T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?

Un giorno arrivo al bar e prima che apro bocca per farmi dare una canadese, Tremolina, che al bar ci abita, subito mi dice: «Hai visto che ha fatto Carpano?».

Se a Carpano fosse capitato qualcosa di veramente, veramente brutto, lo avrei capito subito. Perché accanto al nome della persona, Tremolina, come si fa in questi casi, avrebbe aggiunto la parola “poro”. Usare le parole per dire della morte porta male a chi lo fa, quindi non sarebbe servito andare oltre, sarebbe bastato dire “hai visto che ha fatto er poro Carpano?” e avrei capito; come aveva capito la barista, che la canadese la tira fuori dal frigo senza che io aggiunga nulla al solo fatto di essere là…

Che ha fatto Carpano?

Me lo chiedo con la canadese in mano e il mento all’insù, per invitare chi avevo di fronte a spiegarsi meglio.

«Giù al cantiere, stava a lavorà, un manovale rumeno j’ha fatto rodè er culo, che ne so… l’ha preso a pizze e questo è cascato giù dar ponteggio…».

Rimanevo ancora in silenzio. Allora Tremolina aggiunge: «Stavano a dodici metri, mica cazzi».

E poi: «So arrivate le guardie e se lo so’ portato via».

Tiro un sorso di birra dalla bottiglia: «Ah»; poi mi metto una mano sulla faccia. Anche nominare ciò che rende romani porta male. Fare il gesto che significa essere stato carcerato può bastare. Però no, mi confida Tremolina: «Se lo so’ tenuto a bottega mezza giornata e l’hanno riportato a casa. Me sa che j’hanno dato i domiciliari».

«Ciaveva moje e tre figli», dice la barista. Ma parla del manovale romeno. Tarpano, a quarant’anni, abita ancora con la madre, nessuno gli conosce una ragazza, ma che è uno che si incazza facile lo sanno tutti. Devi esse’ scemo pe’ fa a cazzotti a dodici metri: se lo piji, chi cìai di fronte lo ammazzi – o vai a morì ammazzato te, per carità. Per le guardie, comunque, deve esse stato un incidente e quindi niente gabbio. Mejo pe’ Carpano.

S’è fatta una certa. E dentro al bar suona la musichetta del telegiornale. Edizione della sera. Parla di una ragazza morta sotto la metropolitana. Dice che è stata una prostituta. Dice che l’ha ammazzata con la punta di un ombrello.

Che strano, penso.

Di film ne ho visti tanti, ma in nessuno c’è mai stato un assassino che va in giro a fare i morti con l’ombrello.

Che strano, penso.

Se uno fa il falegname, il farmacista, il giornalista, il pescivendolo, il facchino, il fabbro, l’agente immobiliare, l’impiegato, il giocoliere, il tabaccaio, il contadino, il cavolo che gli pare, mica lo dicono falegname, farmacista, giornalista, pescivendolo, facchino, fabbro, agente immobiliare, impiegato, giocoliere, tabaccaio, contadino o il cavolo che gli pare se c’è un arresto.

Che strano, penso.

Se uno è italiano mica lo dicono se c’è un arresto.

Una volta sì, lo facevano. Dicevano calabrese, leccese, siciliano, foggiano e napoletano, pure se uno era di Salerno, di Avellino o di Caserta. Adesso hanno smesso. Dicono romeno se è bianco o senegalese se è nero.

E se dicono romeno o senegalese, poi è dura che aggiungano che «è stato un incidente», non importa più quello che è successo.

E infatti nemmeno questa volta lo fanno. Passano i giorni e di questa ragazza che chiamano prostituta si viene a sapere che ha preso la condanna più dura di tutta la storia della Repubblica italiana per un omicidio preterintenzionale. Al bar, se dici che a questa – che la chiamano prostituta – se la so’ bevuta così male, ai politichi che rubbeno, allora, che toccherebbe da’ faje?; tutti fanno a gara pe’ aggiunge che ce vorrebbe ‘n sacco de benzina co’ li politichi, pe’ daje foco a tutti insieme alla mejo anima de li mortacci loro…

Quella che chiamano prostituta intanto ‘sta al gabbio.

Poteva fa la fine de Carpano, che il reato mica era tanto diverso, però a lui non je l’avevano scritto sul giornale che era romeno.

Carpano, sul giornale, non ce l’hanno proprio messo. La ragazza che chiamano prostituta sì, e lei era finita pure in televisione se è per questo. Infatti, una volta che è uscita in semilibertà, si è fatta una foto al mare mentre sorrideva e così se la so’ bevuta n’antra volta.

Aoh, ma che sei de coccio?

T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?

Prima gli italiani.

Sguattere & Guatemala

Che si parli di sguattere o di Guatemala, è normale che esista gente incapace di provare rispetto al di fuori di quanto previsto dai propri pregiudizi di classe, genere o razza (cioè a partire da diverse quantità di melanina presenti sulla propria pelle… bah). Per questo esistono i gulag.

(Cfr: “La Stampa” del 7 aprile 2016)

Il vero problema

Adesso il problema è che QUELLA fotografia fa discutere.
Quando il vero problema è come mai nemmeno QUELLA fotografia fa passare all’azione.
Quando il vero problema è come mai la piena consapevolezza dell’abominio in corso non produca un urto forte abbastanza da spezzare le catene dello sfruttamento e della miseria, annientando i veri autori di QUELLA fotografia.
Ma forse le cose non stanno così, dobbiamo crederlo.
Forse è vero quanto ha scritto Sandro Penna in una sua poesia: “Il mondo che vi pare di catene / tutto è intessuto di armonie profonde”.
Si intitolava Moralisti, la poesia di Penna. E forse parlava proprio di loro. Parlava di chi, dietro QUELLA fotografia, non vede le identiche catene dello sfruttamento e della miseria che ovunque uccidono nel silenzio e che negli occhi dei bambini e dei loro genitori non hanno alcuna paura di seminare sofferenza o umiliazione o morte.
Ma se è così la poesia di Penna parla anche di chi quelle catene prova a spezzarle tutti i giorni, ovunque si trovi, con tutto ciò che ha a sua disposizione.
Ecco. Sono quelle le armonie profonde.
Abbiatene paura, moralisti. Ne sarete svegliati.

Buonanotte piccolo.
Non dimentichiamo.
Non perdoniamo.

