Teppismo, ultima bandiera

Scrivi degli ultrà
la vita da teppista
non dici verità
bastardo giornalista

Non mi ricordo più come sono diventato ultrà. A me, allo stadio, non mi ci ha mai portato mio padre: non è per onorare la sua memoria che seguo il calcio. Il calcio, per me, non è nemmeno tanto un fatto di cori o di bandiere e, se penso al campo da gioco, di colori e di profumi è l’ultima cosa di cui parlo. Ho una fede, certo. E questa è salda. Credo in dei principi ben precisi, ma non ho voglia di dire esattamente quali. Perché ci sono cose di cui si può parlare e altre per cui le parole non servono a nulla: per capirle occorre esserci. Ma,sopratutto, occorre fare.

È a questo ultimo genere di cose che appartengo. Domenica dopo domenica le ritrovo negli occhi del compagno che ho accanto ma anche nello sguardo del nemico che ho davanti. Una scintilla che illumina il buio del calcio moderno con gli echi di un principio inderogabile: «Preferisco essere sconfitto nudo addosso a un muro che festeggiare la vittoria protetto da uno scudo».

È questo il terreno sul quale io gioco la mia partita. Ed è sempre da questo terreno che io, domenica dopo domenica, torno a casa vincitore.

Su questo terreno gli arbitri non si possono corrompere, i vestiti che hai addosso non hanno nessuna importanza e nemmeno i soldi significano niente. Il coraggio, al contrario, qui non ha prezzo. E la lealtà è la merce più ricercata.

Su questo terreno nessuno è tenuto ad abbassare la testa e non esiste né sì né sissignore; basta un cenno di intesa per rinnovare un accordo mai scritto: «Non un passo indietro»; sono questi i termini del patto.

Grazie alla fede, domenica dopo domenica, prima e dopo la partita, diventa possibile sostenere uno scontro impari. Da una parte la legge, con le armi, i cani, le macchine blindate, i lacrimogeni e i manganelli. Dall’altra il cuore: forte anche quando non ha niente.

Non mi vergogno di dirlo perché è vero. Chi indossa una divisa non lo accetto e neppure lo rispetto. Troppe volte ho visto gli uomini della legge caricare i miei fratelli a tradimento. Troppe volte li ho visti, in dieci contro uno,tirare calci fino a spaccare le facce, rompere le costole, spezzare i denti.

La mia lotta, in fondo, è simile a quella delle minoranze oppresse o a quella dei partigiani che combattono nelle zone occupate dagli eserciti: «10, 100, 1000 Nassiriya» ero io che lo cantavo. E non avevo certo paura di diventare l’unico a essere considerato delinquente.

Domenica dopo domenica, insieme ai miei fratelli, ho combattuto per l’Iraq, per l’Irlanda del Nord, per il Kurdistan, per il Libano, per la Serbia, per il Delta del Niger e per la Palestina. E nessuno di noi, nel corso della lotta, ha mai preso in considerazione l’opportunità di potersi arrendere.

D’altronde è normale. La principale differenza tra noi e chi indossa una divisa è solo questa: loro agiscono nel nome di un posto fisso e dei soldi; noi lo facciamo per continuare a guardarci in faccia senza vergognarci.

Chi indossa una divisa lo capisce e ci teme. Sa che per partire non abbiamo bisogno di ricevere istruzioni: conosciamo perfettamente la città e i piani che seguiamo non vengono dall’alto, ma sono già nella nostra testa. Come avremmo fatto,altrimenti, a ritrovarci tutti nello stesso posto – allo stadio Olimpico – tre ore prima della partita Roma-Cagliari, prevista per le ore venti e trenta?

La notizia,data nella mattinata, parlava di uno scontro tra tifosi dalle parti di Arezzo. Raccontava di una macchina di laziali che incrocia un gruppo di juventini e di un ragazzo ucciso da un colpo di pistola. Cercavano di confondere le acque e di farci credere che i tifosi si fossero uccisi tra di loro… in realtà, quello che era successo, ci era stato chiaro immediatamente: a sparare e ad uccidere era stato un agente.

