La bandiera dell’odio. Brevi note dal mondo perduto di Bruno Breguet

È incredibile come storie un tempo sulla bocca di tutti e persino in grado di sollecitare importanti mobilitazioni internazionali possano sparire senza lasciare alcuna traccia nella memoria collettiva.

Quella di Bruno Breguet è una di queste storie. Una storia degli anni Settanta, si potrebbe aggiungere, e il particolare, grazie al portato simbolico di cui resta capace l’evocazione di quel decennio, racconta già un pezzetto di verità. Perché se oggi non sappiamo più rispondere alla domanda «chi è Bruno Breguet?», la sopraggiunta ignoranza ha a che fare anche con la fretta con cui si è provveduto a sigillare con l’etichetta «anni di piombo» istanze, desideri, rivendicazioni, lotte e progettualità politiche inerenti a problemi in realtà più vivi che mai.

Prendiamo La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Raccontando i suoi Sette anni nelle prigioni israeliane, l’autore non si limita a consegnarci un testo di grande forza emotiva né, il suo, è un semplice contributo alla letteratura concentrazionaria prodotta in ogni tempo e in ogni paese. Breguet, infatti, compone il suo testo nel «qui» e nell’«ora» di una fase particolare del cosiddetto conflitto «israelo-palestinese». Un «qui» e un «ora» dove, a ben vedere, la terminologia etnica oggi comunemente utilizzata per descrivere la «questione» ha uno diritto di cittadinanza pressoché irrilevante. Il conflitto di cui Breguet è protagonista, infatti, se trova nella Palestina il suo fronte geografico s’inserisce, in realtà, nell’ambito internazionalista della lotta di classe, parla il linguaggio sintetizzato da slogan come «Palestina libera Palestina rossa», supera una dialettica di tipo patriottico e, dopo aver denunciato l’oppressione di classe subita tanto dai palestinesi quanto dai proletari ebrei, incarna un capitolo dell’eterna guerra tra sfruttati e sfruttatori: quella guerra che, negli anni Settanta, veniva declinata attaccando le dinamiche neocoloniali, messe in pratica dallo stato di Israele in Medio Oriente come dalle potenze occidentali in tutte le parti del mondo. Per questa ragione persino l’elemento religioso, all’interno de La scuola dell’odio assume un ruolo marginale, diventando una componente problematica ma prima di tutto minoritaria e isolata delle lotte animate all’interno del carcere. Nella stessa istituzione totale vissuta da Breguet, inoltre, perfino la strategia, largamente utilizzata in qualunque carcere, di opporre i prigionieri lungo linee di tipo razziale per semplificare il loro controllo, non ha ancora avuto la meglio, motivo per il quale un detenuto comune ebreo ha molto più da spartire con un detenuto politico palestinese che non con una guardia carceraria israeliana. Una simile constatazione, in effetti, dovrebbe essere ovvia se si osserva la realtà dal punto di vista degli interessi oggettivi delle parti in causa; eppure finisce per risultare sacrilega oggi, quando i concetti di «etnia», «razza» e «religione» diventano i cavalli da battaglia con i quali negare il peso dell’unica differenza sostanziale, quella che continua a separare in modo insanabile chi sfrutta da chi viene sfruttato.

Bruno Breguet
Bruno Breguet

Eppure è proprio questo il campo in cui inserire le scelte di Bruno Breguet, nato a Muralto, cittadina della Svizzera italiana, nel 1950 e, non ancora ventenne, pronto ad arruolarsi tra le fila del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diventando in seguito il primo membro «straniero» della resistenza palestinese a subire il carcere. Come d’altronde scrive lo stesso Breguet ne La scuola dell’odio, commentando le vicende successive al suo arresto avvenuto in territorio israeliano il 23 giugno del 1970, le ragioni della sua militanza discendono direttamente da un momento storico in cui: «L’analisi dell’imperialismo e del sottosviluppo permetteva di capire il legame tra l’impegno politico all’interno della metropoli capitalista e le lotte dei contadini dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina uniti insieme nella lotta contro la potenza del dollaro e contro le varie borghesie nazionali» (Bruno Breguet, La scuola dell’odio, Red Star Press, 2015).

Uno scenario, dunque, marcatamente internazionalista, «scomodo» già sul nascere per il modo in cui prometteva di sconvolgere i piani del mercato e del pensiero unico e, anno dopo anno, declassato come se si stesse parlando di una «moda culturale» e non della visione di un progetto di liberazione capace di coniugare la lungimiranza dell’analisi politica con i nobili ideali della giustizia sociale. Come scrisse dalla Svizzera il «Collettivo nazionale per la liberazione di Bruno Breguet», formatosi solo nel 1975: «Nei vivaci dibattiti che pure caratterizzarono l’inizio degli anni Settanta, un dato era generalmente acquisito: il declino del terzomondismo, da cui anche una scarsa considerazione per le azioni di solidarietà internazionale» (Appendice in Bruno Breguet, La scuola dell’odio, La Pietra, 1980).

Allo stesso Collettivo, il merito di aver velocemente colmato il ritardo rispetto alle azioni di solidarietà nei confronti del prigioniero ticinese, ma anche di aver mostrato le responsabilità degli stati europei nella definizione della situazione palestinese e, più in generale, il loro ruolo di protagonisti nel generale assoggettamento di popoli e territori agli interessi del capitalismo globale. Fu grazie al Collettivo Breguet se il nome del militante del Pflp s’impose sulla scena pubblica, arrivando a raccogliere il sostegno d’importantissime personalità della cultura in un appello internazionale alla sua liberazione. Per rendersi conto dell’eco assunto dalla notizia, basti dire che, a firmare per la libertà di Breguet, furono, tra gli altri, personaggi come Roland Barthes, Louis Althusser, Manuel Castells, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Michel Foucault, Jacques Le Goff, Edgard Morin, Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Friedrich Dürrenmatt, Günther Grass, Noam Chomsky e, dall’Italia, Dario Fo, Franco Fortini e Alberto Moravia. Tutto ciò accadeva nel 1977, quando Breguet aveva già scontato i due terzi della pena a cui era stato condannato e quando, grazie anche alle pressioni internazionali, il militante ticinese avrebbe effettivamente riguadagnato la strada di casa insieme alla libertà.

Quella accennata fino a qui, però, è, in rapporto a Bruno Breguet, soltanto il pezzo della vicenda necessaria a spiegare la genesi de La scuola dell’odio e, nei fatti, coincide con la pubblicazione del libro, avvenuta per la prima volta nel 1980 grazie all’iniziativa della casa editrice milanese La Pietra. Guidata dall’ex partigiano Enzo Nizza, nome di battaglia «La Pietra», l’etichetta con cui uscì La scuola dell’odio è essa stessa frutto di una riflessione culturale e politica che, complice lo stretto rapporto tra Nizza e il «massimalista» Pietro Secchia, avrebbe abbracciato in un solo catalogo libri dedicati alla guerra partigiana e alle esperienze delle lotte di liberazione dei popoli oppressi.

L’eredità resistenziale e anticolonialista di Secchia, morto nel 1973, considerata la lungimiranza del partigiano piemontese ma anche le sue posizioni, con il tempo sempre più eretiche rispetto alla linea ufficiale del Partito Comunista prima di Togliatti e poi di Amendola, potrebbe e dovrebbe essere riscoperta e problematicizzata proprio a partire dalla pubblicazione di un testo come La scuola dell’odio in quella che fu la «sua» casa editrice. In quel periodo, tra l’altro, Breguet si trovava a Londra per proseguire gli studi di economia iniziati in carcere. Eppure non è l’arrivo nelle librerie italiane e ticinesi delle memorie dedicate ai suoi sette anni di carcere a salutare l’uscita di scena del militante svizzero. Il nome di Breguet, infatti, torna a circolare già nel 1982 quando, con il nome di battaglia di «Luca», viene arrestato a Parigi insieme a «Lilly», al secolo Magdalena Kopp, compagna di Ilich Ramírez Sánchez e appartenente all’Organizzazione dei Rivoluzionari Internazionali (Ori), la sigla del venezuelano, più conosciuto con il soprannome di «Carlos lo Sciacallo».

Accusato di aver progettato di minare con un’auto-bomba la sede di un giornale libanese, Breguet sconta tre anni e mezzo di prigione ma, dopo di allora, «esce dal giro» e, a parte un avvistamento a Damasco datato 1986, il suo nome non compare più in alcun rapporto, né si torna a parlare di lui sui giornali. Sappiamo solo che ha imparato il mestiere di carpentiere e che si è trasferito nella cittadina greca di Perdika, dove vive con la compagna Carol-Anne e Shona, la loro bambina. Sappiamo anche che transita spesso in Italia: Ancona, infatti, è una tappa obbligata del viaggio che da Perdika conduce in Ticino; e anche il 10 novembre del 1995 Breguet si trova nel capoluogo marchigiano quando, per quello che sembra un banale controllo dei documenti, l’ex membro del Fronte viene fermato mentre scende dal «Lato», il traghetto greco proveniente da Igoumenitsa. Fino a qui, nulla di strano:

Un breve controllo alla frontiera e Bréguet potrà ripartire con la sua famiglia verso la Svizzera. Lo fa ogni cambio di stagione, ma questa volta è diverso. I doganieri italiani lo fermano, lo tempestano di domande: sospettano che stia trasportando un carico d’armi. Gli chiedono di aprire il portabagagli, perquisiscono la macchina, frugano dappertutto; ma non trovano niente. «Lei è persona non gradita sul suolo italiano», gli dice un agente. «La sua famiglia può proseguire, lei invece non può passare». Bréguet riesce comunque a fare una telefonata. Chiama suo fratello a Lugano, gli spiega la situazione. Non è la prima volta che, arrivato alla frontiera italiana, viene respinto. Gli era già successo l’anno prima. Un bel fastidio, certo, ma niente di grave. «Se non avete mie notizie nel giro di tre o quattro giorni, significa che ci sono problemi», dice prima di riattaccare. Viene quindi imbarcato nuovamente sul «Lato» e rispedito in Grecia (Emanuele Midolo, La scomparsa di Bruno Breguet, «Agoravox.it», 8 marzo 2012).

Sarebbe stata, questa, l’ultima volta in cui viene visto Bruno Breguet. Lo stesso capitano del «Lato», pur affermando che il ticinese si trovava effettivamente sulla sua nave fino a poco prima dell’approdo, non riesce a capacitarsi della «sparizione» del passeggero. E infatti bisogna aspettare almeno fino al 2001 affinché, dopo un ritrovamento di ossa umane avvenuto a Drepano, un’altra località greca, si possa almeno ipotizzare che questi resti appartengano proprio a Bruno Breguet. La fosca previsione scoperchia una nuova, inquietante possibilità. Breguet sarebbe: «Deceduto in seguito a una “crisi cardiaca” all’interno di un’installazione militare a Kaposvár, sud dell’ Ungheria. La stessa fonte precisa: niente torture, si è trattato di “un incidente”» (Olimpio Guido, «Caro Obama, notizie su Bruno?», firmato Carlos, lo «Sciacallo», dal «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2009).

