestare Renzi, la questione del pugnale non compare. Se il parlamentare piddino non mente spudoratamente, tanto per infamare “a buffo” l’opposizione sociale e i movimenti antagonisti, è lecito pensare che la polizia si sia rivolta direttamente a lui, faccia da pretino, camice stirate di fresco e sigaro nelle mani… ma da quando la digos parla di corpi di reato con soggetti diversi da quelli prescritti dalla legge? Cioè con soggetti diversi da un PM o da un Giudice per le indagini preliminari?

Da quando stiamo (ri)diventando fascisti, sicuramente sì.

Facchini e libri: scrittori, editori e istinto di classe

Dopo giorni di pioggia e nuvole nere, ma mai nere come le anime dei benpensanti della nostra politica e della connessa loro industria (non solo) editoriale, cercavo giusto un’occasione per cimentarmi con un argomento con cui sarà facile rendersi impopolare.

Questo argomento riguarda i libri, la loro presunta sacralità e quell’aura di “garanti della democrazia e della libertà” da cui vengono artatamente circondati. “I libri,” sostengono facendo la faccia da cerbiatto stuprato orde di cittadini-buonidemocratici-mediamenteacculturati, “non dovrebbero mai essere toccati…”; e, immancabilmente, proseguono il loro noioso discorso ricordando a chiunque metta in discussione questo assunto che erano stati i nazisti a permettersi il più grave dei peccati: bruciare i libri.

Singolari paragoni. Perché in casi come questi chi ha tanto a cuore il destino dei libri, facilmente si dimentica dell’unico destino per il quale valga davvero la pena di lottare: quello degli uomini e delle donne; persone in carne e ossa, non cellulosa sporcata d’inchiostro.

Il nazismo ha fatto naturalmente ben altro rispetto al bruciare i libri. Artefice dell’olocausto – mai abbastanza bestemmiato e combattuto: ma dove sono quelli che gridano al nazi quando il fascismo si manifesta davvero? – il nazismo ha rappresentato la cristallizzazione estrema di precisi interessi capitalistico-padronali, alimentati con la frustrazione nazionalistica e patriottarda e sostenuti attraverso l’individuazione di un nemico ben preciso: la lotta di classe. Soltanto tenendo presente questo passaggio, allora, si può ripetere – e assolutamente condividere – quanto sostenuto dal sansimonista Heinrich Heine, secondo il quale “dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli esseri umani” (Heine, a dire il vero, sosteneva anche che “dovremmo perdonare i nostri nemici, ma non prima che siano impiccati”). Altrimenti la realtà è quella dove – di fatto – gli essere umani vengono bruciati tutti i giorni, in modo metaforico, certo, attraverso la generalizzata privazione dei diritti di ogni tipo a cui stiamo assistendo più o meno inermi, ma comunque nell’acquiescenza generale, capitanata dai tanti pronti a indignarsi per i libri perduti… gli stessi che, quando il 15 febbraio del 2012, con la cancellazione di una moltitudine di testi elettronici e nel nome della “lotta alla pirateria”, si è consumata la distruzione del portale library.nu (solo per fare un esempio:  http://www.webnews.it/2012/02/15/library-nu-cancellati-migliaia-di-e-book-pirata/), “colpevole” di mettere a disposizione gratuitamente milioni di testi in formato elettronico, non hanno sprecato una sola parola, pianto una sola lacrima, animato una singola protesta o, perlomeno, avanzato una sola domanda. Una domanda tipo: si difendono i libri o si difende il capitale?

In questo contesto, naturalmente, la parola “capitale” può essere presa come sinonimo di “potere”. Ma la precisazione serve soltanto a raccontare la storia che i tanti difensori dei libri non hanno mai letto: quella della scrittura e delle prime forme di pubblicazione. Già. Perché quando venne messa a punto la scrittura in quanto tecnica, i suoi primissimi impieghi – e a lungo pressoché gli unici – non riguardarono la stesura di delicate liriche sul male di vivere o di amene prose sulla passione romantica, niente di tutto questo. Con la scrittura, per prima cosa, vennero affrontati i lati di massicci obelischi. Per incidere sulla pietra lunghe liste di nomi di laghi, fiumi, montagne… accompagnati da elenchi altrettanto lunghi di dinastie reali che, quella stessa scrittura e quegli stessi supporti, spacciavano come depositari di un potere millenario, naturalmente voluto da Dio. Da quel momento in poi, il destino della “Scriba” è uno solo: affondare lo stiletto nella gola del potente di turno… o restare un semplice servo di quel potere che ha partorito lui e la sua scrittura. Compito tutt’altro che facile, a cui pure generazioni di scribi infedeli si sono votati subendo in cambio persecuzioni di ogni genere: a cominciare proprio dal rogo dei propri libri.