C’è solo una categoria di persone che rispetto ancora meno di chi porta una divisa. Ed è la categoria di chi, per professione, mente. Li chiamano giornalisti, ma per noi sono tutti pennivendoli. E come correvano! Correvano gettando sull’asfalto le loro telecamere maledette e le loro macchine fotografiche bugiarde. Correvano malgrado le pance cascanti, piene di notizie false e brutti sentimenti. Pensavano di accanirsi su di noi anche in una giornata come questa:di rinchiuderci come le scimmie nelle gabbie dei loro giornaletti, di chiamarci beceri e violenti, di infamarci e insultarci a loro piacimento. In una giornata come questa no, non glielo abbiamo concesso: abbiamo corso più forte di loro,li abbiamo raggiunti e a più di qualcuno abbiamo rotto la macchina fotografica e la telecamera insieme alla testa.

Un nostro fratello era stato ucciso dalla polizia e la nostra rabbia, radunati fuori dai cancelli dello stadio, stava crescendo come il mare in tempesta. Quando a Catania, poco tempo prima, era morto uno di loro, un ispettore, il calcio era stato fermato completamente. Mentre adesso che a uccidere un tifoso era stato un poliziotto che fine avevano fatto i discorsi sul rispetto della vita umana?

Chi comanda non ha ritenuto opportuno sospendere le partite in programma perché per loro i tifosi non sono nient’altro che merce.

Si sbagliano. E lo abbiamo scritto sugli striscioni: «La nostra coscienza non si lava con dieci minuti di ritardo».

Alla pattuglia dei carabinieri fermi a Ponte Milvio glielo abbiamo fatto capire bene. Abbiamo gridato «assassini! assassini!» e li abbiamo fatti fuggire con un fitto lancio di pietre.

In queste circostanze non conviene muoversi tutti insieme. Il grosso del gruppo è restato compatto a presidiare la zona dello stadio mentre, a turno, drappelli più piccoli sono scattati per la caccia al poliziotto. Sul Lungotevere abbiamo usato delle transenne di ferro per bloccare il traffico e, per armarci, abbiamo sradicato dall’asfalto i segnali stradali. In pochi minuti abbiamo distrutto vetrine e rovesciato cassonetti. È servito per guadagnare tempo, seminare il panico e spingerci verso l’interno: «Non ne possiamo più delle divise blu – no al governo – no alla pay tv».

In via Flaminia vecchia abbiamo preso a sassate una stazione dei carabinieri e dato fuoco alle vetture parcheggiate all’esterno. «Non c’è niente di più bello di una caserma che brucia»: basta una bottiglia piena di benzina per scatenare l’inferno.

In via Guido Reni, all’Accademia di polizia, abbiamo distrutto l’insegna e infranto i vetri antiproiettile e, bruciando ciò che potevamo, abbiamo urlato: «Merde! Merde!».

Veloci come il vento ci siamo dileguati. E abbiamo portato via lo stendardo del corpo: dato alle fiamme insieme a un’altra macchina della polizia, in piazza dei Giochi Delfici.

La città era nostra. Ma noi siamo diversi, il potere non ci interessa. Noi siamo i lupi che si nascondo tra le pecore: possono braccarci, catturarci, diffidarci o ucciderci… domenica dopo domenica torneremo comunque branco, lo facciamo sempre. Gente come noi oggi ha colpito a Roma, ma lo ha fatto anche a Milano, a Taranto, a Bergamo… ovunque con la stessa gioia di riscoprirsi ultrà: padroni di niente – chiaro – ma servi di nessuno. Liberi, seppur in fuga, tra i tornanti della panoramica che si arrampica su Monte Mario. Arditi quanto basta per accostare la macchina e, con la vernice azzurra della bomboletta, sfidare chi non crede in niente con uno slogan destinato a durare: «Teppismo ultima bandiera».

a.romanoir2.0983279Tratto dal volume Roma noir di Cristiano Armati

Roma noir: la normalità del male e il lato oscuro della periferia

Recensione e intervista di Silvana Mazzocchi, da Repubblica.it del 20 marzo 2009

a.romanoir2.0983279RACCONTARE chi non ha voce è arduo. Cercare, dietro le immagini rassicuranti, gli sfondi che nessuno ama vedere, mostrare una normalità del male che la cronaca nera relega nel diverso, nel distante, nel folle, in una parola nell’altro da sé. Un’operazione che può risultare ansiogena e dunque far pensare, intuire che, dietro alla carta patinata, c’è un’altra realtà. Un effetto non sempre bene accetto in tempi di leggerezza a tutti i costi. E’ il bello di Roma noir, l’ultimo libro di Cristiano Armati, già stimato autore di Cuori rossi. Le prostitute bambine della via Salaria, le periferie dove “alle otto di sera chiudono tutto. Anche i bar”. E la droga che ruba la vita, il sangue dei delitti e le rivolte dei ragazzi di borgata. I senza tetto e l’esistenza che si trascina buia, nelle baracche sotto i cavalcavia del raccordo anulare.

