La prima pietra. Appunti su “La vera storia di Jesse James” e la guerra civile americana

Un’immagine si nasconde tra i fotogrammi ufficiali della breve storia degli Stati Uniti d’America. Non si tratta del solenne George Washington che fissa il volto dei cittadini dai biglietti verdi, né dell’aggressivo ma giocoso Zio Sam che invita la meglio gioventù alla guerra. Non è la grande scritta sulle colline di Hollywood e neppure la fiaccola che, sorretta da una donna di pietra, sorveglia il porto di New York nel nome della libertà. L’immagine dimenticata è quello di un uomo di appena trent’anni – «un uomo alto, con un portamento solenne e la barba scura color sabbia» (così è descritto da suo figlio, Jesse Jr.) – che nella sua casa di St. Joseph ospita due amici pericolosi. Il signore – camicia stirata di fresco, pantaloni con la piega e cinturone di cuoio con due pistole appese ai fianchi – non è tranquillo. Nessuno lo sarebbe nelle sue condizioni, con una taglia di diecimila dollari appesa sopra la testa e gli sceriffi della contea alle costole, disposti anche a giocare sporco pur di togliersi qualche dente avvelenato.

Corre l’anno 1882. E la guerra civile americana, stando ai patti firmati ad Appomatax nel 1865, dovrebbe essere finita da quasi vent’anni. Un periodo durante il quale, in uno stato come il Missouri, i vicini di casa si sono divisi tra la fedeltà all’Unione nordista del generale Grant e la militanza nella Confederazione degli stati del sud guidata dal generale Lee, dando vita a un regno del terrore fatto di stupri di massa, mutilazioni di cadaveri, impiccagioni sommarie, uccisione indiscriminata di donne, vecchi e bambini. Una guerra detta “civile” perché, rompendo ogni differenza tra luoghi abitati e campo di battaglia, trasforma chiunque in un potenziale assassino, arrivando ai limiti della lotta di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi ma, al contrario, con la precisa volontà di infierire sul nemico.

Non c’era mai stato sulla faccia della Terra, fino a quel momento, una guerra capace di generare un numero così mostruoso di morti e uno stato di aberrazione perenne della dignità umana, un’ecatombe che, per una dote tipicamente americana, anticipa tutto e tutti, battendo di almeno mezzo secolo gli orrori delle guerre mondiali – bomba atomica esclusa, tendenza al genocidio compresa – e le atrocità che (basti pensare all’ex Jugoslavia, al Kurdistan, al Ruanda…) hanno caratterizzato i conflitti etnici più attuali.

Si tratta di un punto estremamente importante e bisogna tener conto del fatto che il 3 agosto del 1892 quell’uomo con la camicia candida e la barba color sabbia, nella sua casa di St. Joseph, abbia deciso di slacciarsi il cinturone – qualcuno, vedendolo dalla strada girare armato per casa, potrebbe insospettirsi e avvisare la polizia – e poi, agitato com’era (praticamente è da sempre che vive come un cane randagio), ha dato le spalle agli amici per mettersi –lui! – a togliere la polvere da sopra la cornice di un quadro. Quell’attimo di distrazione – il primo dopo le innumerevoli fughe disperate – gli è fatale, perché Charles e Robert “Bob” Ford hanno già la mano sulla pistola e quando il padrone di casa sente il “click” del cane è troppo tardi, una pallottola alla nuca dimostra che per il piombo non fa nessuna differenza: un comune mortale morirebbe esattamente come ha fatto il mitologico Jesse Wodson James, il fuorilegge più pericoloso del West.

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La morte di Jesse James è un fatto strano. Sulle orme del maggiore John Newman Edwards, sudista irriducibile, firma giornalistica di culto e addirittura «poeta» della causa della Confederazione, tanti epigoni del soldato-scrittore descrissero minuto per minuto gli ultimi istanti del bandito e, negli gli empori, nei saloon, nelle case di piacere, trovarono un folto pubblico persino tra la maggioranza di contadini; magari in lotta contro terre colonizzate a stento eppure già avidi consumatori di giornali. Fu proprio Edwards a coniare, per la gente come Jesse James, il soprannome di “cavalleria del crimine” e il successo clamoroso – a livello di immaginario prima di tutto – del suo Noted Guerrillas induce a un’osservazione forse irriguardosa: a livello economico, esiste uno strano nesso tra il progresso del “capitalismo a stampa” e la diffusione del banditismo – non c’è duello tra pistoleri o linciaggio di neri o impiccagione pubblica di ladri di cavalli che non si tramuti in titoli cubitali, cronaca rovente, grande richiesta di libri, opuscoli illustrati, giornali. L’informazione – ed è stata questa, probabilmente, la più grande innovazione della guerra civile americana – si può far valere su un “campo di battaglia” come e più di una batteria di cannoni; quale arma, in fondo, può funzionare meglio della carta stampata quando la guerra, in quanto “civile”, non è fatta soltanto di scontri tra eserciti ma stana le sue vittime casa per casa?