Buttati giù, Zingaro: la storia di Johann Trollmann, Tull Harder e della mancata epurazione dei nazisti in Germania

Buttati giù, zingaroS’intitola Buttati giù, zingaro, eppure il libro di Roger Repplinger (Edizioni Upre Roma, 292pp, 12 euro) è molto di più di una biografia dedicata a uno dei più forti mediomassimi della storia del pugilato tedesco. La ricerca di Repplinger, infatti: riesce a mettere in parallelo quella che è stata la nascita e la diffusione sia della boxe che del calcio in Germania; analizza il modo in cui, partendo dal basso il pugilato e allargando il novero dei suoi praticanti da ciò che fu un’originaria élite borghese il calcio, questi sport divennero un fenomeno di massa, rappresentando il terreno ideale per la propaganda nazionalista e, presto, nazista; offre un contributo importante alla storia del “porrajmos”, l’olocausto sinto e rom, e costruisce un discorso in cui l’abominio hitleriano conosce un nuovo – e quanto mai necessario – atto di accusa a partire dalle vite sia del pugile sinto Johann Trollman che del calciatore “ariano” Tull Harder: esistenze a proposito delle quali il punto di contatto offerto dalla pratica sportiva non può che rafforzare quella differenza insanabile che separa le vittime dai loro carnefici.

Cercando di procedere con ordine, le prime pagine di Buttati giù, zingaro hanno a che fare proprio con un campo di calcio. O meglio, con un piazzale sul quale, in quel di Braunschweig, in Bassa Sassonia, un pugno di adolescenti di buona famiglia si dannano a rincorrere un pallone di cuoio, l’ingrediente principale dell’Association, come ancora ai primi del Novecento veniva chiamato in Germania il gioco del calcio. Il debito linguistico, evidentemente, è nei confronti dell’Inghilterra e della sua «Football Association», patria di un pallone che, in terra tedesca, trova proprio a Braunschweig uno dei territori più fertili, considerando che qui una prima squadra cittadina gioca partite di pallone già nel 1874.

Mentre la Federcalcio tedesca (DFB) vedrà la luce nel gennaio del 1900, è proprio l’origine inglese dello sport a rappresentare uno dei maggiori ostacoli alla sua diffusione. In tempi di montante nazionalismo, infatti, tutto ciò che proviene da Oltremanica viene guardato in modo a dir poco con sospetto. E il calcio, in modo particolare, con la sua connessa violenza di calci e colpi di testa da esibire di fronte a un pubblico incline a rumoreggiare selvaggiamente, viene visto come l’antitesi della ginnastica, cioè l’unica pratica sportiva, rigorosamente non competitiva, atta a esaltare gli ideali di sobria compostezza reputati connaturati ai valori del patriota tedesco.

Insieme al discorso ideologico, il calcio è ostacolato da problemi di ordine materiale. Per comprarsi maglia, calzoni, calze e scarpini, un operaio specializzato ha bisogno di investire una settimana di stipendio e non avrebbe ancora comprato il prezioso pallone di cuoio con la camera d’aria interna, da ungere di grasso a lungo se si vuole sperare di ottenere qualche rimbalzo.

Il giovane Tull Harder, da questo punto di vista, potrebbe permettersi ben più di un pallone. Eppure il benestante signor Fritz, suo padre, punisce severamente le partite clandestine giocate dal figlio attaccante, dispensando con generosità frustate su frustate e vedendo nella pratica dell’Association una sorta di tradimento al buon nome del Kaiser e a quello della Germania.

Sempre in Bassa Sassonia, un altro ragazzino inizia ad alternare le scorribande per le strade dei quartieri popolari alla fascinazione sportiva. Si chiama Johann Trollmann, ma genitori e fratelli usano per lui il nome «Rukeli» che, in romanes, potrebbe essere tradotto come «alberello». Merito della folta chioma nera e, soprattutto, di una struttura fisica forte e slanciata, una qualità che il giovane Trollmann non mancherà di mettere a frutto iniziando a frequentare una delle prime palestre di pugilato. Uno sport che, a differenza del calcio, non richiede agli atleti investimenti iniziali, essendo che i pugni ognuno se li porta da casa, anche se, come il football, sconta di fronte all’opinione pubblica conservatrice la stessa «colpa» di non poter essere considerato di origine tedesca. Anzi, quantomeno a causa di una pratica che richiede di mettere allo scoperto il corpo molto di più di quanto già non facciano le braghe dei giocatori di pallone, la boxe finisce nello stesso calderone razzista in cui i buoni borghesi di puro ceppo germanico infilano i marinai statunitensi e la loro musica jazz, come la boxe considerata foriera d’istinti bestiali e passionalità di bassa lega.

Presto, in ogni caso, le cose sarebbero cambiate tanto per il calcio quanto per la boxe. Il gioco del pallone, a caccia di popolarità, si mette a disposizione dell’incipiente militarizzazione e, in breve tempo, si «germanizza». Mentre s’inizia a parlare di fussball, e non più di football, le origini del gioco vengono rintracciate in certe vetuste pratiche degli antichi abitanti delle terre teutoniche e le reminiscenze inglesi spariscono. Quando, nel 1911, la DFB diventa una branca dell’ultranazionalista Lega della Gioventù Tedesca, per dire goal si usa il termine rete, il corner è diventato angolo e, il giudice di gara, si chiama arbitro, non più referee. Persino i ruoli dei giocatori non sono più gli stessi. Ora c’è il difensore, non il centre back, l’attaccante, non il centre forward, l’ala e non il wing forward: non semplici traduzioni, ma la resa linguistica di uno sport che trova nella similitudine con la guerra la sua ragion d’essere in Germania. E non certo a caso, nell’annuario della Federcalcio tedesca del 1913 si arriva a leggere: «Il tempo avanza con fragore di armi, con pugno d’acciaio distrugge tutto ciò che è diventato marcio e vecchio e concima con sangue e ossa la nostra terra per una nuova semina. Fanfare di guerra salutano il progresso che spinge in avanti la ruota del mondo. E tuttavia anche nel nostro Paese gli stupidi gridano: guerra alla guerra. Sarebbe pericoloso se il loro messaggio avesse successo tra il popolo. Rinunciamo al duro giudizio delle armi e di conseguenza saremo distrutti. Rallegriamoci se nella terra tedesca cresce nuovamente la voglia della lotta e diamo il benvenuto al più grande profeta di questa nuova epoca, lo sport».

Per il calcio, insomma, il dado della militarizzazione è tratto in fretta. E in fondo, già del 1909, ci aveva pensato Heinrich di Prussia, ammiraglio nonché fratello di Guglielmo II, a istituire il Deutschlandschild, campionato di calcio riservato alla marina imperiale. Con simili credenziali, per Tull Harder diventa molto più semplice inseguire la propria passione sportiva e, vinta l’opposizione paterna, il rampollo sassone può indossare la casacca dell’FC Hohenzollern e, già nel 1909, quella dell’Eintracht, prima di passare all’Amburgo, compagine di cui il centravanti sarà presto il giocatore più rappresentativo e la bandiera.