Per il resto bruciare i libri può essere un atto bellissimo e liberatorio. Penso per esempio alla rivolta del Matese, quando un nugolo di ribelli capitanati dagli anarchici Errico Malatesta e Carlo Caffiero devastò tutti i municipi della zona – le case del potere – producendosi, come primo atto, nel rogo dei libri comunali che si arrogavano la pretesa di certificare lo stato di semi-schiavitù legalizzato a cui i braccianti locali – come milioni di altri lavoratori in tutto il mondo – erano stati condannati. La vera e propria gioia dei lavoratori di fronte a quel rogo affonda le sue radici nella nascita infame della scrittura e dei libri e costituisce l’oggetto di una realtà dimenticata: la diffidenza naturale del proletariato nei confronti dei libri e di chi li scrive è giustificata dal rapporto incestuoso che da sempre unisce i libri al potere e si tramuta spesso in atti dettati da ciò che una volta era detto “istinto di classe”.

Nell’analisi gramsciana l’istinto di classe va temperato alla luce di elementi di “folklore regressivo”… ma ecco che in questi giorni la storica diffidenza provata da ogni lavoratore degno di questo nome nei confronti di chi non svolge compiti manuali, trova nuove ragioni d’essere nelle uscite pubbliche di alcuni importanti (?) esponenti dell’intellettualità italiana a proposito della battaglia di lunga durata che, a Bologna, oppone i lavoratori della logistica alla Granarolo.

Il giallista/scrittore/autoretelevisivo bolognese Carlo Lucarelli, interviene sulla situazione affermando: “Non entro nel merito di una vertenza in corso, e se questa situazione ha generato della rabbia, dico che esiste sicuramente una rabbia sacrosanta e legittima, è quella che grida dei contenuti a cui si deve dare risposte, ma è anche quella che a un certo punto si ferma e si trasforma, diventa un atto politico che si svolge entro i limiti della democrazia ed è costruttivo (…) la rabbia non può legittimare la violenza, altrimenti diventa dannosa, inutile, strumentalizzabile e non fa l’interesse di nessuno, tanto meno dei lavoratori. Il clima è preoccupante, e spero come tanti che tutto possa tornare nei confini della civiltà e del rispetto delle regole”.

Lucarelli, insomma, invoca nientemeno che “i confini della civiltà”: poteva usare tante parole per esprimere la comune veste neo-centrista che ha assunto l’arroganza padronale; ma da buon scrittore ha usato la più giusta: “civiltà”; la stessa civiltà dei libri e della scrittura che torna a servire il potere – oggi il capitale – come ha sempre fatto quando non ha imparato ad alzare la testa dai facchini della Granarolo.

Le dichiarazioni di Lucarelli sono rivoltanti (leggere: http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2014/1-febbraio-2014/facchini-lucarelli-clima-preoccupante-2224008841979.shtml); e per quanto mi riguarda quella pretesa di giudicare ciò che fa parte della civiltà e cosa non ne fa parte resterà indelebile nei riguardi del giudizio che si può dare a un simile intervento (nessun padrone poteva esprimersi meglio di un padrone che fa lo scrittore). Che a dare manforte a Lucarelli via Twitter sia intervenuto un altro scrittore come Sandrone Dazieri non mi stupisce, dopo le dichiarazioni dello stesso a favore della nuova legge elettorale detta “Italicum” in esame al parlamento (http://www.globalproject.info/it/produzioni/chi-se-ne-frega-dei-partitini/16309). Dichiarazioni con cui, elogiando il bipolarismo renziano (quello dove si potrebbe ottenere un governo di larghissimi poteri con una minima percentuale di voti, alla faccia di qualunque formalismo democratico), Dazieri invita i suoi lettori a sostenere il PD: “Facciamo un caso pratico. Prendiamo la Valsusa. Secondo voi che cosa farebbe il partito o la coalizione all’opposizione nel caso di una mobilitazione sociale diffusa  e duratura come la No Tav. Ve lo dico io. Prima delle elezioni offrirebbe uno scambio. Ahh, voto di scambio, urlate ora tutti assieme! Schifezza, orrore. Figliole e figlioli: è sempre un voto di scambio. Si vota per ottenere qualcosa che riteniamo utile, conveniente o giusto. Un governo migliore, le tasse più basse, quel cazzo che volete. L’ideologia ci forma, ci aiuta a scegliere quello che riteniamo utile, conveniente o giusto, e tutti noi, credo, dovremmo interrogarci su qual è il modo migliore per ottenere quelle riteniamo utile, conveniente o giusto. I risultati, quando coinvolgono la vita di milioni di persone, contano”.

