Kurdistan e lotta di classe

Nella querelle, direi minoritaria (per usare un eufemismo) a livello di penetrazione sociale del dibattito pubblico, che in questi giorni, a partire da un comunicato del Comitato No Nato e della Rete No War, sta spingendo alcuni osservatori ad attaccare da sinistra, al grido di «servo degli americani» o quasi chi esprime la propria solidarietà nei confronti della lotta del popolo curdo, mi colpisce soprattutto una cosa. E non mi riferisco al merito di particolari visioni geopolitiche dell’universo conosciuto e sconosciuto, né al problema della loro pertinenza, ma al vezzo di definire “moda” quella che sarebbe solo una momentanea infatuazione pro-curda. Chiamare “moda” il consenso alla causa curda, infatti, cancella come se non fosse mai esistito il lavoro di lunga durata portato avanti tra mille difficoltà dai militanti del Pkk e nega la capacità e la pazienza con la quale da tempo immemorabile uomini e donne curde si sono preoccupati di essere parte attiva in tutti i luoghi in cui il discorso sul Kurdistan è risultato pertinente rispetto all’analisi delle molteplici problematiche nazionali e internazionali prodotte dall’imperialismo. Quello che ha fatto il Pkk, in sostanza, e al netto di tutte le contraddizioni di volta in volta riscontrate sul campo, è stato preoccuparsi di esistere sulla base di un seguito materiale, e non soltanto in virtù di una proiezione analitica o ideologica. Chiamare “moda” tutto questo, non solo nega la specificità della lotta curda, finendo per attribuirla a una sorta di congiuntura eterodiretta, cosa che è come minimo falsa, ma fa emergere tutti i limiti di una sinistra che rischia di rivelarsi ontologicamente incapace di ancorare le proprie posizioni a una base sociale diversa da quella che è possibile creare limitandosi ad animare guerre di comunicati o polemiche su facebook.

Beh, per fortuna che ieri in piazza, alla manifestazione per il Kurdistan organizzata a Roma, tra le circa diecimila persone che hanno sostenuto e sostengono il Rojava, una netta maggioranza era distinguibile, oltre che per una chiara connotazione di classe, anche per il fatto di essersi già impegnata e per continuare a impegnarsi nel contrastare le campagne condotte ai danni di Serbia, Libia, Siria, Palestina e di ogni altra parte del mondo di volta in volta descritta come «cattiva» dalle narrazioni main stream, nella convinzione, che quando a comandare sono i profitti, “vostre sono le guerre / nostri sono i morti”. Queste stesse persone hanno arricchito il corteo con parole d’ordine inerenti la questione delle abitazioni e il diritto allo studio, l’antifascismo e l’antissessismo, la disoccupazione e lo sfruttamento sul lavoro, la libertà d’espressione e quella di movimento. Pare che moltissimi di questi manifestanti, tra l’altro, non sapessero nulla di geopolitica (tra i proletari presenti, alcuni non sarebbero neanche capaci di leggere o di scrivere), ma che tutti e tutte, all’occorrenza, fossero in grado di serrare i ranghi in un picchetto, resistere a uno sgombero e a uno sfratto o muoversi in corteo selvaggio: l’abc della lotta di classe – vale a dire l’unico luogo da cui, ogni volta che si parla di antimperialismo, bisognerebbe essere capaci di ricominciare.