Nel 1914 Harder vede riconosciuto il proprio talento debuttando in nazionale e, grazie alle sue doti di decatleta, in un momento in cui lo specialismo non è la prima caratteristica della pratica sportiva, avrebbe persino potuto partecipare alle Olimpiadi se lo scoppio della prima guerra mondiale non avesse fatto saltare i giochi del 1916. Harder, allora, parte volontario per il fronte, rispondendo oltre che agli ideali con cui è stato educato anche alla chiamata proveniente dalla sua Federazione: «Addosso al nemico!», scrivono i funzionari del calcio tedesco rendendo esplicita l’equazione sport-nazionalismo-guerra. «In questa lotta infuocata dimostrate di essere veri sportivi, animati da coraggio, ardimento e ardente amore per la Patria. Attraverso lo sport siete stati allevati per la guerra, perciò addosso al nemico senza tremare».

Da parte sua, nato solo nel 1907, il pugile Johann Trollmann non avrebbe potuto cogliere il senso di simili parole. E se anche il piccolo Rukeli ha appena otto anni quando gli capita di affacciarsi in una palestra (semi-clandestina) di pugilato, in quel momento la boxe non potrebbe certo essere sventolata come un vessillo patriottico considerando che la sua pratica, fino al 1919, è addirittura vietata dalla polizia. Con la caduta del divieto, la prima palestra di Trollmann può trasformarsi in una vera squadra: la BC Heros Hannover. Era il 1922, due anni dopo la fondazione della “Federazione del Reich tedesco per la boxe amatoriale” ma con appena un anno di anticipo rispetto al tentato, e famigerato, putsch di Hitler, datato 9 novembre 1923. Il particolare è determinante non solo in senso generale, considerato che nel breve periodo di detenzione scontato dopo il fallimento del colpo di stato, l’ex caporale austriaco scriverà “Mein Kampf” esprimendo la sua incondizionata approvazione nei confronti del pugilato: «Se tutta la nostra spirituale alta società non fosse stata educata esclusivamente a raffinate regole di buone maniere, e avesse invece imparato a fare a pugni», sostiene Hitler, «non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di protettori, disertori e furfanti del genere».

Il vento che spirava sulla boxe, insomma, stava cambiando. Ma mentre Trollmann metteva a punto un approccio personale a questo sport, rivoluzionando uno stile pugilistico fino a quel momento rigido e legnoso con tecniche che in futuro si sarebbero potute ammirare nuovamente nel repertorio di un Muhammad Alì, il pugile capace di «danzare come una farfalla e colpire come un ape», il nazionalismo si impossessava anche nel ring, arrivando a parlare di un “pugilato tedesco” che, naturalmente, non è certo ben disposto ad accettare i trionfi di Rukeli, non più un grande campione, ma soltanto uno «zingaro» agli occhi dei nuovi fanatici della purezza della razza.

«Se una disciplina sportiva deve servire all’addestramento militare, all’educazione paramilitare, non può in nessun modo essere “giocosa”, “piacevole”, o soltanto “divertente”», si tuona nel volume La boxe fondamento dello spirito di lotta (1935). Perché: «Lo Stato popolare non ha il compito di allevare una colonia di esteti pacifici e di degenerati fisici. Non ritrova il suo ideale di umanità in piccoli borghesi per bene o in vecchie vergini virtuose, ma nella pugnace incarnazione della forza virile».

Grazie a questa nuova impostazione, il pugilato, da disciplina negletta, diventerà obbligatorio nella scuola di Hitler, mentre a Trollmann servirà a poco vincere incontri su incontri, né, a salvarlo, potrà essere la sua scelta di entrare – alla ricerca di una maggiore tutela – nel Boxclub Sparta Linden, affiliato alla “Lega degli atleti lavoratori tedesca” (AABD), la federazione dello sport popolare che, in quegli anni, rifiutava qualunque contatto con la controparte borghese anche se, proprio come la Federazione imperiale, si opponeva al professionismo.

Trollmann, in realtà, diventa professionista nel 1929, radunando un folto pubblico di ammiratori, incantati, in un periodo in cui gli incontri di boxe tendevano a ridursi a un testa contro testa condito da un diluvio di pugni ai fianchi, dal suo modo di combattere imprevedibile, pirotecnico e, al tempo stesso, terribilmente efficace. Sarebbe stato proprio grazie a questo stile che, il 9 giugno del 1933, Trollmann, insieme ai suoi 71,3 chili di peso, riesce a surclassare il beniamino dei sostenitori del “pugilato tedesco”, Adolf Witt, ammesso a combattere per il titolo dei pesi medi malgrado un peso di 77,9, di molto superiore ai 72,574 fissati come limite della categoria. Trollmann è incontenibile, ma il razzismo non conosce neppure il limite della decenza, malgrado tutti i cartellini dei giudici assegnassero la vittoria al suo avversario è Witt a essere proclamato vincitore. Accade nella Bockbierbrauerei di Berlino, dove si sfiora il tumulto: i sostenitori di Trollmann minacciano di linciare i responsabili dello scandalo, così l’incontro, a posteriori, sarebbe stato annullato. A nessun costo, insomma, uno «gipsy», questo recitava la scritta che provocatoriamente lo stesso Trollmann recava stampata sui suoi pantaloncini, doveva poter vantare la vittoria del titolo di campione tedesco. Per Trollmann, già capace di sfidare i suoi detrattori nazisti comparendo completamente ricoperto di farina bianca nel corso di un incontro, è l’inizio della fine. Per sopravvivere deve accettare combattimenti improvvisati in luoghi sordidi, poi è la sua stessa vita a essere ogni giorno più a rischio. Il dramma incombe su Trollman come sui 130.000 sinti e sui 1585 rom che vivono in Germania durante l’ascesa di Hitler, giudicati egualmente «Zigeuner» dall’apposito “Istituto di ricerca sull’igiene razziale e sull’eredità biologica”. Ognuno di loro, è a malapena un numero. E il numero 9841 sarà quello che lo stesso Trollman riceverà nel 1942, quando viene arrestato e deportato nel lager di Neuengamme. È qui che succede un episodio che ha dello straordinario. Mentre le SS, infatti, riconoscono nell’internato il campione di pugilato, iniziandolo a usare come un fantoccio per i loro «allenamenti», all’interno del lager si muove un comitato clandestino: «Trollman», pensa André Mandryxcs, capo della resistenza interna, «deve essere strappato al divertimento dei nazisti». Il suo esempio è troppo importante per chi, anche nelle condizioni disumane del campo, si organizza per rispondere alla barbarie hitleriana. Grazie al coraggio degli uomini della resistenza, dunque, Trollmann è fatto passare per morto, scambiato con un altro prigioniero effettivamente deceduto e quindi trasferito in un altro campo, quello di Wittenberge. Ad aspettarlo, ancora una volta, ci sarà la maledizione di sapere usare i pugni. Perché sarà la colpa di mettere KO un feroce kapò ciò che, nel corso del 1944, costerà la vita al grande campione. Responsabile del suo omicidio, avvenuto a randellate, un individuo di nome Emil Cornelius: criminale di guerra responsabile di molte atrocità all’interno del campo, se la caverà con qualche anno di galera, tornando in libertà nel 1961. Una sorte non troppo diversa da quella a cui, nel dopoguerra, andarono incontro gli innumerevoli nazisti con le mani sporche del sangue versato da milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici.

