Higuaín alla Juve e la Lingua del Nemico. Ovvero come dire NO alle olimpiadi, non sentire ragioni e vivere felici sapendo di essere nel giusto.

Sul finire dell’estate, come faccio in quasi tutti i giorni dell’anno la mattina prima di iniziare a lavorare, mi trovavo in un bar come ce ne sono tanti nella periferia romana e che, come tanti altri nella periferia romana, “bar” fa solo di nome, mentre di cognome si chiama “della coltellata”; versione locale di ciò che il marketing è già riuscito a sporcare, mandando in televisione tonnellate di spot che per vendere un superalcolico vantano la sua abituale presenza «nei peggiori bar di Caracas».
In un posto così – familiare nei volti e nei modi fino al punto da poter essere tranquillamente confuso con una stanza di casa; con la bocca mezza piena di cornetto alla crema, la tazzina del caffè in mano e un occhio fisso sulle pagine del «Corriere dello Sport», a un certo punto me la sono trovata davanti. E non c’era nessun dubbio. Era proprio lei: la Lingua del Nemico in carne e ossa.
La Lingua del Nemico se ne stava al bar della coltellata, seduta come se nulla fosse al tavolino accanto al mio. E con la capezza d’oro al collo e la camicia aperta, lasciava intravedere i segni di un tatuaggio a forma d’ancora fatto in galera con un ago montato su una penna bic mentre, esprimendosi per bocca del Catena – un altro soggetto che in ogni quartiere romano ne trovi almeno cinque o sei – dava sfoggio di tutta la sua potenza, dimostrando di avere occupato territori che fino al quel momento le erano stati preclusi e di essere riuscita a impadronirsi di corpi ritenuti impossibili da addomesticare.
Quando ho ascoltato la Lingua del Nemico il cornetto mi è andato di traverso. E ho dovuto mascherare con colpi di tosse il serio pericolo che ho corso di stirare lì dove mi trovavo. Eppure non c’erano dubbi. Era proprio il Catena che stava dicendo quello che stava dicendo. Era proprio il Catena, anzi, er Catena, famoso per una vita passata un po’ a Regina e un po’ allo stadio, e con un altro tatuaggio a forma di lupa fatto dove non batte il sole, che – nemmeno fosse stato posseduto da un demone – stava aprendo bocca per affermare, con aria compita e professionale: «Beh, Higuaín alla Juventus sarà pure pesante per i napoletani, ma come fai a rifiutare 90 milioni di euro, ma ti rendi conto delle plusvalenze?».
Plusvalenze?!?
A quella parola mi sono dato tre o quattro manate sul petto, più forte che potevo. E ricacciato a forza il pezzo di cornetto nella parte giusta della carotide – o ovunque debba andare il cibo per non strozzarti; ho mezzo sbroccato.
«No, porco zio, Catè», ho detto, non a lui, ma alla Lingua del Nemico che stava parlando al suo posto: «A me non me n’è mai fregata una ceppa di cazzo delle plusvalenze. Sarà che mi preoccupo molto di più di come si svolta questo mese, quello passato e pure quello futuro. E poi, proprio tu (a parte che me stai sempre a rompe er cazzo che so’ sei mesi che nun lavori e nun c’hai ‘na lira manco pe’ piagne: che te sei magnato ieri? Pane e unghie? E me lo spieghi che cazzo te ne frega porco zio delle “plusvalenze”!!!): te lo ricordi Falcao quando giocava da stì pizzi? E dico: te l’immagini se ce venivano a dì che ce lo vendevano alla Juve perché c’era un problema de “plusvalenze”? Me sa che se ce provavano a Roma nun rimaneva pe’tera nemmanco ‘n sampietrino, e che Trigoria come minimo pijava foco. E co’ Totti: che nun sarebbe stata la stessa cosa? Daje, dimmelo ‘n po’: ‘ndov’è che se le sarebbero dovute anna’ a mette tutte ste “plusvalenze”?».
Al bar della coltellata cala il silenzio. La sora Maria, dietro il bancone, resta col cellulare in mano, incerta se chiamare la neuro. Io, tutto sudato, ci metto un’altra bestemmia.
Ma che ne sapevo, soltanto qualche mese fa, che la Lingua del Nemico avrebbe guadagnato ancora terreno, espandendosi ben oltre i quaranta metri quadrati scarsi del bar della coltellata?
A Roma, insieme agli autobus che non passano, agli ospedali che o ce mori o ce mori gonfio, alle buche, alla monnezza, a trecentomila case vuote e trecentomila persone in emergenza abitativa, alla folla di quelli che come il Catena, anzi, er Catena, non lavorano da sei mesi, poi da dodici, poi da diciotto… a Roma c’è pure il dito al culo delle Olimpiadi del 2024: l’ennesima grande opera, buona per grattare il fondo del barile dei soldi pubblici e a trasferire tutto quello che ci può essere rimasto nelle tasche dei molti che si arrabattano direttamente nei forzieri dei pochi che più mangiano e più gli viene fame.