Ai margini del mistero, si agitano le acque sporche dei servizi segreti e, senza trovare conferme definitive a nessuna ipotesi, si mette mano a uno scenario in cui trovano posto gli affari francesi in Algeria, la copertura di delicate informazioni rinvenute nella Germania Orientale negli archivi della Stasi, la possibile vendetta postuma dell’israeliano Mossad e un non meglio precisato coinvolgimento della Cia. Proprio all’agenzia statunitense, per esempio, fa riferimento anche Carlos nel 2009, indirizzando al neo-eletto presidente Obama una lettera aperta scritta nel carcere francese in cui sta scontando l’ergastolo: «Se Bruno è ancora vivo liberatelo», chiede il prigioniero al capo della Casa Bianca, «se è morto restituite le sue spoglie».

L’appello di Carlos non passa inosservato. E così il giallo sulla sparizione di Breguet torna di attualità nel 2012, quando Wikileaks inizia a pubblicare un pugno di mail provenienti dagli analisti della Stratfor (http://bit.ly/1F4dvS9), un carteggio in cui i collaboratori della compagnia d’intelligence texana fanno riferimento a uno scenario ancora più complesso, come quello che potrebbe riguardare le situazioni siriane e irachene, già attraversate dal gruppo di Carlos, e rispetto al quale la sparizione di Breguet potrebbe suonare come un avvertimento, affinché chi sa continui a non parlare. Ma a non parlare di cosa?

Anche solo provare a rispondere a questa domanda sarebbe un compito troppo gravoso rispetto a questo testo: una postfazione che saluta il ritorno in libreria de La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Eppure, come il classico messaggio lanciato in mare chiuso dentro una bottiglia, questo libro, a distanza di trentacinque anni rispetto alla sua prima edizione, sembra dirci qualcosa di più ampio rispetto alla terribile situazione vissuta dall’autore nelle prigioni israeliane. Ci dice, per esempio, che la guerra alla Palestina continua più crudele che mai. E ci obbliga a notare come, dalla Libia alla Siria, ciò che fu il socialismo arabo, il «mondo perduto» dal quale ha parlato Bruno Breguet, sia stato sistematicamente travolto dai feticci etnici e religiosi, agitati, con la maldestria degli apprendisti stregoni, dalla politica estera occidentale, indignata soltanto adesso per l’avvento della bandiera nera dello Stato Islamico: quell’Isis, Is o Isil che, a mo’ di nemesi storica, arriva a radicalizzare quelle stesse linee etniche e religiose sistematicamente preferite a Ovest di Raqqa, la capitale del Califfato, ai frutti di libertà e di uguaglianza offerti dalla lotta di classe.

Al libro di Brequet va riconosciuto il merito di aver intuito il problema quando questo non esisteva ancora nei termini drammatici di oggi. Se, da questa semplice osservazione, sarà possibile ricavare ulteriori spunti di riflessione rispetto a una realtà che certamente non è più quella del 1977 spetta ai lettori giudicarlo.

a.odiolibro_10491253_668492393256029_4414858388109203167_nPostfazione al volume La scuola dell’odio. Sette anni nelle prigioni israeliane di Bruno Breguet, a cura di Cristiano Armati (Red Star Press, 2015)

Lotta di classe e prospettive di salvezza: perché tanto odio? Perché abbiamo smesso di dire vogliamo tutto!

Ogni giorno masse di uomini e di donne aprono gli occhi e si scoprono a disagio con se stessi e con il mondo. Stanno male, ma non sanno dire bene il perché. Nel profondo del loro disagio, in realtà, si agita perenne lo spettro delle preoccupazioni economiche, l’ansia di non essere in grado di garantirsi un futuro degno di questo nome o quella, ancora peggiore, di non poter contribuire alla felicità dei propri figli o delle persone che amano; l’ansia, concreta, di non riuscire a pagare l’apparecchio per i denti al proprio bambino, di acquistargli gli occhiali di cui ha bisogno, di versare la quota per la gita scolastica o di saldare il tecnico che deve aggiustare la caldaia, quando il problema non è direttamente con il padrone di casa a cui si devono le minacce di sfratto. Una simile situazione, con il suo vissuto collettivo e la sua stratificazione generazionale, basta e avanza per rispondere alla domanda “perché tanto odio?” che possiamo farci osservando il crudele nervosismo da cui siamo assediati. Un “perché tanto odio?” di fronte al quale è facile restare attoniti se si ascolta la facilità con cui, tanto i politici quanto le persone della strada, augurano ai migranti di morire in mare o ai rom di essere bruciati vivi insieme ai loro figli. Che poi, a ben vedere, si tratta degli stessi politici e delle stesse persone della strada secondo cui gli omosessuali, ammessa e non concessa la libertà di coltivare nel privato la propria “perversione”, non dovrebbero avere alcun diritto di esporsi sulla scena pubblica e nemmeno il diritto di camminare mano nella mano o baciarsi, pena il legittimo risentimento di chi li osserva, e che se li aggredisce sono loro “che se la sono andata a cercare”. All’interno di questa linea di pensiero, tutt’altro che isolata, le stesse donne restano, se stuprate o uccise, quelle “che se la sono andata a cercare”… essendo “tutte puttane” a meno che non si parli delle proprie madri, sorelle o mogli, vale a dire a meno che tutte le donne non accettino di vivere all’interno di ruoli patriarcali nemici della propria voglia di esprimersi nei mille modi che ognuna può fare propri rispetto alle mille possibilità conosciute e a tutte quelle ancora da scoprire, cominciando, magari, proprio da quella possibilità che porta a denunciare la stessa “puttanofobia” come uno dei mali sociali da cui siamo irrimediabilmente afflitti. La domanda, in ogni caso, resta la stessa: “perché tanto odio?”. E la domanda si fa tanto più atroce quanto più ci si rende conto che la risposta, rispetto a quella massa di uomini e donne che tutte le mattine aprono gli occhi solo per scoprirsi in perenne disagio con se stessi e con il mondo, esiste da sempre. Tanto è chiara questa risposta, infatti, che i numerosi veli religiosi imposti a originarie rivendicazioni di carattere sociale e alle prospettive di libertà dei popoli oppressi, oggi – grazie all’insaziabile sete di capri espiatori da cui siamo animati – fa gridare all’estremismo islamico e lo addita come nemico pubblico numero uno, fa tranquillamente accettare persino la prospettiva di una guerra mondiale pur di non provare ad affrontare una semplice verità; pur di non provare ad articolare questa risposta primordiale. E questa risposta, censurata dalle sovrastrutture che accecano la coscienza di tutti, ha a che fare esattamente con quella tranquillità rispetto alla quale dovrebbe essere possibile affrontare il presente e il futuro e passa per una società dove la casa, la salute e la scuola siano la cornice di un percorso costruito in comune e garantito, insieme al diritto inviolabile al reddito e alla dignità, quando, al contrario, ci si ritrova in una situazione in cui è la stessa sopravvivenza – letteralmente – a essere messa in discussione. La risposta al disagio sociale ed esistenziale, al disagio che è esistenziale proprio perché è sociale, e che è sociale in quanto affonda le sue radici nell’economia differenziale in cui viviamo; questa risposta esiste da sempre e si chiama lotta di classe: vale a dire capacità di affidare alle proprie difficoltà responsabilità chiare, responsabilità figlie di quella divisione tra ricchi e poveri alla quale si è accettato di delegare l’accesso ai diritti più elementari e che, ogni giorno, condanna alla paura della morte fisica e sociale le stesse masse di cui stiamo parlando. Con la lotta di classe, quando la mattina si aprono gli occhi, non si ha voglia di affogare migranti, cacciare islamici o bruciare rom. Né, all’affannosa ricerca di un capro espiatorio, si viene rosi dalla necessità di sentirsi superiori agli omosessuali se eteresessuali, alle donne se si è uomini o ai neri se si è bianchi. Con la lotta di classe si stabilisce una volta per sempre che gli uomini e le donne sono nati uguali di fronte alla felicità di cui è intessuto il mondo, e ci si muove con l’obbiettivo di riconquistarla in tutte le sue forme e attraverso tutte le opportunità – molte ancora sconosciute – che sono capaci di offrirci le nostre menti e i nostri corpi. La lotta di classe è la strada del nuovo umanesimo in quanto uccide il capro espiatorio che ognuno sente la necessità di vedere nell’altro e perché indirizza l’odio direttamente alla fonte del male: verso il sistema padronale, fonte di abominio e di disagio generalizzato. Ognuno può scoprire autonomamente chi è che ha l’interesse di spostare questo odio dalla lotta di classe alle tante sfumature di presunta “diversità” di volta in volta additate come nemiche del popolo. E anche chiedersi come mai, dal razzismo all’uguaglianza di genere, persino quei diritti cosiddetti “a costo zero”, dal matrimonio gay allo ius soli, restano – in una società divisa in classi – tanto combattuti e tanto osteggiati da risultare negati a tutti gli effetti. La morale della favola? Difficile trovare mezze misure. Combattere il razzismo o la disuguaglianza di genere è l’obiettivo di qualunque vita degna. Ma per farlo davvero, alla domanda “cosa vogliamo?” bisogna inevitabilmente tornare a rispondere: “tutto!”.

Chi si è permesso di devastare Roma?

I tifosi del Feyenoord in trasferta a Roma fanno un po’ di casino in centro e Marino si incazza come un picchio. Il sindaco di Roma protesta con il Prefetto, il ministro degli Interni, quello degli Esteri e pure con l’ambasciatore dell’Olanda. Quante volte lo deve ripetere che non è che uno può venire a Roma e fare come gli pare? Per saccheggiare la città c’è una regolare lista d’attesa affollata di palazzinari, intrallazzatori, tangentisti, mafiosi e ladri di prima qualità. I tifosi olandesi non hanno nemmeno qualche palazzo in centro affittato a pochi euro al mese con gli impicci, come si permettono di parlare? Non possono competere neppure con la fondazione di Marino o con SEL, dove si presentano? A Campo dei Fiori hanno alzato la testa, è vero. Ma provassero a venire a prendersi la loro fetta di business tra i lupi delle cooperative che si spartiscono la torta dei soldi pubblici destinati ai residence o ai centri di accoglienza e poi vediamo se fanno ancora tanto i gaggi o se non si ritrovano tutti incaprettati in un attimo dentro a qualche sfascio fuori dal raccordo. E poi parliamoci chiaro, con tanti professionisti affermati a livello internazionale che derubano la Capitale e sventrano il suo territorio a tempo pieno, non è che un affare serio come il saccheggio può essere lasciato a un branco di dilettanti per cui lo stupro paesaggistico è solo un passatempo. E che cazzo.

