Pulirsi il culo con le (nostre) mani. L’anima del capitalismo di rapina e lo sgombero del Volturno Occupato

In una Roma messa a dura prova dal caldo e da un anno in cui la spinta repressiva ha toccato altissimi livelli, la notizia è stata di quelle comunque in grado di arrivare come una frustata in faccia alla città: «Stanno sgomberando il Volturno!».

Erano le otto e un quarto del 16 luglio quando un indignato passaparola ha fatto accorrere davanti al portone dell’ex cinema occupato un centinaio di attivisti, ma era già troppo tardi. Numerosi blindati avevano sbarrato le vie limitrofe e nutriti cordoni di celerini, facendo ondeggiare ritmicamente il manganello, non nascondevano di certo le loro reali, voluttuose idee di violenza. La stessa violenza che, nel nome della legge, si scatenava sugli spazi del Volturno, aggredito da picconi immediatamente in grado di demolire arredi e pavimenti, producendo nel giro di un’ora un’immagine in grado di commentarsi da sola: ci sono voluti sei anni per fare del Volturno un teatro aperto alla città e uno degli sportelli del diritto alla casa più noti a livello nazionale, mentre nel giro di appena sessanta minuti tutto è stato distrutto senza nessuna remora. Mancano effettivamente le immagini dei celerini che pisciano per dispetto sugli oggetti degli occupanti, ma alla resa dei conti, quando c’è stata la possibilità di entrare per recuperare le cose più importanti, diverse parti dell’impianto luci e audio risultavano assenti:qualcuno tra poliziotti e operai assoldati per l’apertura della porta se li era rubati!

Tra le questioni sociali che in questo momento a Roma scottano di più, c’è senz’altro la ferma volontà della prefettura – autentico sindaco-ombra della capitale – di “normalizzare” gli spazi sociali attivi sul territorio, promuovendo una campagna di sgomberi che mette a rischio,insieme ai luoghi liberati, gli strumenti dell’organizzazione dal basso e dell’autogestione. Lo stesso articolo 5 della mai abbastanza bestemmiata Legge Lupi, d’altro canto, nel momento in cui arriva a imporre il divieto di allacciare utenze a chi vive in spazi occupati, non sferra soltanto un infame attacco alla realtà delle occupazioni abitative, ma estende la sua portata su tutti gli spazi sociali, ed è, in ultima istanza, una delle cause profonde dello sgombero del Volturno a ben sei anni di distanza dalla sua occupazione. Niente di strano, dunque, se un simile atto sia riuscito a raccogliere una solidarietà ampia: la stessa solidarietà che, nella serata di giovedì 20 luglio, ha portato oltre tremila persone a conquistare il percorso di un corteo non autorizzato, ma in grado comunque di attraversare il centro della città, da piazza Indipendenza fino a Porta Pia.

«Il Volturno», si diceva nel corteo parafrasando Vittorio Arrigoni secondo cui l’attacco a Gaza comincia sull’uscio della casa di chiunque, «è la nostra Palestina»: una situazione in cui, di fronte all’incomparabile superiorità di uomini e mezzi messi in campo dalla speculazione, bisogna in ogni caso trovare il modo di autorganizzarsi per dare una risposta concreta, pena un arretramento generalizzato del concetto stesso di diritto all’abitare fino a livelli difficilmente pensabili – nelle intenzioni dei padroni, ovviamente, fino al suo annientamento.

Mentre la rabbia e le lacrime del corteo defluivano, gli speculatori non restavano a guardare, né ovviamente davano prova di alcuna sensibilità. Il primo atto dei padroni del Volturno (le società che risultano eredi di ciò che è stato uno dei lotti messi in vendita dopo il fallimento Cecchi Gori appaiono come una serie di nebulose scatole cinesi), non a caso, è stato il gesto di asportare il murales di Sten e Lex che faceva bella mostra di sé all’entrata dell’ex cinema, per coprire il portone con una triste mano di vernice nera.

Qui le contraddizioni si fanno talmente fitte da riuscire a tagliarsi con il coltello. Il giorno stesso dell’occupazione del Volturno, infatti, si insediava a Roma Giovanna Marinelli in qualità di nuova assessora alla cultura. Una nomina politicamente in linea con le mosse del governo centrale, un personaggio che, iniziando a parlare di cultura a Roma, ha immediatamente specificato come questa possa essere salvata soltanto con l’intervento dei privati. Ed eccoli qui i privati santificati dallo sfrenato neoliberismo renziano: sono gli stessi che, mettendo le mani sul Volturno, procedono immediatamente alla distruzione di un’opera d’arte realizzata da due artisti di strada come Sten e Lex, i classici esempi di artisti che “tutto il mondo ci invidia”, senz’altro tra i nomi più importanti della street art internazionale, artefici di lavori in grado di conquistare gli appassionati di tutti i continenti e di trovare spazio persino in importanti ambiti museali (digitare il loro nome su Google per credere).

