EXPO non è finito: un orizzonte dopo la rivolta del primo maggio

Era il 3 maggio del 1886 quando, a Chicago, negli Stati Uniti, una folla di lavoratori in sciopero si assembrava davanti ai cancelli della fabbrica di macchinari agricoli McCormick. Il presidio, nato sulla scia di uno sciopero indetto il primo maggio per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore, viene brutalmente attaccato dalla polizia che, aprendo il fuoco sulla folla, uccide due operai, ferendone molti altri. Sulla scia dell’indignazione,il giorno seguente, cioè il 4 maggio, la stessa folla si riversò in piazza Haymarket, dove dopo l’esplosione di un ordigno la polizia inizia a sparare all’impazzata, uccidendo altre undici persone e colpendo con il “fuoco amico”anche un gran numero di agenti. Come se non bastasse, al termine di un processo-farsa, la corte chiamata a giudicare i fatti di Haymarket condannò a morte sette sindacalisti. Uno di loro, August Spies, prima di salire sul patibolo ammonì i suoi boia: «Verrà il giorno», disse loro, «in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate».

E furono quelle voci, in effetti, a trovare eco in tutto il mondo, seminando tra chiunque si trovasse dalla parte degli sfruttati la coscienza del sacrificio dei “martiri di Chicago”. Anche in Italia la notizia dell’esecuzione di Spies e dei suoi compagni non passò inosservata e a Livorno,addirittura, il popolo inferocito attaccò le navi statunitensi ancorate al porto e, in seguito, la questura, dove si diceva che il console americano si fosse rifugiato.

Da quel momento in poi la tragedia di Haymarket sarebbe stata parte di una storia collettiva di portata globale. Tant’è che non solo il primo maggio diventò pressoché ovunque la data in cui celebrare i lavoratori e le loro conquiste, ma anche gli eventi del 1886 finirono per essere considerati come il frutto sanguinoso di una conquista, parte di un processo grazie al quale una civiltà più giusta riusciva a guadagnare terreno sulla barbarie.Tant’è che nessuno storico, fino a oggi, si sarebbe mai sognato di disconoscere il valore dei sindacalisti di Chicago né, a maggior ragione, l’importanza sacrosanta di una causa che ha portato a battersi e a morire  una moltitudine di lavoratori: avanguardia del progresso civile o, seguendo le complicate torsioni di senso con cui si è arrivati a descrivere il presente per modificarlo in chiave conservatrice e neocorporativista, banda di pericolosi black bloc, branco di spaccavetrine,bestie assetate di violenza, cretini e – tanto per colmare la misura – se non infiltrati addirittura fascisti.

Tutto questo accade nel 2015, mentre a Milano si inaugura la contemporanea edizione dell’Esposizione Universale e, per farlo, si sceglie proprio la data del primo maggio, costringendo il mondo del lavoro a concedere deroghe definitive rispetto a una giornata ancora teoricamente considerata festa nazionale. La cosa, di per sé, non è certo strana: Expo, infatti,vorrebbe essere per i suoi mandanti – il Partito della Nazione e il suo duceMatteo Renzi – l’arco sotto il quale far passare il trionfo di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla speculazione edilizia, la distrazione d’ingenti somme di denaro pubblico, la santificazione delle multinazionali dello sfruttamento selvaggio delle persone e dell’ambiente e, quindi, l’annullamento definitivo di quel patto a cui, per il tramite della contrattazione, si era dato mandato di regolare il faticoso ed eternamente conflittuale rapporto tra capitale e lavoro.

Dall’inaugurazione di Expo in poi – tutto ciò è estremamente chiaro – il lavoro sarà soltanto una sorta di elargizione demandata nei modi e dei tempi all’iniziativa padronale, alle sue esigenze e alle sue necessità.Mentre per tutto il resto, di fronte alle residue alzate di testa dei lavoratori, ci sarà il licenziamento selvaggio o, spesso e volentieri, la forza brutale della polizia.

