Resistere allo Stato

Probabilmente il merito andrà al fatto che, come tutti i classici, Stato e rivoluzione di Lenin è un libro «che non ha mai finito di dire quello che ha da dire». Eppure il momento in cui questa nuova edizione di una delle opere più rappresentative del padre della rivoluzione d’Ottobre vede la luce sembra essere stato previsto dal caso per sbalordire gli scettici, ai quali non resterà, una volta sbarrati gli occhi, che scegliere tra due alternative: 1) considerare Lenin come un novello Nostradamus, riconoscendo quindi alla preveggenza uno status di tipo scientifico; 2) ripensare al marxismo-leninismo, in rapporto alla sua capacità di leggere il reale e, di conseguenza, di indicare una via di uscita dal mondo mercificato del Capitale.

Il mondo mercificato del Capitale, ovviamente, è quello in cui siamo costretti a vivere. In genere con la convinzione, indotta dal Capitale stesso, di essere afflitti da problematiche senz’altro gravi (la povertà, la disoccupazione, lo sfruttamento senza limiti e la cementificazione dei nostri territori, la crisi degli alloggi, eccetera), ma in fondo «naturali», come se invece che di precise conseguenze dei rapporti sociali vigenti, e quindi della relazione asimmetrica tra sfruttatori e sfruttati, stessimo parlando di fenomeni atmosferici tipo pioggia o grandine.

Ma una volta chiarito come l’unica cosa «naturale» su questa terra sono, e saranno sempre, gli sforzi con cui gli oppressi tentano di spezzare le loro catene, qual è, invece, l’attualità rispetto alla quale Stato e rivoluzione è in grado di intrattenere un dialogo risolutivo?

Ebbene, nel momento in cui scrivo, mentre dalla stessa redazione della casa editrice e dalla tipografia s’intensificano i richiami all’urgenza di chiudere il tutto e di andare in stampa (siamo pur sempre in un regime capitalistico, e come la vita chiamata a contenerli, anche gli spazi della riflessione e dell’analisi si comprimono combattendo una feroce battaglia per lo loro stessa sopravvivenza…), si consuma l’infelice epopea del leader greco Alexis Tsipras e di Syriza, l’organizzazione che anche in Italia aveva trovato numerosi epigoni insieme a vecchi e nuovi arnesi della sinistra parlamentare pronti a saltare sul carro di un vincitore incapace di rivelarsi tale. Ma cosa è successo effettivamente in Grecia?

Il paese ellenico, aggredito dai desiderata del comitato d’affari malamente nascosto dalle vesti istituzionali dell’Unione Europea e restato senza ossigeno in virtù degli interessi di un debito insostenibile, è passato per una battaglia parlamentare e per un referendum popolare che, dopo aver rispedito al mittente i diktat della signora Merkel e dei suoi sodali, non è riuscito a ottenere nulla di molto diverso di quanto già preteso dagli strozzini della Troica. Infatti, come riassume il Collettivo Militant sul suo blog: «Nella notte tra il 13 e il 14 agosto il parlamento ellenico ha approvato il terzo piano di aiuti, corredato dal terzo pacchetto di misure che l’Eurozona ha preteso come prova della “buona” volontà. Buona per modo di dire dato il contenuto delle misure. Sono state infatti approvate circa 57 riforme, che vanno dalla reintroduzione dei licenziamenti collettivi alla revisione della contrattazione aziendale, dall’abolizione delle baby pensioni fino alle privatizzazioni, nodo fondamentale di questo terzo pacchetto. Entro ottobre dovranno essere presentate le offerte per le privatizzazioni del porto del Pireo e di Salonicco, verranno inoltre privatizzati la rete elettrica Admie e gli aeroporti regionali» (http://bit.ly/1IJYSmC).