Tra i criminali graziati a vario titolo dal tribunale di Norimberga e, quindi, dalla mancata denazificazione della Germania, anche il centravanti Tull Harder: perché è proprio nel campo di Neuengamme che le sorti opposte del pugile e del calciatore s’incrociano nell’indifferenza del massacro in corso. Mentre Trollmann, infatti, è solo un prigioniero tra i tanti, Harder, di professione assicuratore dopo una lunghissima carriera e la consolidata nomea di «gloria del calcio tedesco», fa parte di quella generazione convinta di dover addossare a un “nemico interno” la responsabilità della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Ed è, in effetti, un simile sentimento a spingere Harder ad arruolarsi nelle SS e, quindi, con il grado di Untersturmführer, a diventare comandante del lager in cui Trollmann si trova recluso.

Come tutti i nazisti, interrogato sulle sue responsabilità dai giudici di Norimberga, Harder si limiterà a balbettare di avere soltanto «obbedito agli ordini»… avessero avuto, simili individui, un briciolo della dignità e del coraggio dimostrato da un André Mandryxcs! Ma anche solo pensare di paragonare il sangue degli eroi alla squallida subumanità degli aguzzini è un insulto. Mandryxcs avrebbe trovato la morte nel corso di un bombardamento alleato quando la guerra era prossima a concludersi, Harder sarebbe stato invece arrestato nel 1945. Nel corso del processo tenterà di far valere il suo curriculum sportivo, le sue quindici presenze in nazionale e anche l’aiuto prestato durante la guerra a un ex arbitro ebreo. Condannato a quindici anni, sarà liberato già nel 1951, e, come scrive l’autore di “Buttati giù, zingaro”, Harder: «In occasione della sua presenza alle partite dell’HSV viene festeggiato dallo speaker e festeggiato dagli spettatori. (…) Riprende il suo lavoro con le assicurazioni e vive a Bendestorf. Il suo reddito è buono, riceve anche una pensione dallo Stato come ex Untersturmführer delle SS, a differenza dei sinti e dei rom che sono stati internati nei campi di concentramento. I tribunali tedeschi hanno stabilito che gli “zingari” non sono stati perseguitati dai nazionalsocialisti per ragioni razziali ma venivano deportati come criminali».

Un’amarezza sconfinata. Mitigata appena da un atto dovuto. Nel dicembre del 2003, infatti, i discendenti di Trollmann ricevono dalla Federazione una cintura da campione, mentre Rukeli si vede ufficialmente assegnare il titolo dei mediomassimi che gli era stato sottratto nel 1933. Ma se il combattimento di Trollmann, alla resa dei conti, può essere considerato un match lungo settant’anni, quello che oppone la verità e la giustizia alla volontà di cancellare con un colpo di spugna la storia nera del nazismo e del fascismo è ancora in corso. E troppi, ancora oggi, restano i debiti che non sono mai stati saldati.

Li chiameranno eroi. Gli sgomberi di Tiburtina e Ventimiglia, il movimento reazionario di massa e le forze di polizia

Non ho mai avuto familiarità né simpatia per quel mondo in divisa che, organizzato gerarchicamente, affronta in prima persona gli affari definiti «militari». Eppure ho cercato sempre di interessarmene, convinto che non sia affatto il caso che, a sinistra, si rinunci a costruire un punto di vista anche in tema di armamenti, esercito e ordine pubblico: a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il fronte – rigorosamente interno – su cui le forze armate e le loro articolazioni vengono impegnate con maggior rigore.

Malgrado non siano mancati, infatti, i territori sui quali dislocare truppe con le scuse più fantasiose (una su tutte: la «missione di pace»), è proprio pensando alla popolazione civile, al suo contenimento e alla sua repressione che, oggi, tendono a essere organizzati gli uomini e i mezzi a disposizione tanto del ministero della Difesa quanto di quello degli Interni. Uomini e mezzi che, al di là delle loro classificazione, e quindi che si parli di esercito, polizia, carabinieri o guardia di finanza, rispondono in ogni caso a una logica di tipo militare, ereditando da questa sia il potenziale offensivo che un certo sistema di valori, a cominciare dal modo in cui considerare, e quindi affrontare, il proprio nemico.

I vecchi soldati, per esempio, utilizzavano l’espressione «il campo dell’onore» per definire il servizio nelle forze armate. E se l’onore poteva essere tirato in ballo anche al cospetto della bassa macelleria delle passate guerre «tradizionali», ciò riusciva in virtù di un’idea di nemico inteso come soggetto da abbattere ma, al tempo stesso, da rispettare. Una controparte speculare alla propria, all’interno della quale poteva anche succedere di identificare se stessi. A rendere «onorevole» lo scontro subentrava l’idea di un avversario in grado di nuocere e con il quale il confronto si giocava disponendo di una capacità offensiva perlomeno paragonabile: dove i rapporti di forza risultano sproporzionatamente a favore di una delle due parti in causa, infatti, non può esserci nessun onore.

Da quando il principale nemico dei militari viene pensato non più in divisa ma in abiti civili, il discorso sull’onore si è fatto complesso. Quando un poliziotto sgombera una casa occupata, per esempio, picchia selvaggiamente donne, vecchi e bambini; come può pensare a se stesso in termini di onore?

E in questi giorni, mentre le nostre forze dell’ordine, alla stazione Tiburtina o a Ventimiglia, si lanciano all’inseguimento di mamme con i lattanti tra le braccia e prendono a schiaffi uomini inermi, come si riesce a instillare tra la truppa quel discorso sull’onore che ha sempre avvallato le atrocità connesse all’attività militare?