Ma parlare di queste cose con gli speculatori, ed evidentemente anche con i politici impegnati nella loro copertura, è davvero gettare le parole al vento. Quale ridicolo buzzurro, infatti, trovandosi in possesso di un’opera d’arte bella e importante come il pezzo di Sten e Lex al Volturno avrebbe come prima cosa deciso di distruggerla?

Quale crasso ignorante avrebbe proceduto a cancellare un pezzo dalla simile portata senza minimamente mettersi nell’ottica della sua cautela?

Ai padroni del Volturno, ma anche ai loro referenti politico-polizieschi, verrebbe da chiedere: che cosa altro fate nel chiuso delle vostre case? Mangiate ficcando il grugno in un trogolo? O per pulirvi il culo usate le mani?

Sarà anche il caso di sottolineare che se Sten e Lex avevano lavorato sul portone dell’ex cinema Volturno, all’interno del cinema c’è o c’era una delle più interessanti collezioni di street art capitolina, con opere di Hogre, Diamond, Solo, Borondo, Omino 71 e di tanti altri grandi dell’arte urbana, come il collettivo teatrale artefice di una serrata programmazione aperta a tutta la città (gratuitamente) e lo sportello per il diritto alla casa, trattati alla stregua di carta straccia dal famigerato partito della legalità, un’accolita di soggetti il cui comportamento – l’accanimento contro le opere d’arte e la loro distruzione – denota nei confronti della “cultura” lo stesso interesse che i palazzinari sono soliti accordare alla qualità del cemento utilizzato per le loro grandi opere speculative.

Lo scandalo dello Sten e Lex distrutto, naturalmente, non ha trovato alcuno spazio sui giornali. Ma come potrebbe essere altrimenti?

Sarà appena il caso di ricordare che ancora recentemente una “giornalista” (?!?) de «la Repubblica» ha appellato con il termine di «imbianchino» un artista come Blu nel momento in cui, tanto per restare sul terreno del rapporto tra arte e spazi occupati romani, dopo essersi occupato delle facciate di Acrobax e prima di dedicarsi ai muri di Alexis, realizzava un capolavoro davvero ammirato in tutto il mondo sulle facciate di Porto Fluviale.

La giornalista de «la Repubblica», dopo l’infelicità del suo pezzo, venne pubblicamente sbeffeggiata da chiunque avesse avuto un minimo di interesse per parole come “riqualificazione urbana” o, semplicemente, “arte” e “cultura”. Nel caso del Volturno, dunque, meglio scegliere il silenzio: continuare a dare corpo alla disinformazione e fare finta di nulla finché negli spazi dell’ex cinema possa finalmente concretizzarsi la destinazione pensata dai padroni, vale a dire una patetica sala slot, l’ennesimo tempio delle macchinette mangiasoldi da tirare su nel cuore di Roma.

Le chiacchiere stanno a zero. E anche la neo assessora alla cultura, in vista del tavolo strappato per il 21 luglio dopo un’azione animata dal collettivo teatrale del Volturno e dagli attivisti del diritto all’abitare, dovrà essere chiamata ad esprimersi chiaramente su questo. L’unico modello di evoluzione degli spazi cittadini presente nella testa dei padroni della metropoli è quello di un degrado assistito dalla presenza di sale slot che spuntano come funghi: poli delinquenziali in grado di far convergere in un unico amalgama e di nascondere dietro macchinette mangiasoldi stratificati interessi di tipo mafioso, dallo spaccio di cocaina in grande stile fino allo sfruttamento della prostituzione. E quale luogo migliore del Volturno per realizzare un progetto del genere?

Roma possiede già intere arterie, basti pensare al tratto finale della via Tiburtina, in cui questo modello di (sotto)sviluppo è più che una realtà: è l’imposizione violenta di quel divieto di pensare e agire che i padroni hanno conquistato impedendo ai cittadini di vivere le proprie strade e di imprimere il segno della loro presenza alle vie che abitano, orientandone aspetto e destinazione d’uso. Siamo davvero, e la distruzione dell’arte contenuta dal Volturno lo dimostra, alla nuova preistoria di pasoliniana memoria: un’epoca in cui, nel nome della messa a valore totalitaria di tempi e spazi, qualunque complessità di tipo intellettuale, culturale ed esistenziale viene messa al bando a favore di progetti capaci di rimuovere ogni sorta di rapporto dialettico con l’essere qui e ora come collettività e di consegnare al futuro le facce di una stessa medaglia: le asettiche e scintillanti vie del centro commerciale per le necessità diurne, le strade sordide delle slot machine per gli impulsi notturni; il trionfo del consumo e la polizia ovunque, la cultura e il diritto all’abitare da nessuna parte. Questo è il mondo che vuole essere disegnato addosso a tutte e a tutti. Mentre se non si sarà in grado di opporre un’argine all’esondazione di arroganza padronale che ha appena sommerso il Volturno, il governo dei comitati d’affari attualmente e schifosamente al potere continuerà a ghignare, a distruggere opere d’arte, ad affondare il grugno in città trasformate in mangiatoie e, per pulirsi il culo, ad usare le (nostre) mani.