Esperienze autogestite all’insegna dell’antirazzismo e dell’antifascismo: Sportpopolare.it alla Festa Rossa di Lari (Pisa)

Sportpopolare.it alla Festa Rossa di Lari

FESTA ROSSA DI LARI (Venerdì 19 agosto – ore 18)

SPORT POPOLARE: esperienze autogestite all’insegna dell’antirazzismo e dell’antifascismo.

Per superare la passiva fruizione sportiva come spettacolo e opporsi alle logiche del profitto. Costruire fenomeni di aggregazione e insorgenze controculturali per un nuovo protagonismo partecipato delle masse.

Con Nicolò Rondinelli che presenta “Ribelli, sociali e romantici! Fc St. Pauli tra calcio e resistenza“; interverranno Lenny Bottai (Palestra SPES FORTITUDE), Centro Storico Lebowski (FI), Spartak Apuane (MS), Palestra Popolare Valerio Verbano (Roma), Palestra Popolare La Fontina (PI); coordina Cristiano Armati (Sportpopolare.it).

Valerio: il tuo sapere, la nostra vita

Nel decennale della morte di Valerio Marchi, a fronte delle innumerevoli iniziative a lui dedicate e, soprattutto, alla stretta attualità del suo lavoro, si può davvero parlare di una «scomparsa» del grande «sociologo di strada» romano?

Valerio Marchi in via dei Volsci

Polignano a Mare, 22 luglio 2006. Sono passati dieci anni da quel giorno. Quando, dal comune pugliese, la notizia iniziò a girare tra quel pugno di amici più intimi per allargarsi ai tanti che lo avevano conosciuto e quindi a quelli, ancora più numerosi, che lo avevano letto o sentito parlare. «È morto Valerio», diceva quella voce maledetta. E si riferiva a Valerio Marchi, l’autore di Teppa, il sociologo che aveva curato la pubblicazione di Ultrà, il libraio che aveva aperto e gestito per anni la «Libreria Internazionale» a San Lorenzo, il grande tifoso della Roma, il vecchio skin esperto di ska e di punk, il compagno antifascista, l’autonomo che aveva saputo cogliere e vivere in prima linea la sete di rivolta che albergava negli stadi e che, agli stadi e ai tifosi, era tornato a rivolgersi in un passo della sua famosa Lettera agli ultrà, per ricordare come «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».

Per sviscerare il contenuto profondo di questa sola frase non basterebbero decine di pagine né, le implicazioni contenute nel passo, potrebbero essere sciolte da un’unica esperienza di osservazione partecipante o da qualche mese di ricerca sul campo. E intanto altri spunti, altri contenuti disseminati nei libri di Valerio o affiorati grazie alle interviste concesse, continuano a spiegare e a offrire spunti di riflessione, invitando chi scrive oggi di Marchi e del suo lavoro a evitare accuratamente di declinare al passato la sua memoria, per affrontare piuttosto la stretta attualità, e di conseguenza il futuro, di cui l’opera di questo autore resta formidabile interprete e profetica anticipatrice.
Oggi, infatti, se esiste un luogo in cui il senso dei libri di Valerio Marchi può essere tradito, questo è il territorio della retorica nostalgica, del rimpianto rispetto agli “anni d’oro” del movimento ultrà e/o dei tempi in cui la lotta di classe e il conflitto metropolitano incendiavano cuori e piazze. Perché se questi sono i temi prediletti da chi «ha gettato l’ancora», leggere Valerio Marchi vuol dire, al contrario, essere dalla parte di chi «ci prova ancora»: a cambiare l’esistente, certamente, ma intanto a riappropriarsi di una lettura del reale che sia in grado di sbriciolare le lenti con cui “il nemico” impone i suoi discorsi, fonda i suoi poteri e legittima saperi addomesticati a usare e a consumare categorie utili soltanto a reprimere le insorgenze, sempre e comunque in costante corso.