L’assoluto protagonista dei fiumi d’inchiostro (e di sangue) che inondano il West – il famigerato Jesse James – è un uomo assolutamente in grado di muoversi, con le parole e con le azioni, tra le strette maglie dell’informazione e della propaganda. Per affermare l’irriducibilità delle autentiche ragioni della guerra civile americana visto che, lungi dall’essere un atto dovuto, la causa della liberazione dei neri – con il tempo utilizzata per conferire dignità allo scontro – finisce con il rappresentare l’aggressione del capitale industriale e commerciale del nord, pronto a tutto pur di schiacciare la concorrenza dell’economia sudista, legata all’agricoltura ma facilitata dalla possibilità di impiegare nel lavoro a titolo gratuito migliaia e migliaia di vite umane.

Tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti, il Missouri di Jesse Woodson James è il classico stato cuscinetto e forma la cosiddetta “frontiera occidentale”: un territorio geograficamente più vicino al nord ma con una popolazione pronta a spaccarsi a metà tra unionisti e confederati quando gli eventi offriranno il pretesto di imbracciare la bandiera della Confederazione per difendere i privilegi di un sistema sociale fondato sulla schiavitù.

Figlio di un pastore protestante, Jesse Woodson James, nato nella contea di Clay il 5 settembre del 1847, cresce tra gli schiavi delle piantagioni di famiglia, tirato su dalla madre, Zerelda, e dal dottor Reuben Samuel (descritto dai contemporanei come completamente succube della moglie), l’uomo sposato dalla donna in seconde nozze dopo la morte del primo marito, Robert Sallee James: emigrato in California per seguire il miraggio dei cercatori d’oro e mai più ritornato.

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Nella vita degli “eroi” c’è sempre un momento in cui l’aria spesseggia e, all’incrinatura di un’offesa profonda nel proprio senso dell’onore, si reagisce con conseguenze fatali. Questo è ciò che succede quando la storia del secondogenito del “predicatore James”, nel 1863, abbandona i panni del ragazzo serio e timorato di Dio. Jesse James, intento ad arare il suo terreno con il patrigno, viene prelevato da una squadriglia di soldati unionisti che lo picchiano selvaggiamente e lo costringono ad assistere alle violenze su sua madre, sua sorella e, soprattutto, sul dottor Samuel: appeso al cappio più di una volta dai soldati, ansiosi di estorcergli qualche confessione.

In tutta la zona, la famiglia di Zerelda James, originaria del Kentucky, è nota per le accese simpatie sudiste, per l’aperto appoggio fornito alle squadriglie di ribelli che si costituiscono per scagliarsi contro l’Unione, e per la fede incondizionata in un Dio “bianco”, custode di un sistema che prevede la schiavitù dell’uomo sull’uomo. Dopo l’aggressione, Jesse James, appena quindicenne, decide di scagliarsi contro chi l’ha oltraggiato indossando l’abbondante camicia bianca con le tasche larghe: la divisa utilizzata dai guerriglieri sudisti del Missouri, formazioni irregolari di supporto al generale Lee, che, con quel tipo di abbigliamento, soddisfacevano l’esigenza di avere sempre a portata di mano – rigorosamente cariche – un buon numero di pistole.

Le armi a disposizione dei combattenti, sul momento, sono piuttosto rudimentali. Le pistole automatiche non sono state ancora inventate e caricare un’arma è un procedimento lungo e laborioso, non si può certo fare in campo aperto. E se, per un confronto con le condizioni tecnologiche del 1865, può essere utile fare riferimento a località più familiari degli sterminati territori del “selvaggio West”, basti pensare che solo qualche anno prima i Mille di Giuseppe Garibaldi sbarcarono in Sicilia armati con delle pistole in tutto e per tutto simili a quelle dei guerriglieri suddisti: gentile omaggio all’“eroe dei due mondi” da parte del famoso signor Colt.

Tornando a Jesse James, l’educazione militare del ragazzo avviene nel commando più celebre di tutta la frontiera dell’Ovest, quello guidato da William Clarke Quantrill, protagonista, tra le tante stragi, del terrificante eccidio di Lawrence: tra le centocinquanta e le duecento vittime, massacrate in un solo giorno, il 21 agosto del 1863. Una strage pianificata e realizzata piombando sulla cittadina con il ferro e con il fuoco, ammazzando con la pistola ma anche con il coltello e con il bastone: una carneficina indiscriminata e anche un modo per ornare i propri cavalli, spesso addobbati con gli scalpi che molti guerriglieri strappavano ai propri nemici.