“Una serie di violenze a cui i cremonesi non avevano mai assistito”

“Una serie di violenze a cui i cremonesi non avevano mai assistito”, scrive il “Corriere della sera” commentando la grande manifestazione antifascista del 24 gennaio:

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_25/jesuiscremona-giorno-scontri-antagonisti-polizia-06f621f8-a48b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml

Strano, perché considerando l’area in cui operò Roberto Farinacci, uno dei mazzieri più pericolosi del fascismo, direi che contadini, operai e il popolo cremonese tutto la violenza, quella vera, l’abbia conosciuta eccome, e potrebbe tranquillamente andare a spiegarla al “Corriere della sera”, che, al contrario di tanta stampa socialista, comunista o indipendente, la violenza fascista non l’ha davvero mai conosciuta, essendosi sempre ben guardato dall’avanzare alcuna critica nei confronti del regime mussoliniano, ma avendo invece avuto sempre premura di svolgere con diligenza il compitino di megafono del fascismo, senza mai permettersi di denunciare i massacri squadristi perpetrati dalle camice nere in tutta Italia.

Non avendo mai affrontato l’argomento, non è dunque strano se nell’archivio del “Corriere della sera” o nella memoria dei pennivendoli assoldati dal padrone di turno non vi sia alcuna idea della violenza, della sua realtà o dei suoi significati. Infatti sarebbe bastato anche un po’ di semplice buonsenso per capire come, parlando di “violenza a Cremona”, diventi più utile e appropriato interrogarsi sul senso dell’attacco squadrista subito dal CSA Dordoni solo pochi giorni fa: un assalto con spranghe che ha lasciato in fin di vita una persona a proposito della quale, ovviamente, il “Corriere della sera” non reputa sia il caso di parlare di “violenza”.

Episodi come quello che hanno mandato in coma Emilio o che, nel recente passato, hanno assassinato Dax a Milano o Renato a Roma, sono da considerare al massimo, per il “Corriere della sera”, “risse tra ubriachi” o “scontri tra punk”, quando non si preferisce parlare di “opposti estremismi” o di “rivalità calcistiche” per tirare un colpo di spugna sul senso politico degli avvenimenti.

Al contrario, il senso dell’assalto al csa Dordoni appare addirittura trasparente se lo si mette in parallelo con lo stillicidio di azioni violente che i gruppi fascisti hanno preparato e realizzato in tutta Italia. Dal rogo della libreria popolare dello spazio autogestito Grizzly di Fano all’assalto alla tifoseria dell’Ardita in trasferta a Magliano Romano, fino ad arrivare a Cremona e, soltanto il giorno dopo, a Parma, quando un’altra squadraccia ha provato a sfondare il portone di una casa occupata da famiglie in emergenza abitativa, la crescente iniziativa violenta dei gruppi fascisti può e deve essere inquadrata in un contesto politico più ampio: lo stesso contesto politico in cui l’evoluzione nazionalista della Lega di Salvini incontra la galassia nera italiana, fondendosi in un unico movimento fascioleghista, corteggiato dai media e accompagnato da tutte le tutele istituzionali del caso.

Già ieri, mentre la manifestazione antifascista organizzata a Cremona per dare una risposta concreta all’assalto del Dordoni era ancora in corso, si sono sprecati i soggetti politici pronti a stigmatizzare la “violenza”: dalla Cgil all’Anpi, da Sel all’Arci, è stato un coro univoco di “l’antifascismo non ha nulla a che fare con la violenza”… no?

http://www.cremonaoggi.it/2015/01/24/cgil-arci-e-anpi-violenza-che-non-ha-niente-a-che-fare-con-antifascismo%E2%80%9D/#more

E con cosa avrebbe a che fare quando è proprio la violenza ciò che consente al fascismo di interpretare il mandato padronale e di attaccare le sacche di resistenza alla generalizzata deprivazione dei diritti in corso?

Mentre, e non a caso, è sullo stesso csa Dordoni che inizia ad addensarsi la nube dei tanti, volenterosi e ovviamente falsi fustigatori della violenza –

http://www.laprovinciacr.it/news/cremona/108294/Il-sindaco—con-soggetti.html

– sono la stessa Cgil, la stessa Anpi, la stessa Sel e la stessa Arci a non trovare incredibile che un bieco individuo come Salvini sia libero di portare avanti un piano eversivo senza precedenti, di alludere nei suoi discorsi a minacce golpiste, di consentire la presenza all’interno della sua area di gruppi ai limiti del paramilitare e di incitare all’odio tutti i giorni, approfittando del grande spazio regalatogli dalla stampa compiacente sul genere de il “Corriere della sera”.

Ciò che però Salvini e i suoi sgherri conoscono benissimo, è la realtà di un’opposizione sociale autorganizzata, niente affatto disposta non soltanto a tollerare attacchi nei confronti dei compagni come Emilio, ma neppure a consentire inerme a pericolose pagliacciate stile “marcia su Roma” che la nuova Lega ha in programma nella Capitale il 28 febbraio.

Da questo punto di vista, un’altra falsità a carattere “etnico” apparentemente inutile scritta altrove dal solito “Corriere della sera” –

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_24/cremona-corteo-antagonisti-gli-scontri-casa-pound-348ea93e-a3da-11e4-808e-442fa7f91611.shtml

– secondo il quale la testa del corteo sarebbe stata presa “da un gruppo di romani, vestiti di nero e con caschi integrali, armati di aste e bastoni che avevano nascosto negli zaini”, è da leggersi come un’autentica minaccia nei confronti dei “malumori” che hanno accolto la notizia della manifestazione leghista. Intanto, comunque, essendo perfettamente al corrente che, sul piano in cui si trovano, lo scontro con i movimenti è inevitabile, con la moltiplicazione delle azioni violente i fascioleghisti stanno provando a conquistare nuovi spazi di legittimità proprio sul fronte della violenza, incontrando in questo tentativo – evidentemente riuscito – non soltanto la scontata compiacenza del “Corriere della sera”, ma persino il fiancheggiamento di realtà come Cgil, Anpi, Sel e Arci, a cui non resta che sventolare il simbolico fazzolettino arancione dell’opposizione-fantoccio, incarnando il dissenso educato dei benpensanti ma non certo la rabbia generalizzata delle masse.

Per questa ragione la giornata di Cremona ha avuto un’importanza epocale ed ha impartito una lezione da fare propria al più presto, riproducendo quella stessa determinata compattezza ovunque fascisti e leghisti abbiano intenzione di darsi convegno.

Le orde fascioleghiste, infatti, hanno ora in programma di prendersi lo spazio fisico e simbolico di un’importante piazza romana, soltanto il preludio a una situazione in cui attaccare e sgomberare spazi sociali e abitativi, come campi rom, picchetti operai e ogni luogo di dissenso pratico o teorico, diventerà un qualcosa di assolutamente “normale” nell’Italia asservita ai poteri forti messa in piedi da Renzi: il luogo migliore per dare modo al brodo di cultura fascistoide di lievitare fino alle più gravi conseguenze. Il luogo in cui, questo è bene saperlo, la parola “violenza” sarà utilizzata sempre per stigmatizzare chi si oppone. Almeno finché il cartello “vendesi” non verrà apposto soltanto sulla porta della sede di Casapound Cremona, ma anche sui palazzi dove tramano l’uscita in grande stile dalle fogne gli interpreti principali di questo disegno, a cominciare dalla Lega Nord di Milano.

La fabbrica dell’odio. La propaganda razzista sulla stampa italiana oggi

Certo che non deve succedere davvero niente ad Alessandria. Anzi, qualcuno dovrebbe prendere un treno e andare a controllare se per caso, da quelle parti, non siano tutti morti. Diversamente sarebbe difficile capire come sia possibile prendere due ragazzini di otto e dieci anni che si accapigliano sullo scuolabus e trasformare l’accaduto in una notizia da sparare in prima pagina. A riuscire nell’impresa di spacciare come notizia il puro nulla è “Il Piccolo” grazie a un “articolo”, firmato da tale Marcello Feola, che non si limita, con la sua banalità, a buttare altro inchiostro nell’indistinto mare del “chi se ne frega”, ma si contraddistingue per un’operazione di propaganda razzista degna… dell’Italia di Renzi, considerando che questi sono i tempi e questo è il paese in cui (soprav)viviamo.

Senza alcun ritegno, infatti, il sopracitato Feola scrive che: “Una bimba di 8 anni è stata picchiata da un compagno di scuola extracomunitario – di due anni più grande – sullo scuolabus”.

La “vittima”, quindi, secondo il Feola è una “bimba”, mentre colui che l’avrebbe colpita non è ugualmente un bambino, ma un “extracomunitario”.

Già questo, come evidente, basta ad innescare il meccanismo principe del razzismo: una linea di demarcazione dove sono sufficienti due parole per concentrare da un lato tutta l’umanità – la “bimba” – spogliando, al contrario, di ogni identità e di ogni termine utile a suscitare empatia ciò che viene artificiosamente dipinto come bestiale e pericoloso, non più il “bambino”, quindi, ma “l’extracomunitario”.

Non contento, il Feola rincara la dose dando la parola alla madre della “bimba” (l’extracomunitario, ovviamente, viene privato di ogni diritto di parola: per lui non ci sono familiari, amici, nulla; sola un’indistinta bestialità evocata dai gesti), che affranta esclama: “Come è possibile che sia potuta accadere una cosa del genere?”.

Lo stupore, ovviamente, dovrebbe riguardare ben altro: chiunque sia stato bambino e, con il passare degli anni, genitore, avrà un bagaglio sterminato di aneddoti per confermare come le baruffe tra ragazzini siano sempre state all’ordine del giorno. Fatti che in passato venivano affrontati “dai grandi” cercando di rispettare il buonsenso secondo cui le questioni tra ragazzini facevano bene a restare tra ragazzini, ora finiscono in prima pagina. E il giornale di Feola, per trasformare l’incidente in incitamento all’odio, abbandona il linguaggio colloquiale con cui inizia l’articolo per cedere la parola, strada facendo, alla terminologia medica, suffragando implicitamente grazie alla “scienza” la bestialità dell'”extracomunitario”: cioè di un bambino di dieci anni.

Si cita, quindi, il referto del pronto soccorso: “Trauma facciale e nasale – si legge – con infrazione del terzo medio delle ossa proprie del naso”; tutte parole senz’altro più paurose di quanto non sia il senso implicito in un banale cazzotto. Un atto che comunque non è certo destinato a restare impunito. Infatti, come si premura di farci sapere “Il Piccolo”, il certificato medico è “stato inviato d’ufficio, come sempre accade quando si tratta di atti di violenza che vedono coinvolti i minori, all’autorità giudiziaria”. Anche se poi, i gestori dello scuolabus, non hanno certo avuto bisogno di aspettare l’esito di un processo per emettere la loro condanna: “L’azienda dei trasporti, intanto, ha escluso dal servizio il ragazzino autore dell’incredibile gesto”.