Oh, è una cosa incredibile. Se non sono bastate le pulizie etniche delle favelas di Rio a dare dimostrazione di cosa è che si parla quando si parla di olimpiadi, la storia di casa nostra dovrebbe bastare e avanzare per far venire più di uno sturbo a qualunque persona con un minimo di buon senso di fronte alla sola ipotesi di dare il proprio consenso a una simile stronzata. Sì, una stronzata. Perché dietro il ricatto morale dello sport olimpico, della fratellanza universale e di chi più ne ha più ne metta, qui ci si ricorda ancora di quando, nel 1960, per mascherare alla vista del mondo le baracche di Roma, il sindaco democristiano dell’epoca – e speriamo che il diavolo se lo sia portato via con tutte le scarpe! – arrivò a incartare borgate e borghetti con finti cartelloni pubblicitari. I debiti contratti allora, in compenso, quelli ci stanno sempre. Non sulle spalle dei soliti palazzinari, ovviamente, ma regolarmente iscritti nel bilancio comunale: a carico della collettività (cioè NOSTRO) e utilizzati per dire che non possiamo più permetterci la sanità pubblica, la scuola per tutti, le case popolari…
Poi, visto che c’è sempre questo Malagò – che solo di parrucchiere spenderà tutte le settimane come dieci condomini di Tor Sapienza in un anno – perché non si va a vedere quello che è stato combinato ai mondiali di nuoto del 2009?
E se non basta Malagò, visto che c’è pure Montezzemolo, un altro che con il solo parrucchiere potrebbe rimettere in sesto il Pil del Burkina Faso, perché non rinfacciargli, più che i buffi che ha fatto a Italia ’90, ancora da pagare naturalmente, anche i 24 morti ammazzati nei cantieri aperti dalla sua “grande” opera che nessuna cifra potrà mai farci smettere di piangere?
Eppure, arriva il momento in cui si può dire NO alle olimpiadi. In cui si può dire NO a Malagò, a Montezzemolo, a Caltagirone e a Renzi, e cosa si inizia a sentire in giro?
In giro si iniziano a sentire discorsi tipo: e però le olimpiadi portano posti di lavoro; e però le olimpiadi portano servizi; e però le olimpiadi posizionano il brand Roma in un segmento alto del turismo mondiale…
Ci manca solo una cosa, a parte le «plusvalenze». Ci manca uno STI CAZZI grosso come una casa. Perché – da che mondo è mondo – è sempre stato interesse del pastore far credere alle pecore che il gregge esiste per il loro bene. È sempre stato interesse del pastore far credere alle pecore che senza di lui ci sarebbero tanti lupi cattivi pronti a sbranarle. È sempre stato interesse del pastore far credere alle pecore che da sole non saprebbero tosare la loro lana o mungere il loro latte, e allora: perché lamentarsi degli agnelli macellati quando viene pasqua? Perché stare a belare che la stalla è fredda, il fieno scarso, l’acqua torbida?
E così le olimpiadi porterebbero il lavoro che non c’è, come se la causa della mancanza di lavoro fosse l’assenza di un grande evento e non quel principio secondo il quale le paghe erogate agli operai non devono superare, nell’interesse del Capitale, ciò che a malapena serve alla riproduzione della stessa forza lavoro (infatti di lavoro ce n’è un mare: basterebbe lavorare meno per lavorare tutti. Basterebbe togliere il Jobs Act e introdurre la settimana lavorativa di 30 ore a parità di salario: qualcuno si aspetta che sia Malagò o Renzi a proporlo?).
E così le olimpiadi porterebbero le infrastrutture, come se queste obbedissero davvero a un principio di pubblica utilità e non agli interessi esclusivi degli speculatori, Olimpiadi o meno (per risolvere la metà dei problemi di Roma basterebbe procedere alla requisizione degli immobili invenduti, nel rispetto dello stesso dettato costituzionale, che all’articolo 42, a proposito di proprietà privata afferma che «la legge ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti»; questo però Malagò e Montezzemolo non lo hanno mai letto, credo…).
E così le olimpiadi porterebbero il turismo, come se questo andasse a vantaggio di tutti, e non principalmente, se non esclusivamente, a vantaggio di chi detiene la rendita fondiaria e quindi la proprietà di alberghi, ristoranti bed and breaklfast e infrastrutture varie, da utilizzare per dare vita a capitali da mettere al sicuro all’estero, nei paradisi fiscali, ma lasciando qui un sovrappiù di spazzatura, da smaltire con i soldi pubblici naturalmente.
Per queste stesse ragioni, chi sostiene, magari (secondo lui o lei) da sinistra, che è possibile confezionare olimpiadi pulite, senza morti sul lavoro o addirittura, non so, con contratti di lavoro a tempo indeterminato… o mente sapendo di mentire o sta cercando di sostenere come, in fondo in fondo, non è il Capitalismo a essere cattivo, è la sua gestione che spesso non funziona… perché non affidare tutto a loro – a quelli e a quelle che dicono sì alle Olimpiadi?
Una domanda che, a ben vedere, non fa altro che aggiungere frecce all’arco del pastore intento a spiegare alle sue pecore come sia solo per il loro bene che lui sta appresso al gregge. Una domanda che da sola sta lì a dimostrare come la Lingua del Nemico, quella che spesso appiccica parole di gergo finanziario e borsistico sulla bocca dei proletari, quella capace di esprimersi sempre nel nome del più limpido buonsenso, sia davvero un avversario pericoloso: l’alfiere di una colonizzazione sorda ma efficacissima, decisa a muoversi per togliere ogni argomento a modi diversi di pensare e di fare; e quindi di opporsi, indicando reali alternative.
Per fortuna, però, sui sentimenti non si scherza.
Infatti, al bar della coltellata, quando al Catena, anzi ar Catena, jò tirato fuori in rapida successione Falcao e Totti, lui prima è stato zitto, ma poi m’ha detto: «Ah fratè, lo sai che c’è? Me sai che c’hai ragione».

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