E fu così che mi ritrovai laureato

Sono passato dalle parti della città universitaria oggi. E mi sono imbattuto in stormi di persone con l’alloro dietro le recchie come usava ai tempi di Dante e Virgilio, vestiti eleganti (devo essermi perso qualcosa: quando è iniziata la moda del farfallino?) e bei tomi rilegati in similpelle sotto il braccio. Tutti ridevano, qualcuno era ubriaco. Nel cervello mi si è accesa una fotografia datata 2002. Ci sono io in maniche di camicia color verde militare e praticamente nessun altro a parte la commissione: la discussione della mia tesi, in effetti, era fissata per le otto e mezza, a chi poteva reggere la pompa di svegliarsi per ascoltare una relazione su Ogotemmeli, un vecchio cacciatore Dogon? Venne un mio amico che entrò in aula un po’ in ritardo perché non riusciva a trovare parcheggio e una signora maliana in abito tradizionale a cui avevo parlato del mio lavoro. Altre persone le incontrai nell’atrio quando era tutto finito, intorno alle 9 più o meno. Così pagai ai convenuti cornetto e cappuccino nel bar di piazzale Aldo Moro, quindi mi presentai regolarmente al lavoro. “Quanto hai preso?”, mi domandò il capoccia di allora. “110 e lode”, risposi io. “Bravo, mo’ sposta ‘sto bancale”, ordinò lui. E fu così che mi ritrovai laureato.

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