Non mi stupisce il sostegno alla prospettiva padronale dato da Dazieri a Lucarelli proprio per quella che è la principale, almeno a mio giudizio, caratteristica della lotta dei facchini della Granarolo. La lotta della Granarolo, infatti, non scaturisce “semplicemente” da una delle tante storie di ordinario e brutale sfruttamento, ma mette a nudo un meccanismo in cui, attraverso il paravento delle cooperative (chiamarle ancora “rosse” è ormai anacronistico come convertire l’euro in lire), lo sfruttamento è legato a doppio filo al potere piddino bolognese: autentico laboratorio neocapitalistico dove si gioca il futuro di repressione e di sfruttamento che di certo non riguarderà soltanto il comparto della logistica, ma assolutamente chiunque… altro che “voto di scambio”!

Questa, infatti, è la situazione che si sta prospettando. Anzi, che si è già concretizzata e di cui è frutto l’esperienza di lotta bolognese. Con la triplice alleanza sindacale che abiura a qualunque forma di conflittualità e si fa scoperchiatamente “concertativa” (un sindacato “giallo”); con la rappresentanza politica completamente slegata dagli elettori, sia attraverso una legge elettorale liberticida, sia attraverso l’asservimento a macrodecisioni economiche prese a livello extraterritoriale, si entra in una nuova epoca coorporativa, cioè in un nuovo stato di tipo fascista.

Ed è esattamente in questo stato che una casa editrice come la Rizzoli, cioè la casa editrice della famiglia-padrona del capitalismo italiano, “compra” una pagina del Corriere della Sera, sempre di proprietà della stessa famiglia capitalistico-rapinatrice, per venire a dire al “popolo” che… i libri non si bruciano (http://www.ilpost.it/2014/02/04/la-pagina-comprata-rizzoli-sul-corriere-i-libri-si-bruciano/).

Il riferimento dovrebbe essere al fuoco di paglia che ha riguardato qualche non immortale opera dello scrittore/giornalista/autoretelevisivo Corrado Augias, responsabile di aver accusato di “fascismo inconsapevole” gli esponenti del M5S (http://www.giornalettismo.com/archives/1335295/corrado-augias-ad-agora-racconta-il-suo-libro-bruciato/): cioè, la Rizzoli avrebbe comprato (si fa per dire, è tutta roba loro) un’intera pagina di un quotidiano a fronte di un post su twitter in cui un militante grillino bruciava alcuni libri dello stesso?

Cioè, la Rizzoli, creatura immonda del turbocapitalismo non si accontenta più di sventolare la bandiera del profitto ma pretende di inalberare quella della libertà – o magari, come la chiamerebbe Lucarelli, quella della “civiltà”?

La stessa proprietà che, a più riprese e attraverso i suoi strumenti di informazione, tanto per fare un esempio, non ha mai avuto remore ad attaccare e a diffamare nei più volgari dei modi qualunque forma di lotta popolare, adesso si permette di utilizzare i libri per darsi una verniciatura quietamente democratica?

Proprio così. Lo fa e miete consensi su questo proprio in virtù di quel legame antichissimo tra scrittura e potere, tra libri e capitalismo che, in tempi di crisi, è tutt’altro che “fascismo inconsapevole”, ma vero e proprio fascismo: propaganda-spazzatura che tenta di sommergere ogni fenomeno autenticamente progressista, come quello di cui i facchini della Granarolo sono protagonisti. D’altronde dov’è che Lucarelli ha rilasciato le sue dichiarazioni: sul “Corriere di Bologna”, dorso locale del “Corriere della Sera” naturalmente…

E francamente non ho bisogno di aspettare né le dichiarazioni di Lucarelli, né tantomeno di dichiarare la mia siderale distanza dell’opzione grillina per dire che francamente per un rogo di pubblicazioni targate “Corriere della Sera”, quindi Agnelli, quindi Fiat… beh, che dire?