Ecco, oggi, con i libri di Valerio sottobraccio, bisogna andare a Fermo, nelle Marche, e confrontarsi con il luogo in cui Amedo Mancini ha prima insultato una donna al grido di «scimmia africana», poi ammazzato il marito accorso in sua difesa. Soltanto la gente della strada, infatti, potrà avere i titoli necessari a contrattaccare prima chi ha osato definire Mancini «ultrà» e non «fascista» e poi, quando i servi del potere già gustano la loro vittoria ammirando gli striscioni con su scritto «siamo tutti Amedeo Mancini» apparsi sui muri di diverse città italiane, continuare a combattere per dire come no, non siamo affatto tutti Amedeo Mancini: il campo dell’onore in cui iscrivere valori degni di essere accettati nella strada come negli stadi, infatti, ingaggia la sfida con avversari meglio armati e, orgogliosamente, rivendica «preferisco essere sconfitto / nudo addosso a un muro / piuttosto che festeggiare la vittoria / protetto da uno scudo»; ci parla, il campo dell’onore in cui nascono gli eroi della strada, di un Carlo Giuliani e del suo estintore, da scagliare contro maniche di infami in divisa armati di pistola, e non certo di volgari aggressori di donne e rifugiati; ci parla, il campo dell’onore dove la working class mette in gioco le sue passioni, di una linea dove la parola d’ordine «divisi dai colori, uniti dai valori», è in grado di trasformare le scaramucce tra tifoserie avversarie in orde pronte a sfondare i cordoni dietro cui gli interessi padronali difendono se stessi: questo, e non altro, significa interpretare fino in fondo il rispetto per il proprio territorio e la propria appartenenza: «my class my pride», e dunque «con il razzismo non c’avete fregato / la colpa è del padrone / e non dell’immigrato».
Ancora, pensando a Valerio Marchi, vale la pena aggirarsi furenti tra le macerie dello scontro frontale tra i due treni che viaggiavano sul binario unico della linea Andria – Corato per cogliere un cambiamento epocale. Nel paese che a suo tempo non è stato in grado di interpretare, a livello collettivo e fino in fondo, le implicazioni politiche delle stragi di Ustica e del Cermis, e che dietro gli innumerevoli assassinii di massa provocati periodicamente dalle alluvioni, figlie delle tangenti pagate al dissesto idrogeologico dei nostri territori, si è troppo spesso limitato ad allargare le braccia con cattolica rassegnazione rispetto a una presunta volontà del «fato»; ebbene nel paese che in innumerevoli occasioni, quelle stesse braccia, le ha allargate anche per archiviare il continuo stillicidio di morti sul lavoro trincerandosi dietro l’ipotesi in fondo tranquillizzante della «disgrazia», questa volta, tra Andria e Corato, non ha più allargato le braccia, ma ha serrato i pugni, e ha puntato direttamente contro il governo la sua indignazione, parlando apertamente, e come è giusto, di «strage di stato».
Tra gli stessi lettori di Valerio Marchi, tra l’altro, soltanto una minoranza sa come sia proprio questo il campo in cui l’originalità del pensiero dell’autore – vale a dire la capacità di scardinare le cornici che impediscono di allargare l’analisi del contesto in cui prendono corpo i fenomeni di natura politica e sociale – abbia avuto modo di forgiarsi ed esercitarsi. Ci riferiamo, in particolare, al volume La morte in piazza, quando Valerio Marchi, indagando sulla strage di Brescia, fu tra i primi a interpretare correttamente lo stragismo fascista, inserendolo all’interno di quella «strategia della tensione» che tanta parte ha avuto e, in modalità diversa continua ad avere, nella storia contemporanea italiana.
Strategia della tensione, dunque. E moral panic, come Valerio Marchi spiega egregiamente in Teppa, raccontando del modo in cui, lungo tutta la storia dell’urbanizzazione e quindi dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, si siano sedimentate, intorno alla categoria del «giovane», status imperativi in grado di isolare, reprimere e condannare anticipatamente qualunque dissenso, sia questo insito nella condizione oggettiva dei soggetti o esplicitamente espresso da una loro esplicita presa di parola. In questo senso, quando si dice «giornalista terrorista» non si recita uno slogan, ma si scatta una fotografia se, guardando ancora ai fatti che si continuano a produrre a Fermo, a margine dell’arresto di Martino Paniconi e Marco Bordoni, accusati di una serie di attentati ai danni di strutture ricollegabili all’accoglienza dei migranti, assistiamo ancora una volta all’uso del termine «ultrà», collegato questa volta alla parola «anarchico».
Paniconi e Bordoni, dunque, sarebbero «ultrà» come Mancini, ma in più anche «anarchici». Il termine «ultrà», in questo contesto come in quello di Mancini, serve a ricondurre i fatti sul terreno della «devianza», impedendo una corretta visuale politica degli stessi. L’ultrà, in fondo, come spiega Marchi in Teppa, è uno dei folk devil per eccellenza, ma in altre occasioni, con il medesimo intento di spoliticizzare l’interpretazione dei fenomeni negando la conflittualità sociale connaturata agli stessi, altre categorie vengono in soccorso degli osservatori pronti ad addomesticare la realtà. Così, per esempio, quando Davide Cesare «Dax» e Renato Biagetti furono assassinati da fascisti armati di coltello a Milano e a Focene, alle porte di Roma, sui giornali entrambi i fatti vennero descritti come il tragico esito di «risse tra punk». Ma la voce «anarchico», insinuata dai giornalisti a proposito di Paniconi e Bordoni a Fermo, serve anche ad altro: crea un ponte psicologico in grado di trasferire la gravità dei fatti dal mondo dell’estrema destra, a cui tali fatti appartengono, direttamente al campo opposto, quello delle lotte sociali. E non a caso, all’indomani dell’arresto di Paniconi e Bordoni, in occasione dello sgombero, a Roma, dell’occupazione abitativa Point Break, a fronte di alcune bandiere antifasciste e di manifesti relativi ad assemblee pubbliche sul tema «decide la città» rinvenuti nella struttura, com’è stata definita tale occupazione?
I giornali, sulla scia della relativa velina della questura, non hanno avuto remora alcuna, e incuranti delle reali idee politiche degli occupanti hanno scritto «anarchici», stabilendo così un legame implicito, in grado di dare l’impressione che i bombaroli di Fermo e gli occupanti di Roma fossero un qualcosa di simile… poi, in virtù di qualche grammo d’erba, hanno completato l’opera descrivendo Point Break come «una centrale di spaccio» e i suoi occupanti come «drogati», altra classica categoria di folk devil buona per tutte le stagioni e sempre utile quando si vogliono negare le istanze che parlano, per esempio, di diritto alla casa e di lotta alla precarietà, affossandole dentro un discorso di ordine pubblico e di criminalità comune.
Simili ragionamenti, ispirati da una lettura dei libri di Valerio Marchi vicina all’esperienza quotidiana, servono a spiegare come questo autore, negli ultimi anni, sia stato più presente che mai in quella scena che, tra antagonismo politico e organizzazione controculturale, continua a interrogarsi sul come, vivendo e lottando all’interno delle periferie, sia possibile ribaltare il «mondo di sopra». Dal 2014, anno di riedizione per i tipi della Red Star Press in collaborazione con Hellnation di Roberto Gagliardi del volume Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, da Vetralla (Cantina del Gojo) a Napoli (Mensa Occupata), da Pisa (Comitati di Quartiere) a Porto San Giorgio (CSOA Trenino) e Taranto (Taranto Antifascista), da Bari (Ex Caserma Liberata) a Lecce (No Racism Cup), da Cosenza (CS Rialzo e Sparrow) a Roma (CS Macchia Rossa, Esc, Tre Serrande, VIII Zona ed Ex51) e Bologna (Gateway, A Skeggia e Noi Restiamo), sono state innumerevoli le iniziative dedicate a Valerio Marchi.