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L’eccidio di Lawrence, nella realtà della guerra civile americana, è soltanto una delle innumerevoli stragi che resero spietato e disgustoso il conflitto. I massacri dei civili, infatti, si susseguirono indiscriminati sovrapponendo all’odio razziale dei bianchi sui neri anche l’odio politico dei bianchi sui bianchi. A combattere sul “confine della pelle” ci pensano squadriglie di cristiani intransigenti e armati – come il Ku Klux Klan – talvolta respinti da piccoli eserciti spontanei di neri liberati, organizzati per opporre resistenza; a portare la guerra contro la milizia nordista e spesso direttamente nelle città del Missouri accusate di essere fedeli all’Unione, ci pensano i partigiani sudisti, spietati come William Clarke Quantrill o come Jesse James.

La supremazia commerciale dei nordisti sarà un fattore determinante per le sorti della guerra civile americana ma quando il generale Lee sancisce la resa del Sud firmando i patti di Appomattox (9 aprile 1865), le numerose bande di guerriglieri che la stessa politica sudista ha contribuito a formare non smobilitano ma continuano a lottare.

Jesse James, insieme a suo fratello Frank e ai fratelli Younger, sono i frutti più avvelenati di questa generazione di irriducibili: i desperados del Wild West, protagonisti di un mito che li trasforma in moderni cavalieri senza macchia e senza paura proprio nel momento in cui, nelle loro azioni, il confine tra guerriglia e criminalità si fa sempre più sfumato.

In realtà, la particolarità di Jesse James – la ragione ultima per cui la cronaca lo ha selezionato tra centinaia e centinaia di guerriglieri sudisti conferendogli un’aurea leggendaria – sta nel modo in cui nel corso delle sue azioni, imboscate alle colonne nordiste o furti con destrezza, il ragazzo del Missouri abbia saputo dare un significato politico alle sue gesta, richiamando l’intera opinione pubblica della frontiera dell’Ovest a spaccarsi su ciò che comunque restava una ferita insanabile: il ricordo delle immani violenze perpetrate da uomini reputati almeno compatrioti se non amici e fratelli. Come moltissimi biografi di Jesse James hanno osservato, l’azione dei partigiani sudisti continuò ad andare avanti anche nella consapevolezza di non avere nessuna prospettiva. I guerriglieri del Missouri si votarono a ciò che loro stessi definivano “la causa persa” e continuarono a combattere. Sospinti da una letale miscela di vendetta, enorme disponibilità di armi e incapacità di rientrare nei ranghi della vita “civile”, i ribelli cambiarono i loro obbiettivi: non più le colonne dell’esercito nordista – ormai ridotti al lumicino, non avrebbero la forza per sostenere un simile scontro – ma i simboli del sistema che li ha sconfitti: le banche e, soprattutto, la ferrovia.

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Il luogo comune non ha dubbi. È senza incertezze attribuisce la paternità della prima rapina a mano armata in una banca proprio a Jesse James. Il record si sarebbe registrato nella cittadina di Liberty il 13 febbraio del 1866 e fruttò ai banditi quindicimila dollari in oro ma anche il primo morto sulla coscienza: il diciannovenne George Wynmore, ammazzato in mezzo alla strada, forse per aver gridato «al ladro» alla vista dei rapinatori.

Reduci dalle brigate di Quantrill, Jesse James con suo fratello Frank e un accolita di altri complici tra cui spiccano i fratelli Younger e Arthur McCoy, ha messo insieme una banda che, dei tempi della guerriglia, ha ereditato l’enorme abilità di spuntare dal nulla, colpire duro e dileguarsi «come nebbia al sole del mattino». Al mentore del gruppo, il maggiore John Newman Edwards, non sfugge la valenza simbolica del numero e, a loro, dedica una definizione – “un quintetto terribile” – destinata a sopravvivere sia allo scrittore che ai banditi.

Il primato della banda James-Younger è, rispetto ai tempi che corrono dall’altra parte del mondo, è eccezionale. Basti pensare che per assistere alla prima rapina in banca con il morto in Italia bisogna aspettare quasi un secolo: è il 1950, infatti, quando il bolognese Paolo Casaroli, insieme ai suoi complici irrompe in una filiale romana del Banco di Sicilia uccidendo Gabriele Angelucci, il direttore. Una tragedia favorita dal riproporsi di una situazione simile a quella americana: l’avvento del capitalismo diffuso e un’insolita disponibilità di armi e di odio a partire dalla fine di una guerra – quella di Liberazione – che anche per l’Italia è stata “civile”.