Ad essere “incredibile”, ovviamente, è il fatto di riuscire ad accettare questo modo di fare giornalismo e di fabbricare le notizie. Un modo che, più che ad Alessandria – una città viva e vegeta, dove, per esempio grazie alla pratica delle occupazioni abitative, si lotta per i propri diritti mettendo in discussione lo stato di cose presenti – fa pensare direttamente al Ventennio e, più che a “Il Piccolo”, rievoca il modo di scrivere dei redattori de “La difesa della razza”. E, come sempre, citando M. L. King, a fare paura non sono le parole dei malvagi come il giornalista che ha scritto questo pezzo. Quello che spaventa davvero è il silenzio di chi di fronte a simili strumentalizzazioni dei bambini ha ancora la faccia di definirsi onesto.

 

Pagherete caro, pagherete tutto, pagherete tutti. Ovvero perché, in memoria di Wolinski, non sto con Charlie Hebdo

Posso dire di aver avuto, nella vita, la sorte e il privilegio di essere riuscito ad avere a che fare con Wolinski. Ed è accaduto grazie alle pagine di «Blue», dove io ero un giovane redattore, lui un mostro sacro che intrecciava a doppio filo la storia della satira italiana dei Pazienza, dei Tamburini (e parlo solo dei morti, visto che di morte parla questo pezzo), de «Il Male» e dell’ambiente autonomo e irriverente della Bologna del ’77 con la nuova tradizione francese del fumetto, quella nata dalla furia del Maggio e che, con Wolinski, stampava giornali che si definivano «cubi di porfido da lanciare contro il potere».

Quando, oggi pomeriggio, un mio vecchio collega mi ha chiamato per dirmi «hanno ammazzato Wolinski» non sapevo ancora nulla di quanto era successo a Parigi. Allora sono restato in silenzio, sconvolto. E poi ho aggiunto: «Chiunque sia stato ora è un mio nemico».

Volevo intendere, dicendo questo, che da ateo quale sono non ho nessuna predisposizione verso la retorica del pentimento o del perdono ma, al contrario, apprezzo il piatto freddo della vendetta, sul genere immortalato da slogan del tipo «pagherete caro, pagherete tutto». Ed ora sono proprio slogan di questo genere che vorrei usare per onorare la memoria del Maestro. Un bel «pagherete caro, pagherete tutto» e… pagherete tutti. Sì. Perché confesso di non aver seguito e di conoscere poco le polemiche sui presunti contenuti islamofobici di «Charlie Hebdo», ma riesco benissimo a vedere la strumentalizzazione, questa sì islamofoba e assolutamente antilibertaria, che personaggi più pericolosi di qualunque estremista islamico stanno facendo della tragedia parigina. Partiamo, per esempio, da Ferruccio de Bortoli che, da «CorriereTV», erre moscia in testa e frangetta sempre fresca di parrucchiere calcata sulla fronte, si è immediatamente fatto alfiere della «civiltà occidentale» e della «libertà di espressione», auspicando immediatamente l’innalzamento dei «livelli di guardia» e la tolleranza zero contro le «zone grigie», concludendo il sermone con il grido «siamo tutti Charlie Hebdo» prima di annunciare la pubblicazione sul suo giornale delle vignette satiriche del settimanale francese.

Ecco, ovunque sia de Bortoli, io non vorrei mai essere, e quindi ora non voglio stare neppure con Charlie Hebdo né con il relativo hashtag che sta impazzando sui social. Anzi, mi dispiace di non saper disegnare, altrimenti approfitterai immediatamente dell’illuminismo di de Bortoli in tema di libertà di espressione per raffigurarlo con il naso e la lingua ben piantata nel culo dell’Agnelli di turno, ricordando che dove c’è oppressione padronale e monopolio del grande capitale sui mezzi di informazione non può esserci nessuna libertà di espressione, altro che le vignette di Charlie Hebdo.

Un altro luogo dove non vorrei mai essere è qualunque luogo in cui si trovi il nostro presidente del consiglio, l’uomo mai votato da nessuno (ok, io comunque non ho proprio votato) Matteo Renzi. Anche lui si è affrettato a sottolineare la sua vicinanza al settimanale in cui lavorava Wolinski, specificando – magari prima di prendere un Falcon per andare a farsi fare un pedicure a Montecarlo – che «l’Europa ha il dovere di reagire». Certo, lui di «reazione» se ne intende: il massacratore sociale per eccellenza, l’uomo dello smantellamento dei diritti dei lavoratori, il servo dei palazzinari e dei banchieri, l’artefice degli sgomberi e degli sfratti generalizzati, il generale della guerra contro i poveri che stiamo subendo da troppo tempo… più reazione di così? Neanche al congresso di Vienna!

Ora, lontano da ogni ipocrisia, e rendendo rispettoso omaggio alla vena dissacrante del grande Wolinski, vorrei affermare tranquillamente che se a Renzi prendesse un colpo secco adesso (e attenzione, parlo di malattie assolutamente naturali: se ne va tanta gente brava, perché lui sta ancora qui?!?), ebbene sarei affranto davvero per il fatto di non saper disegnare, altrimenti farei un bellissimo ritratto di me stesso mentre piscio sulla sua tomba.

Qualora dovesse succedere, comunque, qualcuno può venire a farmi una fotografia.

Poi la mandiamo a de Bortoli e gli diciamo: «È la libertà d’espressione bellezza!».

Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte

LA MORTE DI STEFANO CUCCHI E LE ALTRE VITTIME DELLA LEGALITÀ IN ITALIA

Prendiamo un parlamentare come Carlo Giovanardi. Mettiamogli addosso quell’aria tipica di chi ha sempre impugnato il potere dalla parte del manico e riempiamogli la pancia con lo stesso ventre oscuro che, nel governo delle larghe intese di Matteo Renzi e del suo inquietante «Partito della Nazione», già «democratico», continua imperterrito a rappresentare.

Prendiamo un simile individuo e mostriamogli le fotografie di Stefano Cucchi, arrestato a Roma il 15 ottobre del 2009, tradotto in carcere e mai più uscito vivo. Mettiamo davanti ai suoi occhi il corpo di un Cristo-giovinetto, ridotto a uno scheletro di 37 chili. Ebbene, quelle stesse immagini, capaci di accendere di rabbia chiunque possa semplicemente dirsi «umano» in virtù della capacità di provare solidarietà, passando attraverso le lenti deformanti inforcate dall’ex democristiano e forzaitaliota diventano un giudizio senza appello: «Cucchi?», sentenzia Giovanardi, «è morto perché drogato» (cfr. «la Repubblica» del 9 novembre 2009)

Non sono mancate le persone perbene che, ascoltando simili bestemmie, hanno accusato il politico di infamità e sciacallaggio. Eppure il ragionamento di Giovanardi merita un’attenzione diversa, di tipo filosofico e morale. Ciò che Giovanardi opera, infatti, mentre definisce Stefano Cucchi «drogato», non ha soltanto a che fare con l’intorbidamento delle acque in cui la vicenda del giovane geometra nuota a livello processuale, né semplicemente con gli insulti necessari a processare e a condannare la vittima anziché i suoi assassini. Giovanardi, in modo cosciente e reiterato, opera un preciso atto di despecificazione: esclude, cioè, Stefano Cucchi e «quelli come lui» dalla comunità in cui sono inseriti, negando persino ai più elementari diritti umani di avere un qualche valore nei rapporti che la società «civile» intrattiene o è costretta a intrattenere con i soggetti despecificati.

Quando Giovanardi esclama «drogato», in sostanza, smette di parlare di Stefano Cucchi come di un ragazzo di Roma Est, amante del pugilato e con qualche problema di tossicodipendenza alle spalle, smette di pensare a una persona in carne, ossa, passioni e pulsioni, ma inizia a riferirsi a Cucchi quasi fosse un oggetto, un essere non pensante, una semplice cosa giunta chissà come a turbare una certa visione dell’ordine costituito e, per questo, meritevole di essere eliminata alla stregua di spazzatura.

Da qui, ovviamente, discende l’esplicito plauso di Giovanardi agli agenti, ai giudici e agli operatori sanitari responsabili del caso Cucchi, un piccolo esercito istituzionale che, al culmine di cinque anni d’indagini, dibattimenti e processi non può che cogliere i frutti della despecificazione di Stefano grazie a una sentenza che non lascia spazio al dubbio: tutti assolti; la morte del ragazzo di Tor Pignattara non è un omicidio, ma fa semplicemente parte dell’ordine naturale delle cose.

L’«ordine» e le «cose», d’altro canto, sono gli ingredienti immancabili di ogni processo di despecificazione: una sorta di cancro molto più esteso di quanto non faccia immaginare la sola, terrificante storia di Stefano Cucchi. Come si è difeso, per esempio, l’agente ripreso dalle videocamere a scalciare e a calpestare una ragazza inerme, «colpevole» di aver partecipato alla manifestazione indetta a Roma dai movimenti contro la precarietà e l’austerità il 12 aprile del 2014?

Le sue parole, pronunciate con il tono più ingenuo del mondo, saranno ancora nella memoria di tutti: «Credevo fosse uno zainetto» (cfr. «Corriere della sera» del 15 aprile 2014)

Questo affermò l’agente, ennesimo frutto dell’identico processo di despecificazione in grado di colpire un ragazzo di strada come Stefano alla stessa maniera con cui sono colpiti, e talvolta anche uccisi (un esempio per tutti: Carlo Giuliani) i militanti di un’opposizione sociale ormai completamente impossibilitata a riconoscersi, o a maggior ragione a delegare il proprio dissenso, a vecchie strutture politiche e/o sindacali, tutte ormai ricomprese in quel «Partito della Nazione» dove trovano spazio i presunti «democratici» renziani in compagnia dei Giovanardi di turno. Un assetto di potere che ricorre sistematicamente all’arma della despecificazione, costruendo il risultato ultimo della propria propaganda, cioè l’espulsione dei soggetti despecificati dal consesso civile, attraverso la programmazione di una serie di tappe intermedie, e precisamente: 1) individuazione dei folk devil, vale a dire dei «devianti» o presunti tali da utilizzare a mo’ di capro espiatorio a fronte dell’inasprarsi delle tensioni sociali e delle relative contraddizioni del sistema; 2) sistematica campagna diffamatoria ai loro danni; 3) varo di apposite leggi speciali, «utili» a fronteggiare un’emergenza che, alla resa dei conti, non passerà mai; 4) imposizione di una «legalità» utilizzata a mo’ di lista di proscrizione, un invito aperto alla repressione generalizzata del fenomeno preso di mira.