Alla Grecia, in sostanza, non restano più neanche gli occhi per piangere. E la speranza di Tsipras, mentre Syriza si spacca e il paese va verso nuove elezioni, si traduce in un territorio depredato della sua stessa sovranità, una specie di zona economica speciale occulta dove pochi, grandi investitori potranno fare qualunque cosa di uno spazio completamente privatizzato, mentre nel corso della crisi la stessa aspettativa di vita dei greci è calata significativamente proprio in virtù delle politiche di austerità adottate per ridurre i costi della spesa pubblica a discapito di qualunque esigenza della popolazione (vedi la relativa ricerca pubblicata dalla rivista medica «Lancet», http://bit.ly/1Q8TqjC).

Si potrebbe dire, e sarebbe senz’altro corretto, che l’errore di Tsipras sia stato quello di muoversi all’interno di un orizzonte in cui l’istituzione europea viene vissuta come riformabile. Eppure, ammesso e niente affatto concesso che quello di Tsipras sia un errore piuttosto che la precisa scelta di un partito liberal (anche la parola «socialdemocrazia» sembra forte di fronte ai risultati raggiunti…) e non di un’organizzazione di classe, la parabola di Syriza dà la parola a Lenin rispetto a un orizzonte ancora più vasto. Lo Stato di cui parla Lenin nel suo libro, infatti, non è nient’altro che il «prodotto dell’antagonismo inconciliabile tra le classi», e poco importa se l’esigenza di un suo rafforzamento lo abbia fatto passare dai confini nazionali a quelli europei. L’intento resta pur sempre quello di razionalizzare le politiche di dominio, rendendo sempre più efficace la tutela da parte degli organismi spacciati come pubblici di ciò che sono soltanto gli interessi di pochi.

Rispetto a simili istituzioni il compito di una struttura politica che si muove nella tradizione del movimento operaio resta identico. Si tratta, come scrive Lenin, di assumere su di sé la «funzione di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia». Tutto il resto, all’epoca di Stato e rivoluzione, coincideva con i termini di «revisionista» o di «opportunista», utilizzati da Lenin a mo’ di insulto contro i «rinnegati», contro, cioè, chi, in cambio di un comodo posto in parlamento, aveva impiegato davvero poco ad anestetizzare il marxismo, sfruttando il prestigio del materialismo tra le masse per un uso e un consumo antitetico rispetto alle autentiche necessità rivoluzionarie degli sfruttati.

Da questo punto di vista, Stato e rivoluzione è un libro di filologia marxista e viene portato avanti tenendo ben presente l’esigenza di fare chiarezza su ciò che davvero avevano scritto Marx ed Engels. Un’operazione quanto mai necessaria, considerando come la coeva legislazione antisocialista aveva prodotto una quantità imprecisata di versione edulcorate di libri come lo stesso Manifesto del Partito comunista, mentre dove non era arrivata la censura ci avevano pensato diversi autori provenienti dal campo del materialismo dialettico ad edulcorare con il loro revisionismo il senso di quanto originariamente affermato dai grandi filosofi tedeschi.

Il campo di battaglia su cui si stava combattendo l’accesa disputa era sostanzialmente uno: quello della rivoluzione. Perché, come dimostra Lenin in modo inequivocabile, se parliamo di Marx ed Engels parliamo di un processo al culmine del quale: «il proletariato distrugge l’“apparato amministrativo” e tutto l’apparato dello Stato per sostituirlo con uno nuovo, costituito dagli operai armati».