Non piangerei certo lacrime amare di cordoglio per la democrazia.

Per fortuna, in ogni caso, Lucarelli, e poi Dazieri, hanno avuto la loro messa in discussione attraverso una lettera aperta firmata da Wu-Ming, Valerio Evangelisti, Alberto Prunetti e Girolamo De Michele. Un’accusa decisa, dove, tra l’altro, si legge: “I quotidiani sembrano voler contrapporre, con una furbesca titolazione, due generi di scrittori: quelli “buoni” e quelli “politicamente scorretti” che legittimerebbero la violenza. Una distinzione inaccettabile. La «violenza»: ma quale violenza? Non c’è stato alcun atto di violenza da parte dei lavoratori in lotta, in massima parte migranti. C’è stato quell’uso della forza che è proprio di ogni sciopero e si esprime nei picchetti, nei blocchi, nell’intenzione di danneggiare gli interessi economici della controparte. Al contrario, la violenza fisica delle manganellate e degli spray urticanti, gli arresti ingiustificati dei delegati sindacali (in violazione delle norme), i licenziamenti, il mancato reintegro dei lavoratori in spregio agli accordi sottoscritti (ed anche, a Milano, il pestaggio in stile mafioso del sindacalista del Si Cobas Fabio Zerbini) sono forme di violenza padronale”.

Personalmente non ho particolari problemi a fare un altro passo, aggiungendo che la “violenza” di cui si sta trattando è: 1) prima di tutto figlia del “potere” di chi può decidere cosa chiamare violento e cosa no (secondo “Il Corriere della Sera”, per esempio, un picchetto è “violenza”, affamare uomini, donne e bambini è “applicare le forme contrattuali stabilite dalla legge”); 2) in secondo luogo è frutto di rapporti di forza: sarà molto difficile, infatti, anche al di là delle proprie volontà e intenzioni, essere “violenti” (malgrado decine di processi affermino poi il contrario) a mani nude contro battaglioni di polizia schierati in assetto antisommossa, ben armati, addestrati e con tanto di copertura aerea e mezzi blindati al seguito…

Questo per dire che se un facchino fosse effettivamente riuscito, non so, a dare uno schiaffo al caporione di turno, non credo proprio starei a gridare allo scandalo.

Lo scandalo lo grido quando non si riesce più a mettere a tavola il pranzo con la cena. Quando non c’è neppure la tavola. Quando un regime neocorporativista (se non si vuole dire “fascista”) avanza inesorabilmente – meglio: violentemente – sopra qualunque voce decisa a reclamare la riconquista dei propri diritti.

Per questo, preso atto delle “scuse” di Lucarelli (pubblicate qui insieme alla lettera aperta di cui sopra: http://www.carmillaonline.com/2014/02/04/lettera-aperta-carlo-lucarelli-sulle-violenze-vere-alla-granarolo/), resta il risentimento e, legittima o meno che possa essere considerata dai padroni di turno, la rabbia per tutto quello che sta succedendo a Bologna come altrove. Una rabbia dolorosa come quella espressa da un bracciante lucano intervistato da Ernesto de Martino e che, vista la data e il luogo dell’intervista (la Basilicata degli anni Cinquanta), poteva benissimo essere mio nonno: “Sono a questo mondo come se non ci stessi”, diceva il bracciante lucano nella sua lingua, “mi hanno messo nel libro degli spersi”.

Era, questo “libro degli spersi”, un altro di quei registri comunali destinato a contenere chi veniva portato via dalla malamorte, quella che rendeva impossibile i rituali di sepoltura e le procedure del cordoglio. Un registro che fissava nero su bianco la destorificazione a cui il potere e il capitale volevano e vogliono condannare le masse: i facchini di Bologna come chiunque altro. Anche me. Che per farla finita con i libri e la loro finta aura di libertà (mai scontata ma tutta da guadagnare), ricordo sempre le parole di Claude Levi Strauss, quando demistificando l’innocenza della scrittura e dei libri ammonì: “Ad ognuno sarà insegnato a leggere affinché nessuno possa dire di non conoscere la legge”.