Per comprendere meglio questo percorso, si può senz’altro tornare sullo scandaloso caso Cucchi. La categoria di «devianza» utilizzata per giustificare l’omicidio di Stefano è quella di «drogato»; la campagna capace di scatenare la paura sociale non sulla droga in generale, ma sul contatto con la categoria di persone definibili tali al di là di ogni corrispondenza con un dato reale, è incessante; il semplice sospetto di possedere droga autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria a procedere con perquisizioni derogando dalla necessità di richiedere la relativa autorizzazione al magistrato ed eludendo in tutta tranquillità quello che dovrebbe essere un diritto costituzionale garantito a ogni cittadino.

Questa, nella fattispecie, è la legge speciale (cfr. Dpr 309/1990) responsabile della morte violenta di Stefano Cucchi. Ma è anche la strada imboccata sempre più spesso da un governo, quello del «Partito della Nazione», e da un intero sistema di potere, che continua a spacciare l’eccezionalità come norma, sospendendo il Diritto all’interno di ambiti sempre più estesi di vita pubblica e, in ultima analisi, riducendo masse di uomini e donne «a nuda vita», vale a dire, come nei campi di sterminio nazisti, completamente in balia dello sbirro di turno.

L’affermazione è forte?

Bisognerebbe chiederlo a Patrizia Moretti e parlare del barbaro assassinio di suo figlio, Federico Aldrovandi, assassinato a Ferrara da quattro agenti di polizia il 25 settembre 2005. Giovanardi ebbe modo di esprimersi anche sul corpo martoriato di Federico e anche in questo caso difendendo a oltranza gli agenti, coinvolti, secondo lui, una «fatalità» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 26 settembre 2013). Mentre il Coisp, sindacato di polizia, ha avvertito in maniera talmente forte il clima di impunità che circonda le vittime della legalità da arrivare a importunare Patrizia Moretti sul suo posto di lavoro, senza che la cosa si concludesse con reali ripercussioni sulla carriera degli indegni capaci di tanto. Una sorta di nuova abitudine, quella inaugurata dal Coisp, subito adottata da altre sigle sindacali di polizia. Come il Sap, immediatamente pronto a festeggiare l’assoluzione degli indagati per l’assassinio di Cucchi come se si trattasse di un gol allo stadio e non della morte di un ragazzo. O come il Sappe, organizzazione degli agenti di polizia penitenziaria, che non appagata dalla sentenza di assoluzione arriva a querelare Ilaria Cucchi, sorella di Stefano.

D’altronde questa è la strada a cui porta la despecificazione. Gli assassini di Aldrovandi, se è per questo, avevano anche provato a giustificarsi sostenendo che Federico «sembrava un albanese» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 9 novembre 2009). E quella dei migranti è un’altra, grande categoria di folk devil: demoni talmente spaventosi da generare, in tema di leggi speciali, quell’abominio che sono i moderni campi di concentramento detti CIE, per la prima volta dai tempi della Germania nazista luoghi in cui si può essere imprigionati non a causa di un reato effettivamente commesso, ma in virtù di una problematica burocratica inerente la regolarità dei propri documenti. I giornalisti delle testate più importanti, naturalmente, di fronte a tutto questo non perdono certo l’occasione per accaparrarsi la propria parte di vergogna e puntualmente, in cronaca nera, sottolineano sempre la nazionalità di chi ha commesso un delitto se il colpevole è un migrante. Ma è un effetto della globalizzazione. Prima i giornalisti si affannavano a specificare «calabresi» o «napoletani», ora ci si è allargati a «albanesi», «rumeni» o, magari, «senegalesi», come Chehari Behari Diouf, residente a Civitavecchia e freddato con una fucilata da un ispettore di polizia il 31 gennaio del 2009 al termine di un banale diverbio (cfr. «la Repubblica» del 1 febbraio 2009).

Gli esempi potrebbero sprecarsi e riempire un intero libro nero della polizia italiana. A tessere le fila insanguinate di questo discorso, da qualche tempo a questa parte, ci prova l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad): una onlus organizzata dal basso e completamente indipendente forte di un numero verde (800 588605) a cui rivolgersi per trovare un sostegno legale e una possibilità di ascolto in caso di incontri troppo ravvicinati con appartenenti alle forze dell’ordine. Sono moltissimi i casi di vittime di abusi in divisa denunciati e sostenuti da Acad nel nome della verità e della giustizia. Ma il problema, come sempre, è politico, non certo di «ordine pubblico». Prendiamo il caso della persecuzione ai danni degli ultrà per esempio, una delle ultime forme resistenti e non omologate di aggregazione di massa. L’«ordine pubblico», in questo caso, ha consentito il varo, nell’indifferenza generale, di provvedimenti liberticidi come la «tessera del tifoso» o come l’estensione della flagranza di reato fino a quarantotto ore (!!!) dopo aver commesso i fatti contestati. Resta poco da stupirsi, allora, se quando ci scappa il morto questo sia proprio un tifoso di calcio, come Gabriele Sandri, assassinato lungo l’autostrada l’11 novembre del 2007. Chi prenderà mai le parti di un tifoso di calcio? Chi, di fronte alla diffamazione sistematica che colpisce la «teppa» dello stadio, non penserà che uno come Sandri, in fondo, non se la sia cercata?

I giudici, questo è evidente, non fanno parte delle eccezioni. Così quando i casi di vittime della legalità arrivano in tribunale i loro assassini o se la cavano o, comunque, finiscono per incassare condanne ai limiti del simbolico. Viceversa, le categorie demonizzate risultano permeabili e, con la loro indeterminatezza, hanno la tendenza a investire il corpo sociale nel suo complesso. Per questa ragione un ragazzo come Federico Aldrovandi ha potuto trovare la morte incrociando contemporaneamente la categoria di «drogato» e quella di «migrante»: perché i folk devil non finiscono mai negli archivi della storia, ma continuano a subire gli effetti della demonizzazione a cui sono sottoposti sovrapponendosi gli uni agli altri e, allo stesso modo, le leggi speciali che il loro allarme ha generato non finiscono mai per essere abrogate. La famigerata «Legge Reale», per esempio, in vigore dal 1975, continua a giustificare uno stato di eccezionalità risalente agli anni di piombo, colpendo indistintamente tutti i cittadini: basti pensare che, fino al 1989, sono stati conteggiati in 625 i casi di ferimenti e uccisioni direttamente connessi con la normativa in questione (cfr. 625. Libro bianco sulla Legge Reale, a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi). Non che questo sia servito a invertire la rotta. Diventa materia di questi giorni l’accanimento con cui il governo Renzi continua a colpire l’opposizione sociale. Il caso più eclatante riguarda la persecuzione dei movimenti per il diritto all’abitare, investiti da un’apposita «Legge Lupi» che, tra le altre cose, con l’articolo 5, intima il divieto non soltanto di allacciare utenze vitali come luce e acqua, ma anche di prendere la residenza in stabili occupati. Sulla stampa, anche in questo caso, non trovano spazio le violazioni dei diritti umani insite nella normativa (migliaia di famiglie esposte alla possibilità di ritrovarsi senza acqua e luce) o i dubbi d’incostituzionalità del provvedimento (senza residenza diventa complesso o impossibile usufruire di cure mediche o iscrivere i bambini a scuola) né, ci mancherebbe altro, si fa mai cenno ai limiti che pure lo stesso diritto italiano pone alla proprietà privata nel momento in cui questa si oppone agli interessi generali (cfr. Art. 42 della Costituzione). Sui media mainstream, al contrario, trova spazio una serrata campagna contro le occupazioni abitative, e poco importa se si tratta di stabili abbandonati, vuoti, sottratti al degrado e alla speculazione: chi si mette in gioco in una prospettiva di cambiamento dell’esistente viene criminalizzato e trattato di conseguenza, incassando manganellate alla stregua di uno «zainetto» e/o condanne esemplari in sede processuale. La situazione, se non fosse drammatica, potrebbe anche essere considerata ironica. Se infatti si volesse rispondere con i fatti alla domanda su quale è stato, dagli anni Novanta fino ai giorni nostri, il gruppo responsabile dei delitti più gravi in Italia sarebbe molto difficile tirare in ballo drogati, militanti politici, migranti o tifosi di calcio ma si sarebbe costretti a parlare della «Uno Bianca», una banda completamente composta da poliziotti. Ai tempi, girava anche uno slogan: «La polizia italiana / non è mai stanca», recitava, «il giorno manganelli / la notte Uno Bianca». Sarebbe il caso di ricordarlo più spesso, questo slogan. Per iniziare a denunciare tutti i limiti e i pericoli insiti nel concetto di «legalità» e per capire come, quando la polizia è dappertutto, la giustizia finisca per non essere più da nessuna parte.

a.cucchi-cover_defCristiano Armati, Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte. La morte di Stefano Cucchi e le altre vittime della legalità in Italia, in Luca Moretti – Toni Bruno, Non mi uccise la morte. La storia di Stefano Cucchi, assassinato due volte dallo Stato italiano, Castelvecchi, 2014 (nuova edizione)

Pioverà

Pioverà.
E il fango, tracimando dalle fogne, affogherà i vostri figli negli asili a cui hanno avuto diritto in cambio di centocinquanta euro al mese dopo due anni di lista d’attesa.
Ne avevate due, di figli. E insieme non arrivavano a sei anni.
Pioverà.
Ma non basterà a lavare via le lacrime che versate per vostra moglie, morta annegata mentre andava a farsi visitare.
Cento euro di ticket li aveva già pagati. Poi ci sono voluti sette mesi per avere quell’appuntamento.
Pioverà.
E a uccidervi non sarà la morte. Ma le tangenti versate da un palazzinaro insaziabile a un politico corrotto.
Così uno ha spianato le montagne per fare spazio alla TAV, l’altro ha pippato tutta la notte e voi siete stati travolti dal fango mentre provavate a tornare a casa con la macchina nuova.
Peccato. Mancavano solo 75 rate e poi avreste finalmente potuto chiamarla “vostra”.
Pioverà.
Poi pioverà ancora.
Non aspettate la tomba.
Rivoltatevi ora.