Il corsivo nel testo è dello stesso Lenin. Ai nostri tempi, invece, appartiene il problema di respingere nel terreno della superstizione (o del vile interesse personale) la posizione di chi crede nella possibilità di arrivare a un capitalismo «dal volto umano», come se fosse possibile chiedere a una balena di essere grande come un pesce rosso e di farsi le sue nuotate in una boccia di cristallo. È vero anche che se Lenin chiudeva il suo libro portando a casa il risultato epocale del trionfo della rivoluzione d’Ottobre e che se Marx e Engels scrivevano avendo ben chiari esempi come quello della Comune di Parigi, cioè la madre di tutte le rivoluzioni proletarie, in tempi come i nostri è diventato difficile dedicare parole a progetti di riscatto universale senza essere, nella migliore delle ipotesi, relegati in una galleria popolata da personaggi bizzarri e nostalgici, vecchi ancora rincoglioniti dalla sbornia presa con un liquore imbottigliato dal Novecento. Eppure riferimenti più vicini a ciò che quasi possiamo toccare con mano non mancherebbero. Pensiamo per esempio alla Resistenza al fascismo: cosa è stato quel glorioso movimento – non a caso reduce da settant’anni di attacchi opportunistici – se non il frutto di un’organizzazione popolare decisa a far valere il proprio NO all’abominio?

La Grecia, per tornare all’esempio iniziale, ha detto NO alla Troica. Ma il comportamento di Tsipras e di Syriza ha impedito al Paese di organizzare i fermenti di rivolta in una Resistenza. Il fallimento, in questo modo, è stato inevitabile ma, leggendo Stato e rivoluzione, non certo imprevedibile. Mi riferisco in modo particolare al passo in cui Lenin, appoggiandosi a Marx ed Engels, spiega come: «L’onnipotenza della ricchezza è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo».

Mentre, continua Lenin: «I democratici piccolo-borghesi (…) aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa “di più”. Essi condividono e inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio universale possa “nello Stato odierno” esprimere realmente la volontà della maggioranza dei lavoratori e assicurarne la realizzazione».

Non è forse questo quello che è successo in Grecia? Non sventolavano forse, in quel paese come in moltissimi altri, mille bandiere con l’orgogliosa scritta «OXI»? E non è stato forse quell’OXI, cioè quel NO greco, a trionfare nel corso del referendum anti Troica citato poco fa? Eppure quale è stato l’esito dell’espressione democratica della volontà popolare greca?

E se non vogliamo attraversare l’Adriatico, restiamo in Italia, e chiediamoci piuttosto, parlando per esempio del referendum dedicato all’acqua pubblica, quale sia stata la sorte di quel voto: apparentemente, il trionfo schiacciante di un NO alla privatizzazione…

Esattamente come nel caso dell’OXI greco, la sorte del NO italiano è stata quella di una volontà popolare ridotta a semplice carta da culo dai poteri forti: e come poteva essere altrimenti visto che è solo per loro e la loro tutela che è nato quell’organismo socio-politico definito «Stato»?

Per questa ragione, e per una lettura di Stato e rivoluzione coerente con ciò che resta della volontà di essere sempre e comunque quel «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», si può pensare di ripartire dai NO espressi dalla volontà popolare con una nuova consapevolezza. Che si tratti di lottare contro le grandi opere inutili e imposte (dalla linea ad Alta Velocità alle trivellazioni), contro gli sfratti, contro lo sfruttamento del lavoro o il razzismo nei confronti di rifugiati e migranti, dire NO significa organizzare la Resistenza o non significa nulla (http://bit.ly/1Oc5Vtt).

Mi sembrerebbe, questo, un buon modo per ricominciare a tracciare dei confini precisi tra la sinistra di classe e le organizzazioni filo-padronali e/o piccolo borghesi da cui siamo afflitti, quando non direttamente governati. Mi sembrerebbe, questo, un buon modo per evitare settarismi, affondare le proprie radici nel solido terreno dei bisogni e, alla domanda «cosa vogliamo?», continuare a rispondere «tutto» ricordandoci che non stiamo parlando di una delibera, di una riforma o di un qualche accordo sindacale. Ma di assaltare il cielo.

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Vladimir Lenin, Stato e rivoluzione“Resistere allo stato”, in Vladimir Lenin, “Stato e rivoluzione”, a cura di Cristiano Armati, con un saggio su Lenin e lo Stato di Iñaki Gil de San Vicente; Red Star Press, 2015

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