E, entrando nel decennale della scomparsa, mentre il CSOA Scurìa di Foggia (oggi purtroppo sgomberato) intitolava a Valerio Marchi la sala del suo infopoint, Il derby del bambino morto è stato ripubblicato a cura di Wu Ming nella collana Quinto Tipo delle Edizioni Alegre. Così, se per Red Star Press, La morte in piazza ha conosciuto una nuova edizione con la collaborazione di Brescia Antifascista e la ristampa di Ultrà ha visto la luce per l’etichetta gemella Hellnation Libri, il CUA di Bologna ha dedicato a Valerio Marchi uno dei partecipati dibattiti ospitati dalla rassegna «Parole nel Pallone» e il FOA Boccaccio di Monza ha organizzato nel segno dello stesso Valerio Marchi la rassegna «I bravi ragazzi vanno in paradiso, quelli cattivi dappertutto». Il cantautore comasco Filippo Andreani, da parte sua, parla anche di Valerio Marchi in E Roma è il mare, una delle canzoni più belle del suo ultimo disco, La prima volta. In vista dell’autunno, inoltre, si annuncia sia la pubblicazione di una monografia completamente dedicata a Valerio che la riedizione delle sue altre opere per Red Star Press insieme alla ripresa, in quel di San Lorenzo e a cura di Sportpopolare.it con la collaborazione del Cinema Palazzo e dello storico «rude pub» Sally Brown, del Festival delle Controculture, da sempre pensato in suo onore. Un florilegio di libri, di iniziative, di prese di parola che trovano la loro ragione nell’urgenza con cui Valerio Marchi seppe trovare per strada, nelle periferie, tra la teppa, insieme agli skin e negli stadi di calcio, un’opportunità prima che un «problema» – ma anche un filo rosso in grado di guardare avanti e persino di negare la morte, affermando come Valerio sia sempre stato qui perché, in realtà, non è mai andato via.