 

Ha da venì Baffone. Gli occhi e le mani di una scelta editoriale

Se dovessi ridurre ciò che so della storia a quello che ho visto con i miei occhi, allora Sandro Pertini è il nonno che tutti avrebbero voluto avere, il vecchio partigiano che tra i reali di Spagna e il cancellierato tedesco se non fa il gesto dell’ombrello poco ci manca mentre, l’11 luglio del 1982, la nazionale italiana segna tre reti a quella della Germania Ovest e se ne torna a casa con la Coppa del Mondo.

a.PertiniAltro che le «notti magiche» di otto anni dopo, quando l’Italia, ospitando i campionati del mondo di calcio, dovette accontentarsi di decine di operai morti costruendo gli impianti, di una manciata di grandi opere inutili, di una mascotte orribile chiamata «Ciao» dai geni del marketing, di un fiume di tangenti finite nelle tasche dei soliti noti e pure di essere eliminata in semifinale dall’Argentina. Il 1982 resta un momento in cui ha un certo peso poter dire «io c’ero» visto che, titolo mondiale a parte, nel momento in cui Rossi, Tardelli e Altobelli infilavano la porta di Schumacher e Pertini esultava in tribuna, in Italia sarebbe stato difficile misurarsi con la realtà senza lasciarsi sopraffare dallo straniamento. In un lasso di tempo incredibilmente breve, infatti, nell’ideale passaggio di testimone tra decenni, la democristiana «strategia della tensione» sarebbe trasecolata in una non certo meno sanguinosa berlusconiana «strategia della finzione», e così l’eskimo avrebbe lasciato il posto al moncler, la funzione sociale delle piazze sarebbe stata assorbita dai centri commerciali e la massa, più che alle manifestazioni, ci si sarebbe stupiti di meno a vederla in coda davanti a un fast food. Benvenuti negli anni Ottanta, possiamo dire oggi, rievocando il mito della «Milano da bere» e osservando, come se fossimo in un laboratorio, l’ideologia del «lavoro-guadagno, pago-pretendo» andare a occupare spazi dell’immaginario precedentemente riservati a quei progetti collettivi di cambiamento dell’esistente comunemente detti «lotta di classe». Il «Drive in», dunque, e non Stato e Rivoluzione di Lenin. E il disimpegno, piuttosto che un diffuso attivismo politico e sociale, diventano il paradigma con cui misurarsi senza aspettare il 9 novembre del 1989 e la caduta del Muro di Berlino per celebrare la morte del socialismo, la sconfitta delle grandi narrazioni e il trionfo del capitalismo interplanetario: unico dispensatore di valori e sola guida del presente e del futuro… cioè, per restare nella storia e nella familiarità con la quale i vincitori la scrivono, sola guida anche del passato.

D’altro canto, questo fanno i vincitori. Nei momenti di trionfo innalzano verso il cielo archi e obelischi. Ma quando le cose vanno meno bene, quando il calendario segna sotto la data 2014 guerre più o meno sporche diffuse in tutto il pianeta, precarietà generalizzata di masse enormi di persone ovunque, catastrofi ecologiche in corso senza soluzione di continuità e regresso accertato di diritti a lungo dati per scontati (nel 2014, nel cuore dell’Occidente, si torna tranquillamente a morire di fame), ecco che la storia arriva in soccorso degli stessi vincitori, per affermare senza tema di essere smentita come le cose, se non sono andate sempre così, sono andate molto peggio quando non erano loro – i vincitori – a tessere i fili del discorso.

Eppure, nel 1982, il vecchietto che, viaggiando sull’aereo di ritorno dalla Spagna si faceva immortalare nell’atto di giocare a scopone in coppia con Causio contro Zoff e Bearzot, di discorso ne aveva fatto un altro, affermando, al cospetto del Senato della Repubblica: «Egli è un gigante della storia».

Era il 6 marzo del 1953 e Sandro Pertini si riferiva a Giuseppe Stalin.

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Non saprei dire se assistere alla sconfitta della Germania Ovest avesse avuto per Pertini anche il sapore dell’ennesima rivincita. In fondo era contro le truppe di occupazione di quel paese che il partigiano, chiamando il popolo italiano intero all’insurrezione, aveva urlato: «Ponete i tedeschi di fronte a un dilemma: arrendersi o perire!».

a.ReichstagCerto, nel 1982 ricordare i giorni di fuoco vissuti da Pertini come da moltissimi altri all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale non era più né facile, né politicamente conveniente. Eppure è proprio l’esperienza della guerra partigiana antifascista che, nei decenni, aveva legato persino oltre la politica – considerando che il pertiniano Partito socialista di unità proletaria fu tutto tranne che bolscevico – un uomo come il Presidente della Repubblica italiana alla figura di Giuseppe Stalin e al miracolo compiuto dalla sua Unione Sovietica, capace di trasformarsi da paese sottosviluppato in potenza industriale nel giro di una manciata di anni e, grazie a questo sforzo, senz’altro conseguito a caro prezzo, capace anche di reagire all’esercito più maledetto e potente della storia, aggredendolo con le unghie, i denti e l’acciaio forgiato dai suoi operai fino ad annientarlo definitivamente, arrivando a far sventolare la bandiera rossa sul tetto del Reichstag di Berlino il 2 maggio del 1945.

La canzone degli Stormy Six, in seguito cavallo di battaglia della Banda Bassotti, sarebbe stata scritta soltanto nel 1975 ma sembra già di sentirla cantare nelle piazze di tutta Europa: «Sulla sua strada gelata / la croce uncinata lo sa / d’ora in poi troverà / Stalingrado in ogni città».

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Abdulkhakim Ismailov

L’uomo che il 2 maggio del 1945 issa la bandiera rossa con la falce e il martello sul palazzo del Reichstag non è soltanto un soldato sovietico. Si chiama Abdulkhakim Ismailov e viene dalla remota regione del Daghestan. Già reduce dalla terrificante battaglia di Stalingrado, nel corso della «grande guerra patriottica» viene ferito per ben cinque volte, scegliendo sempre e comunque di tornare al fronte per combattere. E lui, morto nel suo letto il 17 febbraio del 2010 alla bella età di novantatré anni, è soltanto uno dei milioni di volti anonimi per cui scegliere di pubblicare oggi una selezione di opere scelte di Stalin può acquistare un senso forse inaspettato. Si tratta, in effetti, di provare a tracciare un percorso che ha poco a che fare con l’idea di «riabilitare Stalin» o, tantomeno, di esaltare le conclusioni a cui arriva l’autore di Questioni del leninismo. Un percorso che, al contrario, ripartendo dalla sorte dello stalinismo, mostra alcuni dei come e dei perché il patrimonio dell’intero movimento operaio internazionale sia stato aggredito e dilapidato fino al punto di essere ridotto alla stregua di un fossile, una canzone intonata da vecchi nostalgici mentre la nave del capitalismo affonda senza che nessuno trovi la forza necessaria a invertire la rotta. Dove saremo oggi se questa forza, settanta anni fa, non fosse stata nelle braccia di una moltitudine di Abdulkhakim Ismailov? E soprattutto, considerando il punto in cui siamo arrivati, rinunciando di riappropriarci di quella stessa forza, dove rischiamo seriamente di finire domani?

*

Spendiamo due parole per chiarire, oltre l’evidenza di ciò che viene messo nero su bianco, il contesto in cui si manifesta la necessità di curare una selezione di opere scelte di Stalin. Questa antologia, infatti, fa parte della collana «I Libretti Rossi», nata nel 2011 e, dopo una serie di vicissitudini editoriali, felicemente approdata alla Red Star Press. Al suo interno, fino a ora, hanno trovato spazio raccolte di citazioni e testi dedicati alla Resistenza, al risorgimento garibaldino, a Vladimir Lenin, Friedrich Engels, Fidel Castro e Mao Tse-tung. Volendo continuare fino a offrire una visione la più estesa possibile delle teorie e delle lotte nate sul fronte degli ideali di fraternità, giustizia e libertà, sarebbe stato possibile escludere l’Unione Sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre e, di conseguenza, anche Giuseppe Stalin?

La domanda è retorica considerando ovviamente negativa la risposta che è stata data in sede di coordinamento redazionale e il relativo libro che stringete tra le mani in questo momento. Ma, a essere negativa, è anche la risposta a una domanda meno scontata, uno dei grimaldelli attraverso i quali negli ultimi settant’anni la demonizzazione di Stalin ha finito per coincidere con la demonizzazione dell’intera cultura rivoluzionaria, in tutte le sue forme e sfaccettature. La domanda sotto accusa, quindi, diventa: è possibile addossare a Stalin l’intero destino dell’Unione Sovietica insieme a tutte le scelte politiche compiute dallo stato socialista per difendere se stesso dall’aggressione fascista quando si è trattato di combattere le truppe tedesche e dal «nemico interno» quando l’attacco ha riguardato chiunque fosse sospettato di deviazionismo?

Qui l’Abdulkhakim Ismailov che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag fa un gesto incredibilmente simile a quello compiuto dall’esultante Pertini nella finale Italia – Germania Ovest, scoprendo nei due quei «compagni d’una massa operaia. / Proletari di corpo e di spirito» capaci di schierarsi dalla parte giusta nella buona e nella cattiva sorte, senza sospettare che, nel 1990, il vecchio palazzo del Reichstag perdesse il diabolico portato simbolico che emanava dalle sue pareti fino al punto di tornare a ospitare le sedute del Parlamento della Germania, riunificata all’indomani della caduta del Muro.

L’atto, in quel momento, passò assolutamente inosservato. Un’amnesia collettiva allucinante che, se avesse riguardato la storia italiana, sarebbe stato possibile paragonare alla visione di un uomo politico a cui, dopo Mussolini, fosse stato concesso di arringare la folla parlando dai balconi di Palazzo Venezia a Roma. E questo non per gridare allo scandalo individuando un rapporto di continuità tra la Germania unita di Helmut Kohl e il Terzo Reich di Hitler (anche se l’evento la dice lunga sul cuore nero dell’Unione Europea), ma proprio per parlare della formidabile operazione di lavaggio collettivo dei cervelli e delle coscienze portato avanti immediatamente dopo la fine della guerra mondiale. Che la deriva nazifascista covi costantemente tra la cenere del capitalismo, rappresentando una modalità tipica della periodica ristrutturazione a cui è costretto, infatti, è cosa nota. Ma intanto, isolando e assolutizzando la figura di Stalin, estraendola dal suo contesto come si fa con un dente marcio dalla bocca, è stato possibile astrarre il singolo personaggio dalla massa enorme che ha sostenuto urbi et orbi la politica sovietica, facendo del comunismo in Russia non più il formidabile risultato del protagonismo delle masse diseredate, ma l’esito imprevisto delle azioni di un folle, una specie di satrapo orientale capace di impossessarsi dello sterminato territorio dell’ex Impero degli zar grazie a un’astuta e criminale combinazione di realpolitik e feroce repressione.

La stessa identica cosa, secondo gli autori di questa storia (cioè secondo i «vincitori»), sarebbe accaduta anche in Germania, dove Hitler diventa la controparte di Stalin, una figura altrettanto isolata e altrettanto avulsa dalla realtà sociale in cui si muove, un altro pazzo sanguinario protagonista, al pari del «dittatore» sovietico, di quella stagione drammatica chiamata «Novecento» e caratterizzata dal tentativo di ideologie totalitarie in fondo identiche come nazismo e comunismo di distruggere il sistema di preziose garanzie democratiche donate al popolo dai governi liberali.