Sono domande come queste, in fondo, che stimolano lo studio e l’osservazione di chi porta la divisa, dei suoi codici, dei suoi comportamenti. Perché nella realtà non esiste un confine a partire dal quale ciò che è di pertinenza civile diventa invece una competenza militare. Al contrario, i militari stanno iniziando a mettere in pratica quello che viene costruito da ormai molto tempo nella vita di tutti i giorni: un processo di despecificazione morale e fisica di categorie di «nemici» in realtà molto antiche, ma mai come ora oggetto di un simile odio. Non passa giorno, infatti, in cui su tutti i giornali e in televisione non vi sia una serrata propaganda riservata ai migranti: Rom, rifugiati politici, persone in fuga, non si fa alcuna differenza. Ciò che viene seminato ha a che fare con l’ordine pubblico e con l’invocazione di misure sempre più draconiane per far fronte all’«emergenza» o, come dicono molti usando non a caso un termine militare, con l’«invasione». Allo scopo si mettono in circolazione notizie false (una fra tutte: la bufala degli 80 euro al giorno incassate dai migranti) e gli episodi di cronaca nera vengono ingigantiti a dismisura (come è stato fatto con i pirati della strada di Primavalle): sullo sfondo c’è una gravissima crisi economica, e anche questa viene strumentalizzata per sostenere come la via d’uscita consista nel limitare i diritti di chi viene da fuori, senza considerare come simili provvedimenti finiranno per abbattersi sulla vita di chiunque. Ecco, intanto, un «nemico interno» pronto per l’uso: talmente demonizzato da aver perso le sue prerogative umane agli occhi di chi lo guarda; così pericoloso da far apparire come «bravi ragazzi» le truppe di squadristi che si muovono ai suoi danni con il beneplacito dei regolari corpi di polizia (è accaduto anche a Ventimiglia!). Un soggetto talmente pervasivo e ramificato da chiamare in causa immediatamente altri «demoni» da abbattere: dai migranti agli occupanti di case e da questi agli attivisti dell’opposizione sociale il passo è breve. Non più lungo, a ben vedere, da quanto ancora impedisce alla coscienza di una pericolosa maggioranza silenziosa di sfociare in un movimento reazionario di massa di tipo fascista. Quello stesso movimento reazionario di massa che, per gli sbirri bravi a spaccare la testa di persone disarmate, ha già in serbo il nome di «eroi».

La fabbrica dell’odio. La propaganda razzista sulla stampa italiana oggi

Certo che non deve succedere davvero niente ad Alessandria. Anzi, qualcuno dovrebbe prendere un treno e andare a controllare se per caso, da quelle parti, non siano tutti morti. Diversamente sarebbe difficile capire come sia possibile prendere due ragazzini di otto e dieci anni che si accapigliano sullo scuolabus e trasformare l’accaduto in una notizia da sparare in prima pagina. A riuscire nell’impresa di spacciare come notizia il puro nulla è “Il Piccolo” grazie a un “articolo”, firmato da tale Marcello Feola, che non si limita, con la sua banalità, a buttare altro inchiostro nell’indistinto mare del “chi se ne frega”, ma si contraddistingue per un’operazione di propaganda razzista degna… dell’Italia di Renzi, considerando che questi sono i tempi e questo è il paese in cui (soprav)viviamo.

Senza alcun ritegno, infatti, il sopracitato Feola scrive che: “Una bimba di 8 anni è stata picchiata da un compagno di scuola extracomunitario – di due anni più grande – sullo scuolabus”.

La “vittima”, quindi, secondo il Feola è una “bimba”, mentre colui che l’avrebbe colpita non è ugualmente un bambino, ma un “extracomunitario”.

Già questo, come evidente, basta ad innescare il meccanismo principe del razzismo: una linea di demarcazione dove sono sufficienti due parole per concentrare da un lato tutta l’umanità – la “bimba” – spogliando, al contrario, di ogni identità e di ogni termine utile a suscitare empatia ciò che viene artificiosamente dipinto come bestiale e pericoloso, non più il “bambino”, quindi, ma “l’extracomunitario”.

Non contento, il Feola rincara la dose dando la parola alla madre della “bimba” (l’extracomunitario, ovviamente, viene privato di ogni diritto di parola: per lui non ci sono familiari, amici, nulla; sola un’indistinta bestialità evocata dai gesti), che affranta esclama: “Come è possibile che sia potuta accadere una cosa del genere?”.

Lo stupore, ovviamente, dovrebbe riguardare ben altro: chiunque sia stato bambino e, con il passare degli anni, genitore, avrà un bagaglio sterminato di aneddoti per confermare come le baruffe tra ragazzini siano sempre state all’ordine del giorno. Fatti che in passato venivano affrontati “dai grandi” cercando di rispettare il buonsenso secondo cui le questioni tra ragazzini facevano bene a restare tra ragazzini, ora finiscono in prima pagina. E il giornale di Feola, per trasformare l’incidente in incitamento all’odio, abbandona il linguaggio colloquiale con cui inizia l’articolo per cedere la parola, strada facendo, alla terminologia medica, suffragando implicitamente grazie alla “scienza” la bestialità dell'”extracomunitario”: cioè di un bambino di dieci anni.

Si cita, quindi, il referto del pronto soccorso: “Trauma facciale e nasale – si legge – con infrazione del terzo medio delle ossa proprie del naso”; tutte parole senz’altro più paurose di quanto non sia il senso implicito in un banale cazzotto. Un atto che comunque non è certo destinato a restare impunito. Infatti, come si premura di farci sapere “Il Piccolo”, il certificato medico è “stato inviato d’ufficio, come sempre accade quando si tratta di atti di violenza che vedono coinvolti i minori, all’autorità giudiziaria”. Anche se poi, i gestori dello scuolabus, non hanno certo avuto bisogno di aspettare l’esito di un processo per emettere la loro condanna: “L’azienda dei trasporti, intanto, ha escluso dal servizio il ragazzino autore dell’incredibile gesto”.

Ad essere “incredibile”, ovviamente, è il fatto di riuscire ad accettare questo modo di fare giornalismo e di fabbricare le notizie. Un modo che, più che ad Alessandria – una città viva e vegeta, dove, per esempio grazie alla pratica delle occupazioni abitative, si lotta per i propri diritti mettendo in discussione lo stato di cose presenti – fa pensare direttamente al Ventennio e, più che a “Il Piccolo”, rievoca il modo di scrivere dei redattori de “La difesa della razza”. E, come sempre, citando M. L. King, a fare paura non sono le parole dei malvagi come il giornalista che ha scritto questo pezzo. Quello che spaventa davvero è il silenzio di chi di fronte a simili strumentalizzazioni dei bambini ha ancora la faccia di definirsi onesto.

 

Come si dimostra di essere razzisti: i video di Repubblica.it

Scelta davvero “progressista” quella della Repubblica.it. Pubblicare un video ripreso dalle telecamere di sicurezza a Napoli e intitolarlo “Scippo nei vicoli di Napoli. Solo un immigrato difende la vittima”.

A parte che, guardando il video:

http://video.repubblica.it/edizione/napoli/napoli-scippo-nei-vicoli-interviene-solo-l-immigrato/154993/153493?ref=HREC1-3

la cosa non è nemmeno vera. Il ragazzo di cui parla Repubblica effettivamente interviene, coadiuvato però da diversi passanti che si fermano a dare una mano alla signora trascinata per terra dal motorino dello scippatore. Perché descriverlo come “solo”?

Perché i napoletani presenti nei vicoli sarebbero necessariamente ladri e scippatori?