(Pubblicato su Sportpopolare.it il 22 luglio 2016)

Sport e lotta: Sportpopolare.it a Bellinzona (Ticino)

BELLINZONA (Ticino): Sabato 25 giugno, il Collettivo Scintilla, in collaborazione con il Gruppo Majakovskij, Thai Boxing Bellinzona e l’Associazione Un Calcio Al Razzismo, organizza una giornata completamente dedicata allo sport popolare.
In una prima parte, alla palestra Thai Boxing Bellinzona si terrà uno stage di boxe con Lenny Bottai, compagno livornese antifascista e attuale campione italiano superwelter, e una discussione con lui sulla vita e la carriera di un campione del popolo fuori e dentro il ring.
Nella seconda parte, allo Snack-bar al triangolo a Bellinzona, ci sarà la presentazione di “Sportpopolare.it“, con Cristiano Armati e la presentazione della quinta edizione dell’AntiraCup Ticino con l’Associazione Un Calcio Al Razzismo.
A seguire, concerti, con Kali De Plata (rap militante, Zurigo) e Zurito Da Bidea & Digei Belzy (Dj set militant & Party, Bellinzona).

Sportpopolare.it a Bellinzona

Parole nel Pallone: intervista a Cristiano Armati sul calcio popolare

Intervista di Roberto Consiglio per Oltremedianews.it

Da giovedì 4 a sabato 6 febbraio 2016, si svolgerà a Bologna l’iniziativa sul mondo del calcio popolare “Parole nel Pallone. L’evento, organizzato dal Laboratorio Crash, dal Cua ( Collettivo Universitario Autonomo) e dalla casa editrice “Red Star Press,  punta a mostrare il forte rapporto che si è creato, nel corso degli ultimi anni, tra la letteratura e il tema del calcio. Questo connubio, come si legge sulla pagina ufficiale dell’evento, “ha permesso di parlare di tutto ciò che vive fuori dai bordi del campo (politica, arte, cultura) attraverso una sfera rotonda che girando descrive e racconta varie sfaccettature della società”. Insomma il pallone è stata un’ottima base, per molti scrittori contemporanei, per descrivere il mondo contemporaneo. Nella tre giorni di “Parole del Pallone”  oltre a varie iniziative musicali, come il concerto degli Statuto in programma la sera di sabato 6 febbraio, si avrà la possibilità di conoscere e ascoltare alcune importanti personalità culturali, ad esempio Wu Ming 5 e Cristiano Armati, cosa rappresenta oggigiorno il cosiddetto “calcio popolare“. Inoltre verrà messa al centro del dibattito la figura di Valerio Marchi, uno dei massimi esponenti sul mondo ultras e sulla sottocultura giovanile, morto nel 2006 a soli 51 anni. Alcuni giorni fa ho avuto il piacere di fare una intervista a Cristiano Armati su questa importante iniziativa che sta per iniziare nel capoluogo bolognese.

1) Da dove nasce l’iniziativa ” Parole nel Pallone“? In che cosa consisterà tale evento?