Oltre a essere una bestemmia che grida vendetta di fronte agli uomini, la sovrapposizione di nazismo e comunismo attraverso la sovrapposizione di Hitler e Stalin, personalizzando in maniera ridicola eventi epocali e di massa (con buona pace del rigore della lettura materialista della storia, autentica conquista intellettuale a disposizione dell’umanità), ha reso possibile, per quanto riguarda la stagione dei fascismi europei, di evitare a intere collettività nazionali come quelle italiana e tedesca di fare realmente i conti con se stesse, di procedere come se nulla fosse con le mancate epurazioni dei personaggi chiave del fascismo e del nazismo dai ruoli di potere occupati e, in una manciata di anni, di essere riassorbite e integrate dagli ex nemici della seconda guerra mondiale nell’orbita atlantica, questa sì pronta senza problemi a «perdonare» fascismo e nazismo – che pure ha la responsabilità di aver generato – pur di non concedere nessun tipo di terreno al socialismo reale.

Al contrario, l’operazione di riduzione del comunismo a Stalin, insieme a tutta la retorica da «libro nero» sui crimini commessi sotto l’egida della falce e martello, non offre nessun credito alle differenze sostanziali tra Stalin e Trockij, non si interessa alle polemiche che separarono i bolscevichi dai luxemborghisti, non prende in esame le lacerazioni tra la frazione stalinista e gli esponenti della «nuova opposizione unificata» o le deviazioni tra impostazione leninista e interpretazione stalinista, non parla di anarchici, di spartachisti, di femministe, di comunisti cubani o titini ma, facendo di tutta l’erba un solo fascio, va ben oltre e, urlando «dagli al comunista!» con il fanatismo dei cacciatori di streghe, supera di gran lunga i confini dell’Unione Sovietica stringendo in un abbraccio mortale i movimenti di liberazione dei popoli oppressi, i militanti di base di ogni tempo e di ogni paese, la fondamentale rivoluzione epistemologica di Marx ed Engels fino ad arrivare, con un’azione senza precedenti di «despecificazione politico-morale», ad escludere dalla comunità civile e quindi a screditare, attaccare, imprigionare e, non di rado, anche a uccidere, chiunque mostri idee e stili di vita non omologati. Quale parola, in fondo, viene utilizzata dai benpensanti per radunare in un ideale campo di concentramento minoranze etniche e capelloni, fumatori di marijuana e omosessuali, attivisti dei centri sociali e intellettuali non allineati?

Sotto quale parola la pancia fascista dei regimi democratici e liberali riunisce lo spauracchio impersonificato da «froci, negri, drogati, capelloni ed ebrei»?

La parola è sempre la stessa: «comunisti».

*

Se devo dire come la penso su Stalin, confesso di considerare la vittoria ottenuta sull’esercito nazista con la conseguente affermazione dello stato sovietico come un fatto decisivo, in grado di sopravanzare le mie tendenze libertarie e di mettere in secondo piano le suggestioni trockijste assorbite studiando la vita e le opere dell’ex comandante dell’Armata rossa. Eppure non ho difficoltà ad affermare che tra le pagine de Il libro rosso di Stalin non c’è nessuna volontà di seguire Domenico Losurdo nell’impostazione e nelle conclusioni del suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008). In questo testo, relativamente celebre (considerando che solo una nicchia legge questo tipo di pubblicazioni, ma questo è precisamente parte del problema), Losurdo prende in esame la figura di Stalin tentando di separare la storia dalla leggenda, ciò che è accaduto realmente in Unione Sovietica da ciò che sarebbe stato raccontato dalla propaganda anticomunista. Le intenzioni, dunque, sono senz’altro condivisibili, eppure, senza entrare nello specifico del lavoro di Losurdo o commentare i suoi esiti, la postura de Il libro rosso di Stalin non è quella assunta da qualcuno che si prepara a una formidabile guerra di cifre e documenti né, a maggior ragione, incarna lo spirito «burocratico» di chi, a colpi di citazioni, intendesse avere la meglio nell’ambito di un confronto dialettico sulla «vera» ortodossia marxista-leninista e su di chi meriti di ricadere un’eredità tanto illustre. Se per questo genere di scontri, infatti, può sempre esserci tempo, molto di meno è il tempo ancora a disposizione, se non per formare un vero «fronte unico» anticapitalista, almeno per provare a impostare un dibattito a partire da informazioni reali e non da notizie recuperate di terza mano e/o dalle stesse fonti di propaganda anticomunista.

Ecco, giunto alla soglia dei quarant’anni, la mia idea di tempo non fa più nessuna difficoltà a identificarsi nella forma di una clessidra. E se ogni singolo granello che, passando attraverso la strozzatura scivola irrimediabilmente nel bulbo inferiore, è prezioso come la vita stessa, diventa faticoso sostenere confronti con chi non ha mai pensato di alimentare le proprie opinioni dedicando alla verifica delle stesse i granelli di sabbia a sua disposizione. Senza scomodare il motto maoista secondo il quale «chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola», insomma, Il libro rosso di Stalin potrà perlomeno sortire l’effetto di offrire una fonte di prima mano alla riflessione collettiva. E questo mi sembra già un primo, piccolo risultato.

Un secondo risultato, forse più importante, è di natura strettamente polemica e riguarda il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui, vuoi attraverso l’arma dello sciopero, vuoi grazie allo strumento dell’occupazione sociale o abitativa o in virtù del ricorso al conflitto di piazza, un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare?

Questo particolare genere di «sinistri» lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il «complesso di Saturno» e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, «come Stalin», sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia.

Risultato di questo diffuso modo di ragionare?

Meglio non fare mai nulla. Restare con le «mani pulite» anche se nel mondo tutt’altro che rivoluzionario o rivoluzionato in cui viviamo l’oppressione cresce, seconda soltanto alla disoccupazione, alla fame e a una qualità della vita sempre più bassa per tutte e tutti.

Di fronte a questi dati di fatto, personalmente, preferisco rischiare ogni sorta di cambiamento: non è l’opzione individualistica del coraggio, ma il riflesso oggettivo di un interesse di classe a impormelo. In virtù di questo stesso interesse, preferisco rischiare persino di ritrovarmi a portare il nome di Trockij o Bucharin nella Mosca degli anni Trenta, preferendo riconoscermi nel primo piuttosto che nel secondo ma avendo sotto gli occhi la realtà dei tanti proletari che, nell’Europa del 2014, si ritrovano già a fare da bersagli mobili alla guerra contro i poveri che la «crisi» del Capitale ha scatenato contro di loro.

Un altro punto, qui, vale la pena di essere sottolineato. Chiunque sogni un sistema capace di risparmiare all’individuo lo sforzo di esercitare il proprio libero arbitrio al cospetto dell’angoscia insita in ogni scelta, probabilmente, che lo sappia o meno, abita già il loculo di qualche cimitero. Ai vivi resta la responsabilità di scegliere e di schierarsi. E quindi di sporcarsi le mani.

*

Un altro libro, quello dell’ex maoista belga Ludo Martens, affronta Stalin in termini decisamente antitetici rispetto ai soliti, largamente utilizzati da quella formidabile arma del potere che è il luogo comune. Il lavoro di Martens, pubblicato in italiano dalla casa editrice Zambon nel 2004 e intitolato Stalin. Un altro punto di vista, esamina in oltre trecento pagine i temi caldi delle tesi antistaliniste passando in rassegna il testamento di Lenin, la collettivizzazione forzata, la burocrazia imperante, l’eliminazione della vecchia guardia bolscevica, il mito dell’industrializzazione e le presunte collusioni con la Germania. Un particolare estremamente interessante, però, Martens, partito in gioventù da posizioni notoriamente e accesamente antistaliniste, lo rivela già nell’introduzione quando afferma:

Tutte le organizzazioni comuniste e rivoluzionarie in tutto il mondo sentiranno l’obbligo di riesaminare le opinioni e i giudizi che esse hanno formulato sull’opera di Stalin dopo il 1956. Nessuno può sottrarsi a questa evidenza: quando, dopo trentacinque anni di denunce virulente dello «stalinismo», Gorbačëv aveva realmente eliminato tutte le realizzazioni di Stalin, si è constatato che Lenin era diventato di colpo «persona non gradita» in Unione Sovietica. Seppellendo Stalin, anche il leninismo è stato sotterrato. Riscoprire la verità rivoluzionaria sul periodo dei pionieri è un compito collettivo che compete a tutti i comunisti del mondo. Questa verità rivoluzionaria scaturirà dal confronto delle fonti, delle testimonianze e delle analisi. (…) La classe il cui interesse fondamentale consiste nel mantenere il sistema di sfruttamento e di oppressione ci impone quotidianamente il suo punto di vista su Stalin. Adottare un altro punto di vista su Stalin significa guardare il personaggio storico di Stalin con gli occhi della classe opposta, quella degli sfruttati e degli oppressi.

*

Tra tutte le narrazioni conosciute da chi scrive, quella che con più verità ha saputo guardare a Stalin «con gli occhi della classe degli sfruttati e degli oppressi» di cui parla Martens, non è contenuta, a mio parere, negli studi rigorosi di un saggista o nei comizi di un esponente del ceto politico ma appartiene alla voce sommessa di un «poeta contadino», il lucano Rocco Scotellaro. Giovane sindaco socialista di Tricarico, all’indomani della morte di Stalin Scotellaro scrive:

L’uomo che vide suo padre calzare

gli uomini e farli camminare

imparò da quell’arte umile e felice

la meraviglia di servire l’uomo.

L’uomo che crebbe nell’esule villaggio

imparò il coraggio di farsi riconoscere

e di crescere non lontano dai potenti della terra.

L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini

imparò dal fascino della notte

il chiarore del giorno.

Quell’uomo muore. Attorno attorno

alla ceppaia gigantesca che è

agili frullano i vivai che piantò nel mondo.

Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo

e il pane e le scarpe e le case e le macchine

può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.

Rocco Scotellaro
Rocco Scotellaro

Come il padre di Stalin, anche il padre di Scotellaro faceva il calzolaio. Ma non è questo il punto. Il punto è che credere di trattare Stalin, il comunismo e l’Unione Sovietica come elementi riducibili a un’indagine storica tutta di carta e di inchiostro, di risoluzioni emesse dal Partito e di inoppugnabili documenti, significa tagliare fuori dal discorso l’impatto impalpabile eppure potentissimo che la figura di Stalin ebbe sui lavoratori di tutto il mondo. Questo impatto, misurabile con la forza della suggestione e l’ampiezza dei ricordi che si ha la fortuna di aver vissuto prima che con il rigore delle fonti, ha disegnato una comunità internazionale di donne e uomini con la faccia sporca e le mani di pietra. Sono i lavoratori. Gli stessi che alle nostre latitudini si riconoscevano per gli occhi scintillanti di dignità e per un motto, una specie di grido di guerra, spontaneo e genuino, naturalmente antifascista e assolutamente impermeabile rispetto all’approccio intellettualistico che caratterizza tanta parte del dibattito su Stalin, la sua figura, la sua eredità. Quel motto, quel grido di guerra, quel confine internazionale in cui si raccoglieva una patria completamente alternativa alle mistificazioni nazionaliste, fatta di gente che con orgoglio di appartenenza posso dire «mia», affermava di «volere tutto» quando scandiva le parole «Ha da venì Baffone».