Il punto, oltretutto, è un altro. Per quale motivo, infatti, un “immigrato” che aiuta una signora scippata dovrebbe fare notizia?

Perché gli immigrati sono tutti ladri?

Perché gli immigrati non sono in grado di seguire impulsi umani come quello di dare un aiuto alle persone in difficoltà?

O è semplicemente il razzismo diffuso, nella società come e soprattutto nella testa dei giornalisti, a trovare eccezionale la semplice correlazione tra un immigrato e l’atto di aiutare?

Il ragazzo, tra l’altro, è descritto come nell’atto di “chiedere l’elemosina”… anche se sul video, quello che si può evincere, è che sta seduto, non che chiede l’elemosina: come mai è descritto così?

Perché gli immigrati, se non sono ladri, devono almeno essere accattoni?

Senza considerare che a Repubblica.it si potrebbe chiedere come fanno a dire che il ragazzo del video sia effettivamente un migrante. Che sia nero, infatti, vuol dire poco: non sanno nulla i signori giornalisti delle decine e decine di migliaia di ragazzi di qualunque colore effettivamente nati qui?

Persino la correlazione, data come ovvia, nero=immigrato è intrinsecamente razzista: la voce di un giornale che nega lo ius soli, la tematica delle seconde generazioni e, più semplicemente, il dato di fatto di una società meticcia. E se queste osservazioni risultassero troppo severe, basta dare, poi, un’occhiata a un altro video messo in evidenza sulla stessa Repubblica.it:

http://video.repubblica.it/edizione/milano/milano-aggredisce-il-rivale-con-una-mannaia-in-centrale/155050/153549

“Milano, aggredisce in centrale il rivale con una mannaia”, è il titolo delle immagini. Con una didascalia che subito specifica: “Un algerino arrestato per il tentato omicidio di un tunisino”.

Ecco. Fermo restando che dell’assalitore Repubblica.it si premura di specificare come fosse “irregolare”, “in stato di alterazione alcolica” e “con precedenti”, c’è da dire che le aggettivazioni di carattere etnico sono come le giustificazioni. Quando vengono specificate senza essere richieste sono di per sé un grave indizio di colpevolezza. E la “colpa” in cui indugiano i nostri mezzi di informazione da sempre è sempre la stessa: il razzismo.

PS: tornando al video di Napoli, il ragazzo di cui parla Repubblica.it sembra, effettivamente più degli altri passanti, intenzionato a bloccare lo scippatore in attesa della polizia. Difficile prevedere il proprio comportamento se non ci si mette alla prova dei fatti. Però credo che personalmente avrei fatto come i passanti di Napoli e, soccorsa la signora, lo scippatore – fatti salvi ulteriori impulsi violenti che potrebbero derivare dall’avere a che fare con amici e parenti nel ruolo di vittime – effettivamente lo avrei lasciato andare via. Nemmeno lo scippatore, infatti, si sarebbe meritato di essere arrestato dagli assassini di Federico Aldrovandi, recentemente riammessi in servizio dopo le sentenze di condanna:

http://www.adnkronos.com/IGN/Regioni/EmiliaRomagna/Caso-Aldrovandi-il-fratello-di-Federico-insensato-ritorno-in-servizio-dei-poliziotti_321168476698.html

Evidentemente, però, anche io sono vittima di quel diffuso pregiudizio popolare secondo il quale la giustizia non si ottiene né dai tribunali né dalla polizia.

 

Il feticismo della guardia: guerre, uniformi e altre oscenità

C’era una volta un bastimento carico di uomini neri. Uomini razziati nel cuore del continente africano, legati uno all’altro con un cappio stretto intorno al collo, segregati nel buio delle stive, torturati e malnutriti: se sopravvivevano diventavano schiavi. Carne fresca che al mercato di Mkunazini si vendeva un tanto al pezzo: un dollaro per un bambino, dodici per una bella ragazza, di più per un uomo grosso e forte. Tutto questo, come ricorda il reporter Ryszard Kapuscinski (Ebano, Feltrinelli) succedeva a Zanzibar, l’isola maledetta, la “stella nera”, in pratica solo uno dei luoghi dove i mercanti portoghesi (e altri con loro e dopo di loro), grazie all’approvazione dei re e alla benedizione di dio, smerciavano gli schiavi diretti alle piantagioni degli Stati Uniti o del Brasile: schiavi che i mercanti chiamavano semplicemente “ebano”, sottolineando, con questo nome, come gli uomini resi oggetto del loro commercio non fossero altro che cose.

Ridotte a cose, le esistenze degli schiavi vennero condannate al lavoro brutale e coatto mentre, le manifestazioni delle loro menti, furono umiliate e negate. Fu allora, infatti, che le visioni del mondo e i saperi antichi e preziosi degli uomini africani resi schiavi vennero passate al vaglio della teologia cristiana e dello scientismo razzista anche se, ancora una volta, furono i mercanti portoghesi a trovare un nome ai comportamenti rituali e alle raffigurazioni di divinità che, derise in quanto reputate primitive e irrazionali, vennero indiscriminatamente archiviate sotto la voce “feticismo”. Così, quegli oggetti ai quali le popolazioni locali rivolgevano una particolare devozione, divennero “feticci” mentre i “feticisti” sarebbero stati gli adepti di un culto che i primi missionari, considerandolo frutto del demonio oppure esempio di degradazione umana, provarono con zelo a sradicare.

Feticismo, colonizzazione, cosificazione


Dal gergo dei mercanti
, attraverso le relazioni compilate da missionari e da viaggiatori, il termine portoghese “fetiço” venne tradotto in tutte le lingue europee. L’etimologia della parola, derivata dal latino “factitius” (artificiale), lasciava intendere che, di fronte al feticcio, si aveva a che fare con un oggetto prodotto mediante un procedimento tecnico, un procedimento che trasferiva all’oggetto il controllo di quelle qualità che la natura offre all’uomo come incerte: la fertilità della terra, la clemenza del tempo atmosferico, la capacità di procreazione.

Con questa accezione, il feticismo entrò a far parte della scienza delle religioni nella seconda metà del XVIII secolo grazie alla fortunata opera del magistrato francese Charles De Brosses il quale, raccogliendo le riflessioni operate da Hume nella sua Storia naturale della religione (1757), scrive Sul culto degli dei feticci o parallelo dell’antica religione egiziana con la religione attuale della nigrizia (1760; trad. it. Bulzoni, 2000), un libro che trasforma quelle che erano state le visioni preconcette di osservatori occidentali in un sistema religioso di senso compiuto e che, sostenendo una teoria evolutiva della storia umana, colloca tale sistema religioso sul gradino più basso dello sviluppo morale e materiale: quello dell’infanzia dell’umanità.
Stigmatizzando l’impostazione di De Brosses, l’etnologo Marcel Mauss (1907) negò ogni validità scientifica al concetto di feticismo, contribuendo in maniera decisiva a collocare la storia di questa idea sul versante del malinteso.