Grazie alla presenza e alle lotte di realtà come il Laboratorio Crash e il Collettivo Universitario Autonomo, Bologna è una delle città particolarmente effervescente. Tra le due torri, tutti i giorni, ci si chiede concretamente come innescare un processo in grado di affermare un cambiamento radicale, quello che dovrebbe portare ad affermare, in quanto “diritto”, tutto ciò che non può essere né venduto né comprato. Stiamo parlando di casa, istruzione, salute, lavoro, reddito, tutela del territorio e dei beni comuni: il cuore di un percorso in cui la cultura gioca un ruolo fondamentale. In modo particolare, anche attraverso l’offerta culturale, si cerca di affermare valori importanti come l’aggregazione e l’autorganizzazione, due ambiti che trovano nello sport campi di applicazione decisivi. La casa editrice Red Star Press, da questo punto di vista, ha prima mandato in libreria un nuovo marchio editoriale, Hellnation Libri, poi ha aperto un portale, Sportpopolare.it. concentrato proprio su questi ambiti di riflessione. Il dialogo costante con il Crash e il Cua, a questo punto, ha fatto il resto: si poteva, infatti, trascurare di parlare di calcio, vale a dire del gioco popolare per eccellenza? La risposta, ovviamente, è no ed è così che è nata la voglia di organizzare un festival come “Parole nel Pallone”. Il filo conduttore dell’evento sarà quello offerto dal legame tra calcio e letteratura, ma questo è soltanto un “canovaccio”. La parola d’ordine di “Parole nel Pallone”, infatti, è che chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio. E la storia degli ospiti di questa edizione numero uno lo conferma: da Gianni Mura a Gianluca Morozzi, da Darwin Pastorin a Wu Ming 5, da Paolo Sollier a Cass Pennant per non parlare della musica degli Statuto; ognuno darà il suo contributo al racconto della più grande delle emozioni, quella che ogni bambino prova quando prende a calci una palla per strada. Come è stato detto, è così che tutte le volte ricomincia la storia del calcio. Ed è evidente, quindi, che si tratta di una storia collettiva, che nasce dal basso e che riguarda tutti e tutte…..esattamente il contrario di tanto calcio che ci viene imposto oggi: patinato, appiattito sul mondo degli affari, spesso corrotto e rappresentato da personaggi improponibili. Possiamo dire che quello moderno è il calcio dell’1%, il giocattolo dei ricchi rispetto al quale “Parole nel Pallone” si schiera decisamente dall’altra parte della barricata, insieme a quel 99% che, siamo sicuri, non ha nessuna intenzione di vedere la propria voce espulsa dalla storia“.

2) Lei ha avuto modo di conoscere Valerio Marchi, un ricordo? Che persona era? Cosa la colpiva di più di Valerio?

“Per me Valerio era ed è la “Liberia Internazionale di San Lorenzo”, vedevo lui e quel piccolo locale in via dei Volsci come se fossero un’unica cosa. Tant’è che una volta in cui lo beccai al bar Marani, vicino al negozio, rimasi stupito: “Cosa stai facendo qui?”, chiesi scherzando, :” Chi c’è di là a darmi i libri?”. All’epoca stavo raccogliendo materiale per un’inchiesta sulla violenza compiuta dai rappresentanti delle forze dell’ordine ai danni dei loro familiari…..parlai a lungo con lui dell’argomento. La libreria Internazionale, ripeto, era un piccolo locale…..eppure l’intera biografia su un simile argomento la trovai lì. Un altro ricordo risale ai tempi in cui Valerio lavorava a “Il derby del bambino morto”, che sarebbe uscito con DeriveApprodi. Io collaboravo con la Coniglio editore, che divideva con Derive l’ufficio in piazza Margherita, quindi tra un contratto da firmare e una bozza da correggere, incontrai Valerio molte volte, ricevendo il privilegio di ascoltare quello che poi sarebbe stato il libro direttamente dalla sua voce.

Che persona era Valerio? Intanto una persona che, rispetto a qualunque riflessione, si metteva a livello della strada, nel senso che evidentemente costruiva la sua riflessione orizzontalmente. I primi tempi in cui frequentavo la libreria internazionale ero solo uno studente di liceo, ma lui ascoltava le mie domande e i miei ragionamenti con un’attenzione difficile da trovare, non dico in una libreria, ma ovunque.

Cosa mi colpiva di un simile atteggiamento? Prima di tutto la possibilità di avere un interlocutore, merce molto rara. Poi è accaduto che Valerio se ne sia andato decisamente troppo presto…..e la sua mancanza, nella mia memoria, è diventata oggi il primo tassello della frana che, sulla via della gentrificazione subita, ha stravolto il quartiere San Lorenzo”.

3) Un suo commento sull’ultimo scandalo che ha travolto il mondo del calcio, denominato “Operazione Fuorigioco“?

Sui padroni del pallone e sui loro intrallazzi non ho nulla da dire. Anche scandalizzarsi, infatti, fa parte dell’ipocrisia in cui siamo immersi: il malaffare, nel calcio come nella politica, non è un incidente di percorso, ma la pietra angolare del sistema. Lamentarsi non serve, è più utile combattere“.