Ed essendo che personalmente non nutro alcuna ambizione nell’esercitare rispetto a questa comunità (tutt’altro che «immaginaria» vista la sua capacità di incidere sul reale) un’opzione politica capace di distinguermi dalla massa a cui sono sempre appartenuto, è per gli occhi e le mani di chi ha voluto e continua a «volere tutto» che Il libretto rosso di Stalin ha trovato una buona ragione di essere editato.

a.stalinPostfazione al volume Il libro rosso di Stalin. Storia, politica, rivoluzione: opere scelte del padre del socialismo sovietico, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press

DISPONIBILE SU REDSTARPRESS.IT

Impara l’arte e lotta contro gli abusi di potere. Il cuore della street art e lo scandalo dei “maiali” di San Basilio

Blu colpisce ancora.

http://it.wikipedia.org/wiki/Blu_(artista)

Lo street artist inserito dall’autorevole The Observer in una lista comprendente i dieci artisti di strada più autorevoli del mondo, dopo aver regalato a Roma lavori importanti come quelli che possono essere ammirati sulle facciate del LOA Acrobax, di Porto Fluviale Occupato e dello Studentato Occupato Alexis, ha rivolto le sue attenzioni a San Basilio, trasformando la facciata grigia di una palazzina in un quadro trasudante storia e memoria. Oggetto prescelto da Blu, un San Basilio Magno in carne, ossa, barba e abito talare impegnato, con una cesoia al posto del tradizionale aspersorio, a scassinare lo stesso lucchetto forzato quarant’anni fa dalla gente della borgata, protagonista nel settembre del 1974 dell’occupazione di massa delle locali case vuote, una clamorosa prova di forza popolare capace di sfidare un dispiegamento senza precedenti di forze dell’ordine dando vita alla celebre “battaglia di San Basilio”, da allora evento-simbolo della lotta per la casa e dell’autorganizzazione.

Per rendere omaggio al protagonismo di quei giorni, il San Basilio di Blu è raffigurato come un colosso capace di irradiare una sorta di potere magnetico di fronte al quale un branco di maiali e pecorelle in divisa da poliziotto è costretto a inchinarsi tra dolorose contorsioni, come riconoscendo la supremazia della volontà popolare sul corrotto potere temporale dello stato o, per lo meno, soccombendo alla forza di un santo noto per le parole spese in favore dei diritti degli animali, a cui, chissà, lo stesso Blu potrebbe essersi ispirato:

O Signore, accresci in noi la fratellanza con i nostri piccoli fratelli; concedi che essi possano vivere non per noi, ma per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, come noi, la dolcezza della vita e ti servono nel loro posto meglio di quanto facciamo noi nel nostro

Implicazioni teologiche a parte, l’ennesima, bellissima opera di Blu è stata realizzata dall’artista – anonimo per precisa scelta politica – nel corso della grande festa popolare organizzata a San Basilio in occasione dell’anniversario della Battaglia e della morte di Fabrizio Ceruso, un ragazzo di diciannove anni accorso da Tivoli per partecipare alla difesa delle case occupate e assassinato dalle forze dell’ordine con una fucilata.

http://www.senzasoste.it/anniversari/8-settembre-1974-fabrizio-ceruso

Correva l’8 settembre del 1974, e da allora il caso di Fabrizio Ceruso giace insabbiato tra i misteri di una storia che, complice la cossighiana strategia della tensione, ha compreso l’impiego disinvolto di cecchini che, in quegli stessi anni, si presero la vita di altri ragazzi, dalla romana Giorgiana Masi (12 maggio 1977) al fiorentino Rodolfo Boschi (18 aprile 1975), ugualmente impegnati ad esercitare il proprio diritto al dissenso, anche opponendo il proprio corpo alla violenza dei tanti abusi in divisa che non hanno mai smesso di insanguinare le strade delle città italiane.

Nel corso della partecipata commemorazione, una festa popolare che, oltre all’esibizione di atleti delle palestre popolari, ha visto la partecipazione del cantautore Pino Masi e di diversi gruppi hip hop tra cui i mai abbastanza lodati Gente di Borgata, l’intervento commosso di Carla Ceruso, sorella di Fabrizio, ha contribuito a ricordare come la figura del diciannovenne di Tivoli, da sempre dimenticata e infamata dalle istituzioni responsabili della sua morte, sia al contrario vivissima nella memoria di tutto il quartiere: dedicare a lui un lavoro firmato da un’artista come Blu, insomma, appariva come un riconoscimento minimo nei confronti di chi, a un quartiere come San Basilio, ha lasciato addirittura la propria vita per garantire il diritto di tutti gli abitanti ad ottenere un tetto sopra la testa.

A pensarla in maniera opposta, però, ci hanno pensato le stesse forze dell’ordine citate da Blu nel suo murales. Talmente colpite dalla provocazione da presentarsi in massa nel cuore della notte per provvedere a cancellare, deturpando il lavoro dell’artista, le pecore e i maiali dotati delle loro sembianze. Con quale autorità? Con quali permessi? Rispetto a quale preparazione e con quale rispetto nei confronti dell’opera d’arte i tutori della legge hanno compiuto un simile gesto?

Il commento dell’assessore ai lavori pubblici Paolo Masini, secondo il quale il lavoro di Blu è da considerarsi illegale oltre che colpevole di violare l’articolo 342 del codice penale (in quanto contenente immagini denigratorie delle forze dell’ordine), è infatti arrivato a cose già fatte. Ma come se non bastasse, da quando è un assessore, anziché un giudice, ad arrogarsi il diritto di applicare leggi e di comminare pene?

Per discettare di legalità, occorrerebbe ricordare a Masini, sarebbe necessario anche vivere nella legalità, essendo stato il comportamento suo e dei tutori dell’ordine coinvolti più appropriato a pseudogiustizieri della notte che non a dei rappresentanti delle istituzioni. A Masini si potrebbe anche ricordare che una simile solerzia sarebbe, dato il ruolo, benvenuta se andasse una volta tanto a ficcare il dito in piaghe come quelle relative agli scandali dei ritardi nei lavori delle metropolitane romane, tanto per fare un esempio, ma evidentemente il comune di Roma si muove secondo priorità estremamente distanti rispetto a quelle sentite dalla popolazione. A testimoniarlo, lo stesso sindaco Ignazio Marino che, a detta di quanto riportato dai giornali, si è affrettato a telefonare al Questore “per ribadire il proprio ringraziamento riguardo l’attività quotidiana svolta dalle donne e dagli uomini delle forze dell’ordine a tutela della sicurezza delle romane e dei romani”.

A Marino occorrerebbe  forse far sapere che tra le romane e i romani tutelati dalle forze dell’ordine c’è un ragazzo come Stefano Cucchi, assassinato il 22 ottobre del 2009, e che nessun rappresentante delle istituzioni ha ritenuto opportuno alzare il telefono per un abitante dei quartieri popolari quel giorno. Questo non accade a Roma, ma neppure a San Basilio, dove l’ultimo intervento comunale a favore della vivibilità del territorio e della sua tutela si perde nella notte dei tempi, segno che al sindaco interessa la sicurezza delle romane e dei romani come ai palazzinari la qualità del cemento utilizzato nell’edificazione dei loro scempi… altrimenti, d’altra parte, perché rendersi artefice di un provvedimento come quello passato sotto silenzio ultimamente, una ristrutturazione dei commissariati con la relativa imposizione della chiusura notturna per gran parte di questi (ben 29 dei 39 totali) e il dirottamento delle forze disponibili sull’ordine pubblico – per tenere meglio a bada le manifestazioni di piazza – e negli uffici della digos: repressione dell’opposizione sociale, quindi, questa è l’unica idea di “sicurezza” presente nella testa di Marino, mentre a poche settimane dall’omicidio del sedicenne napoletano Davide Bifolco, la solerzia può essere spiegata come una mano tesa all’immagine delle stesse forze dell’ordine, quanto mai appannata.

http://www.romatoday.it/politica/chiusura-notturna-commissariati-roma.html

In ogni caso, non è certo questa la prima volta che la street art affronta o si scontra con il tema della sicurezza. Negli ultimi anni, in virtù del successo del movimento, si sono sprecati i tentativi istituzionali di utilizzare persone e linguaggi della street art per dare verso l’esterno un’immagine “giovane”, dinamica e futuribile di enti locali o governativi. La stessa San Basilio, attraverso un progetto finanziato dal comune, ha conosciuto la pratica dei “muri legali”, tentativi di riqualificazione urbana che hanno visto impegnati street artist importanti come il bravissimo Agostino Iacurci. Ma, da questo punto di vista, è inaccettabile il commento del rappresentante del progetto, secondo il quale: “A distanza di pochi mesi dal progetto ‘SanBa’, studiato e approvato per la riqualifica del nostro territorio che ha visto protagoniste le scuole i bambini e molte realtà sociali buone di San Basilio, questo murales entra a gamba tesa e spiazza noi tutti, compreso chi ha nel cuore anche il lato religioso e morale del quartiere”.

Si tratta del classico tentativo di dividere i buoni dai cattivi per tracciare un confine inesistente tra street artist legali e illegali ai quali i protagonisti si piegheranno molto difficilmente. Al di là del campo libero delle scelte personali, infatti, la street art non perde di senso quando entra nelle gallerie, ma quando dimentica che l’arte non è nata per abbellire le case dei potenti o per soddisfare le necessità di istituzioni antipopolari, ma, al contrario, nel caso della street art per riappropriarsi – per occupare – lo spazio pubblico dell’immaginario sottraendolo al monopolio che la pubblicità a pagamento e/o la propaganda di regime intende esercitarci. Per questo tra street art e forze dell’ordine – sensibilissime alla loro immagine e mai sazie di fiction televisive progettate solo per esaltare chi indossa la divisa – è un eufemismo dire che non corra affatto buon sangue. Lo stesso ricchissimo e popolarissimo Obey, noto per aver realizzato l’icona che avrebbe spianato ad Obama la strada della vittoria elettorale (ma su questo argomento l’artista ha fatto autocritica…), vanta un curriculum di ben 19 arresti, l’ultimo dei quali subito nel corso dell’inaugurazione di una sua mostra in un ufficialissimo museo di arte contemporanea statunitense!

Le forze dell’ordine, insomma, bersagliate dalle critiche degli street artist, reagiscono con particolare durezza di fronte a chi pratica l’arte urbana. Non a caso un altro scandalo italiano dimenticato è quello che ha visto protagonista Rumesh Rajgama Achrige, uno street artist diciannovenne di Como colpito a bruciapelo da un colpo di pistola esploso da un membro della locale squadriglia antigraffiti. Era il 29 marzo del 2006. Inutile precisare che neppure in questo caso gli stimati rappresentati delle istituzioni, essendo il ferito soltanto un graffitaro, hanno mai telefonato.