Fuori dal mondo del lavoro il discorso non cambia. La rapina che inizia in “fabbrica” (che si tratti dei call center o delle reception diExpo non fa nessuna differenza) prosegue nei territori, sia con lo strumento della devastazione e della privatizzazione delle risorse naturali (a cominciare dall’acqua), sia con l’imposizione di prelievi pesantissimi ai danni delle magre finanze dei lavoratori, grazie al monopolio delle pigioni, all’azzeramento dei programmi di edilizia popolare pubblica e, di conseguenza, attraverso l’arma degli sfratti.

È sulle macerie di un simile laboratorio di macelleria sociale che Expo sta edificando le sue fortune, affilando le armi di una propaganda senza precedenti, a sostegno della quale tutti i mezzi d’informazione parlano come in passato è stato fatto solo per descrivere le gesta delle truppe imperiali lanciate alla conquista dell’Abissinia. Ed è sulle stesse macerie che l’opposizione sociale è chiamata a raccogliere le sue forze e a costruire una resistenza né semplice né di breve durata. Se è vero come èv ero che Expo ha voluto mistificare le reali necessità di un corpo sociale stremato dalla povertà (cioè dalla prima arma che il padronato rivolge contro le classi subalterne per piegarle ai suoi scopi), rinchiudendo le legittime aspirazioni al cambiamento dentro le esigenze di una vetrina scintillante,allora spaccare quella vetrina è stato giusto, sia in termini metaforici che in termini reali. Eppure non è ancora questa la cosa più importante, né il campo in cui è necessario concentrare i propri sforzi. La cosa più importante,infatti, è sottolineare come Expo non è finito. E non è finito non solo perché il tributo preteso dal governo Renzi si estenderà sul Paese per ulteriori sei mesi, ma perché è lo stesso modello che Expo impone ad aver costruito una nuova cornice di “normalità” con la quale confrontarsi e che è necessario spezzare. Basti dire che, annunciando l’organizzazione del prossimo giubileo romano, è  già stata ventilata da parte del governo la possibilità di porre un blocco degli scioperi nel nome di un superiore interesse nazionale…

Le contraddizioni di Expo, insomma, non possono essere denunciate né tantomeno superate nel corso di una sola giornata: le multinazionali che sponsorizzano l’evento resteranno ai loro posti, lo stesso faranno le condizioni imposte ai lavoratori e anche la volontà di sottoporre a un feroce revisionismo la storia della lotta di classe è determinata a compiere nuovi passi avanti. Da questo punto di vista, mentre ogni occasione sarà buona per denunciare gli abomini targati Expo organizzando momenti di confronto pubblico sempre più importanti, è anche necessario iniziare a muoversi immediatamente verso un orizzonte preciso, all’interno dei sei mesi di durata che si è data l’esposizione milanese. Alla chiusura del carrozzone, infatti, il simbolo diExpo, la scultura nota con il nome di “Albero della Vita”, vorrebbe essere ricollocata in un luogo-simbolo della storia italiana. Con una mossa tutt’altro che innocente, i leader renziani hanno annunciato di voler trasferire l’istallazione direttamente a piazzale Loreto, vale a dire nel luogo in cui la repubblica nata dalla Resistenza celebrò nel 1945 il trionfo dell’insurrezione popolare e la distruzione del fascismo. Impedire, a cominciare da adesso, che tutto ciò possa accadere non significa soltanto lottare per la permanenza di un simbolo nella storia di domani. Significa anche riappropriarsi della sovranità popolare che, salendo sulle montagne o combattendo nelle città, offrì la migliore dimostrazione di come un altro mondo sia davvero possibile.

In questo modo diventa più semplice rispondere alla domanda che tutti si sono fatti dopo il primo maggio No Expo andato in scena a Milano,considerando che al di là delle vetrine rotte, della manifestazione moltitudinaria e dei contenuti anticapitalisti portati in piazza, contro il progetto politico renziano che, sul modello del corporativismo fascista,continua a pretendere di subordinare i diritti sociali agli interessi della nazione (cioè dei padroni), l’unica cosa giusta resta quella di non fare neppure un passo indietro.

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