4) Cosa intende lei per “calcio popolare“? Ci può fare qualche esempio concreto e attuale? 

Rispondo con una frase, tratta da “Il Manifesto”, scritto per Sportpopolare.it: Lo sport popolare, nella sua doppia accezione di pratica impostata al di fuori delle logiche del profitto e di fenomeno partecipato dagli strati popolari, e quindi dalla massa, guarda all’avvento di un nuovo umanesimo protendendosi, senza tregua, verso la rottura delle gabbie metropolitane e degli schermi televisivi tanto cari agli alfieri dell’ordine e della legalità”. Gli esempi, da questo punto di vista, sono innumerevoli: sarebbe impossibile farne solo qualcuno senza cadere nella più totale parzialità; ognuno, invece, può gettare un occhio alla strada per vedere quanto forte e diffusa sia questa realtà“.

5) Qual’è, secondo lei, il miglior libro sul mondo del pallone che ognuno di noi dovrebbe leggere almeno una volta nella vita?

Se dobbiamo parlare di letteratura non scelgo un libro, ma una canzone, “Il portiere” dei Diaframma,  che per me è la cosa di gran lunga più bella mai scritta sul mondo del pallone. Nei momenti più difficili, quando l’aria “spesseggia”, e cose difficili da affrontare si stagliano all’orizzonte, cupe come mostri, ripeto a me stesso le parole di Federico Fiumani: “Ci vuole coraggio nel gioco del calci, non basta il mestiere/ (…) perchè non è da tutti andare incontro al lampo/ di un bolide lanciato sui duecento orari e farsi trovare (…). Ci vuole coraggio nel mondo del calcio, non basta il mestiere/ gettarsi sui piedi degli avversari e non farli passare”.

Omofobia, antisessismo e ipocrisia: il caso Sarri

La verità – che parolone! – è che il calcio mainstream fa talmente schifo che quando sulla scena si presenta un personaggio come il sor Sarri: un signore di mezza età con lo stile dell’abitué del bar dello sport e non un fotomodello mancato olezzante lacca e silicone; quando a poggiare il culo sulla panchina è uno che non ha fatto differenza tra campi di terra malamente battuta e grandi platee televisive e che ha affrontato un percorso estraneo al riprodursi incestuoso tipico delle elite (sportive, economiche e politiche non fa nessuna differenza); quando a impossessarsi del prime time, delle pagine dei giornali e, magari, anche del campionato è un tipo che, addirittura, è in odore di comunismo… beh, ci mancava soltanto che Sarri avesse scelto di tenere corsi di antisessismo all’università per conferirgli il premio Lenin e a questo punto, riconciliati con l’orrore della mercificazione imperante, ci saremmo potuti rimettere le ciabatte in tutta tranquillità e continuare a passare i pomeriggi della nostra breve vita davanti a Sky.

I fatti sono andati diversamente. Sarri ha avuto a che ridire con Mancini e ha apostrofato l’ex golden boy doriano al grido di «frocio», «finocchio» e/o cose simili.

Troppo perfetto per essere vero, l’uscita di Sarri, per altro resa pubblica dallo stesso Mancini in differita, ha deflagrato come un sampietrino scagliato contro la vetrina di un negozio del centro. Ad alzare la voce contro l’allenatore del Napoli ci ha immediatamente pensato «la Repubblica», che quando non parla di Renzi ha la coscienza limpida di un neonato, auspicando in ordine crescente il licenziamento, la radiazione, la crocefissione di Sarri, che va bene tutto – dal jobs act alla buona scuola, dalla trivellazioni all’Alta Velocità – ma se si parla di omofobia allora è uno scandalo perché siamo un paese civile bla, bla, bla…

A dire il vero, e stendendo un velo pietoso su una certa dose di razzismo implicita in tanti discorsi sull’Italia Meridionale, Sarri ha trovato altrettanto presto validi argomenti di difesa e, a suo favore, si è schierato un fronte allargato, ed ecco che le bandiere del «Mancini spia» hanno cominciato a sventolare insieme a quelle di un insospettabile movimento «omosessuali pro Sarri», armato dell’immancabile «non sono d’accordo con la tua opinione ma darei la vita affinché tu possa esprimerla», che evidentemente fenomeni tipo l’ascesa di Hitler non sono bastati a dimostrare come esistano “opinioni” (e l’omofobia è tra queste) rispetto alle quali la vita è il caso di metterla in gioco affinché non si esprimano più e non il contrario.