04.Feticcio1Un malinteso che, se riletto attraverso il Discorso sul colonialismo del poeta martinicano Aimé Césaire (1955; trad. it. Lilith, 1999), rende il feticismo un miraggio, un pregiudizio nato all’interno di rapporti – quelli tra colonizzato e colonizzatore – che: «trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurma, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione». Poiché tra colonizzatore e colonizzato, continua Césaire: «c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia…»; allora, conclude il poeta: «Adesso tocca a me porre un’equazione: colonizzazione=cosificazione».

Uomini e cose

Rinchiudendo le credenze degli indigeni africani tra le sbarre della categoria feticismo, i colonizzatori crearono una realtà, quella di un’umanità stupida e barbara, e, allo stesso tempo, prescrissero i modi con cui affrontarla, suggerendo la necessità di un domino territoriale che sottraesse ai suoi legittimi abitanti tutte quelle ricchezze che essi, nell’opinione degli stessi colonizzatori, non sarebbero stati capaci di sfruttare in maniera razionale.

Certo è che, esplorata alla luce di questa prospettiva, la riduzione al feticismo delle culture africane suona come grottesca e paradossale. “Feticiste”, infatti, non sono tanto le credenze dei gruppi umani che attribuiscono una forza magica e sacrale agli oggetti del loro culto. Feticisti, piuttosto, sono i comportamenti degli stessi colonizzatori che, nei confronti degli indigeni, operarono quel “doppio scambio” che nel suo Fascino. Feticismo e altre idolatrie (Feltrinelli), il filosofo Ugo Volli riconosce come la faccia buia dei rapporti di potere occultati dal fascino ambiguo delle cose. Perché, proprio nel comportamento dei colonizzatori, vediamo il modo in cui: «ciò che dovrebbe essere soltanto una cosa inerte» – la frusta: simbolo dei colonizzatori e del loro ruolo – «si presenta con i caratteri più intensi della vita e del potere,» mentre: «ciò che è vivo e riguarda la persona» – gli indigeni soggetti alla colonizzazione – «risulta ridotto a puro oggetto, cosa fra le cose».

03.Feticcio9Attraverso le riflessioni di Ugo Volli, in sostanza, vediamo come il feticismo degli schiavisti europei si abbatta sui popoli africani attraverso il superamento di un confine: quello che separa gli uomini dalle cose. La schiavitù, da questo punto di vista, è un’autentica “deprivazione dell’umano”, una pratica che, se ebbe modo di sfogare la sua ferocia in oltre quattrocento anni di impunito esercizio sul territorio africano, allo stesso tempo non garantì alla placida Europa l’immunità dai terrificanti effetti di ritorno del mostro che essa aveva creato. 

Arriviamo, così, ai campi di concentramento nazisti e, risalendo la corrente del dramma fino alla contemporaneità, tocchiamo i campi che, nella ex Jugoslavia, sono stati allestiti nel nome della pulizia etnica e sulla scia di quell’azione disumanizzante che l’Europa praticò in Africa senza poter fare a meno di insegnarla a se stessa. «E così, un bel giorno,» commenta Césaire: «la borghesia viene svegliata da un formidabile contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti». Quello che veniva preparato, attraverso il nazismo, era il tragico epilogo di una volontà di dominio fondata, come nel caso della colonizzazione, sull’elezione di una parte del genere umano a razza eletta; l’abbattimento di ogni distinzione tra l’uomo e l’oggetto era ciò che, nella schiavitù come nel nazismo, sarebbe stato celebrato.

Quando il potere indossa l’uniforme

Numerosi intellettuali hanno riflettuto sulla barbarie del nazifascismo e sulla crudeltà della colonizzazione e della schiavitù rinvenendo, in questi tristi periodi storici, l’inserimento coatto di interi popoli e intere culture all’interno delle strutture di uno spietato dominio sado-masochista. Basti ricordare, a tal proposito, il terribile Doveri di violenza, dello scrittore maliano Yambo Ouologuem o, per restare tra i militari, il pluricensurato Salò di Pier Paolo Pasolini. Il film di Pasolini, in maniera particolare, mette in scena una sorta di iconografia funebre che ha nelle impeccabili divise, negli stivali tirati a lucido, nelle lucenti decorazioni di guerra, i suoi luoghi centrali. La sbirraglia nazifascista, d’altra parte, ha curato in maniera ossessiva le uniformi, nascondendo dietro le croci al merito l’incredibile villania di massacri che, spesso e volentieri, vennero perpetuati ai danni dell’inerme popolazione civile.

02.Feticcio6La questione delle uniformi, tra quelle sollevate dai problemi della guerra, potrebbe sembrare una materia futile e scontata essendo, le uniformi, un semplice mezzo di distinzione, un modo per distinguere un esercito da un altro. Oltre questa considerazione tecnica, però, lo studio della storia degli eserciti europei mostra come, le uniformi, furono tutt’altro che la prima preoccupazione degli stati nel momento in cui questi equipaggiavano i loro eserciti. Al contrario, il problema dell’uniformità dell’esercito – come il problema del feticismo – si pose come tale soltanto nel corso del XVIII secolo e, come mostra la storica Sabina Loriga in un libro (Soldati, Marsilio) dedicato al più antico esercito italiano, quello piemontese: «ci vollero molti anni perché la divisa, distribuita per la prima volta nel 1671, diventasse un elemento caratteristico e insieme scontato della vita militare». 

Ecco, allora, i pantaloni bianchi, il giustacuore azzurro, la sciarpa azzurra intrecciata d’oro: «anche grazie a tanta armonia cromatica,» spiega la Loriga, «la divisa permetteva di segnare l’uniformità della truppa: fili di corpi della stessa altezza, visi e baffi uniformi».
Attraverso l’azione di questa nuova politica militare, in sostanza, il difforme elemento umano che compone l’esercito viene eliso dall’uniformità delle nuove divise, simulacri del potere di vivere o, come direbbe Foucault, di respingere nella morte. 

Un’operazione feticista in piena regola, dunque, quella che attraverserà le caserme del XVIII secolo e che si soffermerà sui corpi dei soldati per addomesticarli alle esigenze di una nuova gerarchizzazione sociale che, se restituirà al mondo il soldato in uniforme, segregherà il soldato nei cordoncini e nelle mostrine della sua stessa divisa, lo distinguerà in maniera irriducibile dal civile e lo preparerà, già nel corso del XIX secolo, a rendersi responsabile dei più grandi massacri mai ricordati nella storia dell’umanità. Massacri che, in massima parte, saranno destinati ad abbattersi sulla popolazione civile: uomini, donne e bambini privi di quei “caratteri intensi della vita e del potere” che “il feticismo della guardia” toglie alla gente comune e riconosce all’uniforme. 

