La sindrome di Robin Williams

Nemmeno il tempo di dare alla notte il modo di trasformarsi in giorno. Poi le bacheche dei social network, ancora prima delle pagine dei quotidiani on-line, sono state prese d’assalto con una notizia terribile e commovente: Robin Williams è morto. Il “mio capitano” de L’attimo fuggente ha perso la sua battaglia contro il male oscuro della depressione e, nella sua residenza californiana, si è suicidato.

Gli ultimi istanti della vita di Robin Williams, a questo punto, si sono già trasformati in frasi che, con l’aiuto di photoshop, si accompagnano a fotografie in cui l’attore, indossando i panni del professor John Keating, declama il Carpe Diem di Orazio, incarnando nel senso comune un ideale anticonvenzionale e libertario, se non addirittura rivoluzionario, tristemente affine al suicidio – questo suggeriscono le immagini in questione – se si tiene conto della realtà del mondo in cui viviamo, per nulla incline ai sensibili e ai ribelli.

Con un sospiro di circostanza, a questo punto, il popolo di internet può tranquillamente passare oltre, concludendo che tutto sommato è meglio rigare dritto, continuando ad accettare compromessi e, al massimo, coltivando nel privato stravaganze affini a quelle responsabili del suicidio del tanto amato attore hollywoodiano. Questo, almeno, è quello che la proteiforme informazione sul caso, equamente divisa tra messaggi personali e media mainstream, sta suggerendo in merito alla morte di Robin Williams. E se non è stato in grado di reggere botta un personaggio come Williams, è il senso inconscio della comunicazione, figuriamoci l’uomo medio e comune, invariabilmente destinato alla malamorte nel momento in cui dovesse decidere di rompere gli ormeggi dell’ordine a cui è destinato, magari prendendo spunto proprio dall’attore prematuramente scomparso e dal suo film più famoso.

Archiviando per un attimo tra queste righe l’incredibile capacità delle sovrastrutture del capitale nel trasformare in messaggi conservatori gli eventi più disparati del vivere quotidiano, sarà bene ricordare come di Robin Williams esistano ben altre immagini oltre a quella del professore illuminato disposto a sacrificare tutto ai suoi ideali pedagogici. Esistono, per esempio, fotografie dell’attore che, indossando una maglietta con la scritta (in arabo) “I Love New York”, arringa e intrattiene le truppe statunitensi impegnate in Kuwait e in Afghanistan: una realtà che, tra le altre cose, si sposa molto male non soltanto, per stare nella filmografia di Williams, con l’ideale del professore antisistema de “L’attimo fuggente”, con l’incapacità di crescere (cioè di omologarsi)  di Peter Pan, con l’ironia stralunata dell’alieno Mork o con la lucida follia de “La leggenda del re pescatore”, ma anche con quell'”odio i nazisti dell’Illinois” strettamente associato a John Belushi, di cui l’attore suicida fu grande amico.

Una certa coerenza suggerisce che il “mio capitano” de “L’attimo fuggente” non avrebbe mai prestato il suo volto al militarismo nazionalista, né avrebbe pervertito i versi di Orazio a uso e consumo dell’imperialismo a stelle e a strisce. Molti diranno che un conto è l’attore, un altro è la persona. Ma dietro ogni maschera c’è lo stesso individuo, anticonformista e libertario per la macchina da presa, ridotto a macchietta di se stesso quando intrattiene le truppe statunitensi con la maglietta “I love New York”… a quale interpretazione bisogna prestare fede?

O meglio: dove finisce la macchina da presa e dove inizia l’essere umano?

La domanda, a ben vedere, non riguarda soltanto Robin Williams. Al contrario, l’intero pianeta è nella realtà costretto a vivere all’interno di un universo di valori – onestà, giustizia, rettitudine, bontà, fratellanza, solidarietà… eccetera, eccetera – che lo stesso sistema provvede a negare minuto dopo minuto, sfruttando il lavoro, imponendo immani carneficine nei luoghi riottosi del pianeta, devastando territori nel nome del profitto e chi più ne ha più ne metta. Ogni singola esistenza, in queste condizioni, è preda delle contraddizioni più atroci e posta di fronte a un bivio: cedere all’alienazione totale del sé, e magari andare a sculettare per l’esercito nel corso di qualche operazione militare; oppure lottare affinché la distanza tra ideali e realtà si riduca fino a dissolversi del tutto, almeno negli ambiti più vicini alla propria esperienza e alla propria esistenza.

Chi sceglie il secondo cammino non avrà vita facile. La repressione è in agguato ed è pronta a colpire in mille modi, non soltanto con i manganelli della polizia e le inferriate di una galera. A sorreggere il percorso, in ogni caso, c’è un diffuso senso di benessere che comunque accompagna chi trova la forza, giorno dopo giorno, di “fare la cosa giusta”.

D’altronde chi, evitando di mettere in discussione un ordine irragionevole, accetta di alienare la realtà dei valori a uso e consumo di interessi reazionari e antiumanistici, per esempio evitando di ribellarsi alle condizioni di sfruttamento che ha sotto gli occhi, delegando la partecipazione alla vita politica, aderendo a piattaforme semplificate di produzione di senso comune e magari affidando la rappresentazione di un presunto “vero sé” a momenti circoscritti come quelli passati da Robin Williams dietro una cinepresa, non potrà pensare di dormire sonni tranquilli. I compromessi con cui scendere a patti, giorno dopo giorno, si ingigantiranno fino a inghiottire ogni residua traccia di individualità. E a questo punto possiamo ribattezzare “sindrome di Robin Williams” il momento in cui, per ritrovare se stessi, resta solo la morte, momento supremo di superamento dialettico di ogni dolorosa contraddizione.

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