Le celtiche di Gigi Buffon
Gigi Buffon: l’uomo-simbolo della nazionale italiana e la croce celtica

Tralasciamo i commenti di chi è disposto a vendere l’anima al diavolo pur di festeggiare lo scudetto della sua squadra, ma, per no fare la figura dei bambini che si difendono dalle sculacciate della mamma additando le marachelle dei fratellini, evitiamo anche i paragoni con altri episodi impuniti: tipo la disinvolta esibizione di celtiche e boia chi molla da parte del portierone nazionale Gigi Buffon o la naturalezza con cui il famigerato Tavecchio, sempre saldo sul trono presidenziale, ha dato fiato alle sue trombe razziste e omofobe. Moltissimi articoli dedicati all’affaire Sarri, praticamente tutti, si addentrano nei loro distinguo dopo stucchevoli preamboli costruiti a colpi di «fermo restando la condanna dell’omofobia» e «pur riconoscendo la gravità delle espressioni utilizzate dal tecnico napoletano». Articoli che, in alcuni casi, i migliori, proseguono con argomentazioni tipo «però quando Salvini afferma le stesse cose gli riconoscete massima agibilità politica, mica vi indignate, eh!»; tutte cose vere e sacrosante, come però a essere vera e sacrosanta è anche la chiosa necessaria ad arginare ciò che rischia di essere banale. Una chiosa chiara e concisa tipo: «Grazie al cazzo!».

Se tra le colonne dei nostri giornali esistesse davvero la coerenza, affacciandoci alla finestra avremmo l’occasione di vedere un mondo assolutamente diverso da quello che abitiamo: un mondo dove, ma solo per fare un esempio al volo, si discuterebbe delle onorificenze assegnate a certi ragazzi di Cremona per il loro antifascismo, valore sacro della Costituzione italiana, e non certo della repressione di cui sono vittime

Continuare su questa strada è inutile, l’evidenza dell’ipocrisia imperante parla da sola. Eppure se un Salvini qualunque viene invitato ovunque proprio per inneggiare al sessismo più becero (come al razzismo più becero e al fascismo), mentre l’espressione di Sarri provoca simili bordate di indignazione una ragione deve pur esserci. E a ben vedere questa ragione c’è: il Sarri omofobo, infatti, diventa immediatamente e anche suo malgrado un ostacolo sulla via dell’avanzato stato di trasformazione del calcio, da sport a spettacolo, e degli impianti sportivi, da territori tendenti a esprimere valori antagonisti rispetto alle logiche di dominio a teatri in cui si paga il biglietto per comprare il proprio seggiolino numerato. Il finocchio di Sarri, in questo percorso, è un bel bestemmione smoccolato in cattedrale durante l’omelia del vescovo e, magari a livello inconscio, è proprio in questa rottura che il ruvido tecnico toscano trova difensori che nulla hanno a che spartire con sessismo e omofobia. Anche noi, da questo punto di vista, non facciamo fatica alcuna a iscriverci al club. E non per la comprensibile ma infantile simpatia nei confronti del politicamente scorretto a cui pure non siamo immuni, ma perché crediamo che «l’odierna società dello spettacolo col babau del sessismo e dell’omofobia riuscirebbe non solo a difendersi, a vivere più tranquilla, ma anche a convincere una parte degli spettatori a collaborare con lui, a schierarsi dalla sua parte. Combattere il sessismo e l’omofobia lasciando indisturbato il suo perenne generatore, e anzi illudersi di trovare in questo un difensore contro quello, significa continuare ad avere sulle spalle l’uno e l’altro».

Luigi Fabbri
Luigi Fabbri (1877-1935)

Chiudiamo questa riflessione riconoscendo la paternità del virgolettato finale a Luigi Fabbri e al suo La controrivoluzione preventiva. Scritto nel 1926, il libro di Fabri parlava di «fascismo» e non di «sessismo e di omofobia» e scriveva «Stato capitalista» e non, come abbiamo fatto noi prendendo in prestito le sue parole, «società dello spettacolo». Il senso di simili affermazioni, però, resta perfettamente sovrapponibile. E a questo punto il caso-Sarri può tranquillamente essere archiviato.

(Pubblicato in versione ridotta su Sportpopolare.it il 21 gennaio 2016)