Il fascino della divisa, il feticismo della guardia

«Anche le donne che sostengono di non badare che al fisico d’un uomo,» scriveva Proust ne La strada di Swann, «vedono in quel fisico l’emanazione di una certa vita. È la ragione per cui s’innamorano dei militari, dei pompieri: l’uniforme le rende meno esigenti per il viso; credono baciare sotto la corazza un cuore diverso, avventuroso e dolce».

Tuttavia Anna, una giovane ragazza moldava, non si è innamorata di nessuno, semplicemente: «Per cento dollari potevano fare di me ciò che volevano, arrivavano ubriachi a qualsiasi ora, pagavano e facevano di tutto. Volevo chiedere aiuto ad uno dei tanti soldati che mi hanno portata a letto ma loro pagavano, volevano solo una cosa e non ascoltavano» (Dall’Avvenire del 2.2.2001). I soldati di cui parla Anna sono i militari della Kfor, la forza Nato che deve avere una bizzarra idea della pace visto che, la sua presenza nei Balcani, più che alla causa della pace ha giovato, fin’ora, alla causa dello sfruttamento della prostituzione.

Come i loro colleghi della Kfor, anche alcuni militari del contingente italiano di stazza a Massaua, impegnati a garantire la difficile pace tra Etiopia ed Eritrea, sembrano vivere “il fascino della divisa” che indossano limitandosi ad utilizzare l’Altro (il civile) come una cosa: coinvolti in un giro di prostituzione infantile che prevedeva orge con bambine di 10, 11 anni sono stati privati della libera uscita per punizione. D’altronde, protestava il funzionario Farkhan Haq: «quando nella scorsa primavera è scoppiato un caso simile (…) e che coinvolgeva soldati del contingente olandese, la commissione era formata esclusivamente da funzionari delle Nazioni Unite» (Da La Repubblica del 25.08.2001).

Funzionari che, negli ultimi tempi, si sono trovati a fronteggiare una serie documentata (oltre 1500 testimonianze) e agghiacciante di accuse che puntano il dito contro i campi profughi e contro i caschi blu in missione di pace in Africa Occidentale. Questi barattavano il cibo, le tende e gli altri aiuti umanitari con il sesso dei loro spesso piccolissimi assistiti: «L’indagine ha anche appurato le cifre pagate dagli operatori: una ragazza liberiana ha ottenuto 10 centesimi di euro; in Guinea alcuni caschi blu avrebbero pagato 5 euro» (Nota UNHCR-Save the Children del 27.2.02).

Cifre, queste pagate dai militari moderni, che farebbero invidia a un negriero di tre secoli fa, segno che il feticismo della guardia concede soltanto quel tanto che basta alla sopravvivenza dei mezzi di riproduzione (del proprio piacere) e in questo, tale forma di deprivazione dell’umano, non si discosta dal feticismo delle merci di cui parlava Marx quando criticava l’attitudine capitalistica a presentare i rapporti tra le persone e le classi sociali, non come rapporti tra uomini, ma come rapporti tra cose. 

Rapporti che negli ultimi tempi sono tornati a stabilire limiti sempre più angusti all’essere umano visto che non si fanno scrupolo di trasformare nelle cifre statistiche previste dalle “guerre preventive” a cui si demanda il compito di “esportare la democrazia” quelle che, nella realtà, sono persone morte nel corso delle sviste di “bombardamenti chirurgici” dei quali si racconta che sono stati dolorosi ma inevitabili. Inevitabili proprio perché questo fa il feticismo della guardia: dispensa guerre, uniformi e altre oscenità.

Su Belleville. E sugli “stranieri” come “risorsa”

Nei panorami di Parigi spuntano, come le cime bianche delle montagne, i profili metallici di palazzi altissimi. Palazzi grandi come città, costruiti in quartieri sempre più lontani dal centro: in luoghi dove la vita è così dura che solo gli ultimi arrivati trovano, quasi ricorrendo a uno sviluppato istinto di sopravvivenza, la forza per abitarci

Favole: come quelle che i marinai raccontavano sul paese dove anche le porcilaie erano pavimentate con l’oro zecchino. O come quelle su esseri giganteschi e con un occhio solo, avidi mangiatori di uomini. Nessuno, tra quelli che conosco, è mai stato tanto vicino ai profili metallici di questi grattacieli da poter vedere, con i suoi occhi, la vita delle persone che vi abitano: hic sunt leones… si dice che in questi palazzi giganteschi, i parigini li chiamano cité, non si avventuri nemmeno la polizia. Le automobili con le sirene blu sarebbero bersagli troppo facili, mezzi assolutamente inadatti per avere la meglio su di un fitto lancio di pietre e bottiglie. Se gli arabi la fanno troppo grossa che ci pensi la legione straniera, naturalmente in tenuta antisommossa.

Eppure gli stranieri sono una risorsa. Appiccicato sulle pareti delle cité dai pubblicitari di una grossa catena di hard discount, il campione del mondo Zinedine Zidane dice: “J’adore vous faire gagner“.

Anche David Copperfield era riuscito ad attraversare l’inferno a testa alta, era passato dalla strada alla buona società solo grazie alle proprie capacità e senza commettere reati. Ma nessuno gli aveva chiesto di fare gol al Brasile per questo.

Ci vuole la fame per farsi strada nella vita. Ma, anche senza fare strada nella vita, la fame resta lo stesso. Per questo ci sono gli hard discount. Anche chi non fa strada nella vita ha il diritto di rappresentare una fetta di mercato.

In un café di Belleville ascolto un avventore: “Candela, Ibou, Trezeguet, Zidane, Lizarazu… poi ci si lamenta che i vivai francesi sono in crisi.”

Zinedine Zidane sorride impacciato. Di hard discount come quelli a cui lui fa la pubblicità ne hanno aperto uno pure qui a Belleville. Sì che in questo quartiere puoi ancora trovare qualche vecchio che dice “oggi devo andare a Parigi” se per caso deve prendere la metropolitana e scendere dalle parti degli Champs Elysées.

Ecco come fanno gli stranieri a diventare una risorsa: le nuove e più estreme periferie delle cité riscattano la vecchia periferia francese. Donano dignità borghese a vecchi quartieri malfamati, le location ideali per film e libri dedicati ai profumi delle spezie. I nuovi casermoni, intanto, con la loro bruttezza estrema, trasformano i vecchi e malandati palazzi di edilizia popolare in piccoli gioielli. Case, da qualche anno, abitate da pittori, studenti, filosofi, scrittori e turisti a caccia di autenticità. Flaneurs… adesso vengono tutti quanti qui a Belleville. E si godono l’integrazione culturale.