Racconti che si muovono tra fatti realmente accaduti e quelli possibili e che aiutano a conoscere l’altro volto della capitale, quello metropolitano comune a tante altre città. Lampi che s’insinuano nell’indifferenza diffusa che addormenta le coscienze, e che ne alzano il velo. Cristiano Armati, giornalista free lance, fa per mestiere l’editor. E’ abituato alle trame e alla parola scritta. Ma il suo linguaggio è originale, crudo. E il suo stile, potente, impetuoso come le sue storie. E come il mondo sotterraneo e clandestino che riporta in superficie.

ROMA NOIR: IL BOOKTRAILER

Roma noir racconta una città altra, nascosta?
Roma noir parla del lato oscuro di Roma, è vero. Nelle sue pagine scorrono omicidi, stupri e rapine a mano armata. Più in generale, gli scenari ricorrenti riguardano le periferie cittadine, i casermoni popolari e tutti quei luoghi a cui i mezzi di informazione – dalla stampa quotidiana alle guide turistiche… – non sono abituati a dare spazio salvo, quando accade un fattaccio, sbattere i mostri in prima pagina, esprimendosi per luoghi comuni ma senza indagare nelle pieghe dell’emarginazione e del disagio. Scrivendo il libro avevo in mente una tradizione letteraria e cinematografica importante ma pressoché dimenticata: la tradizione del neorealismo; una prospettiva che non si è limitata a dare spazio a voci autentiche, prese dalla strada, ma che ha mostrato come le “vite maledette” crescano con la complicità dell’indifferenza e della disuguaglianza. Per questo motivo credo che esista una vera e propria “Roma nascosta”: una vitalità tragica e disperata fino al punto da non trovare, nei salotti buoni della città, parole che possano descriverla o rappresentarla. Io ho cercato queste parole insieme a una lingua che potesse essere vicina all’esperienza delle borgate. Ad aiutarmi in questo percorso, i paesaggi di zone come Nuovo Salario o Primavalle, i luoghi dove sono nato e in cui vivo attualmente, insieme allo stupore che ho visto negli occhi di chi, lontano dai monumenti del centro, ci passa per caso. E puntualmente dice: ‘Ma davvero è sempre Roma questa qui?'”

Le sue storie sono romane; potrebbero accadere altrove?
“Le brutte storie accadono dovunque, ci mancherebbe. Ma Roma ha dalla sua degli scenari particolari. Penso al Tevere, per esempio. Un fiume che nasconde anfratti di assoluto degrado e che, nei momenti più inaspettati, ha rovesciato sulle spiagge del litorale i poveri resti di reati innominabili. Penso anche alla forma particolare della criminalità capitolina: un sodalizio che ha ereditato l’indipendenza che fu dei bulli romani ma che ha cercato la complicità delle istituzioni e della “malapesante” quando un affare come quello della droga ha garantito introiti miliardari al mercato dell’illegalità. Accanto a tutto questo, il particolare melting pot di cui la città è stata teatro, amalgamando prima l’emigrazione proveniente dalle campagne del meridione italiano e oggi i flussi proveniente da tutte le periferie del mondo. Accanto a tutto questo, serpeggiano malesseri almeno apparentemente minori ma enormemente diffusi: la penuria di alloggi, il costo della vita, le ore necessarie a spostarsi – tra mille disagi – da un punto all’altro di una città enorme… elementi che concorrono a dare alle storie ‘nere’ romane una loro assoluta particolarità”.

Quale futuro per le megalopoli?
“Abbiamo visto quello che è accaduto a Parigi: il disagio può essere ignorato, negato, represso… prima o poi esplode lo stesso però! Anche a Roma si sono vissuti episodi simili a quelli avvenuti oltralpe, basti pensare all’assalto alle caserme scatenatosi all’indomani della morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, ucciso da una pallottola esplosa da un operatore di polizia. C’è anche questa storia tra i ventisette racconti che compongono Roma noir: una raccolta che, più che prevedere il futuro, prova almeno a interpretare la realtà”.