Animati da un senso dell’azione più esistenziale che politico, i membri della banda Casaroli non cercarono né trovarono il consenso popolare. L’ardimento del loro leader e l’originalità delle sue esternazioni filosofiche furono in grado di dispensare fascino e suscitare sentimenti di emulazione ma non servirono a trovare protezione tra le gente e, non a caso, i responsabili della rapina al Banco di Sicilia vennero velocemente individuati e sgominati dalla polizia. Lo stesso non accadde a Jesse James per la ragione opposta: non si contano neppure le persone disposte a fornire ai guerriglieri rifugio e sostegno morale – gran parte della gente del Missouri, infatti, continua a identificarsi con “la causa persa” e a coprire i suoi migliori interpreti. Una popolarità senz’altro difficile da interpretare, anche grazie agli obbiettivi scelti dal bandito. Le banche erano nate da pochissimo, infatti, ma avevano già fatto in tempo a rendersi assolutamente impopolari: ritenute responsabili delle spinte inflazionistiche e delle speculazione, danneggiavano specialmente gli agrari del Sud, già privati degli schiavi e ora costretti anche a risentire in maniera più sensibile delle fluttuazioni del mercato. Grazie al colpo di Liberty, Jesse James arriva persino a essere descritto come un nuovo Robin Hood anche se con la sua rapina, Jesse toglie ai ricchi, questo sì, ma da sostentamento più a se stesso e ai suoi seguaci che ai poveri. Più che essere un “bandito sociale”, in fondo, Jesse James è un “bandito politico”. E per questa ragione il vero primato nella sua Banda, più che con le rapine in banca, ha a che fare con gli assalti ai treni. In questo caso non sono le date a fare testo ma le modalità prescelte dai banditi. Perché quando la gang James-Younger si presenta alla stazioncina di Gads Hill l’impresa di fermare un treno per rapinarlo è già stata tentata con successo da altri outlaws americani. Quello che non era mai successo, prima del 2 febbraio del 1874, è che dei banditi firmassero le loro azioni con una rivendicazione: «La rapina più audace mai compiuta – scrive Jesse James in un telegramma inviato al «St. Louis Dispatch» dall’impianto di Gads Hill – il treno diretto a sud sulla linea ferroviaria Iron Mountain è stato fermato stamattina da cinque uomini bene armati e rapinato di ___ dollari. […] C’è una grandissima eccitazione in questa parte del Paese» (lo spazio bianco è stato lasciato dal bandito per permettere ai contabili di verificare l’entità dell’ammanco).

La “parte del Paese” di cui parla Jesse James è la stessa a cui lui stesso si rivolge: quell’America bianca e cristiana che, sulla scia delle tensioni razziali, ha dato vita a organizzazioni paramilitari come il Ku Klux Klan, un gruppo a cui lo stesso bandito-guerrigliero fa riferimento visto che, nel corso di un’altra rapina, arriverà ad approfittare del cappuccio bianco degli “ariani” per non essere riconosciuto ma anche per imprimere un significato preciso all’azione. Il significato è che, finita la guerra, la guerra continua: una guerra diversa, “non ortodossa”, un “conflitto a bassa densità” che, come obbiettivo, si scaglia contro le istituzioni più rappresentative del “sistema”.

Jesse James, insomma, è dentro una vera e propria “strategia della tensione” che anticipa non soltanto uno dei modi di «portare avanti la politica con altri mezzi» tipici dell’Occidente del XX e, ormai, anche del XXI secolo. Ma svela la genesi e le origini storiche del terrorismo, dando un volto inaspettato a una tecnica militare destinata a incarnare uno dei tratti più caratteristici della contemporaneità.

Sarebbe curioso osservare come l’appellativo politico usato per i partigiani sudisti – “bravi ragazzi” – sia potuto finire a designare i rappresentanti della criminalità mafiosa di New York e, anche pensando all’Italia, è interessante notare come la stessa espressione, ormai appannaggio di rapinatori e boss di quartiere, sia stata importata originariamente – il merito va a Franco Di Bella de «Il Corriere della Sera» – per stigmatizzare l’operato della Volante Rossa di Lambrate. Il punto della vicenda resterebbe comunque un altro: messa a confronto con le proprie paure, l’America – e con lei tutta l’ecumene a cui funge da riferimento – è costretta a scoprire se stessa.

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Poche immagini sono così caratteristiche di un genere, sia esso letterario, cinematografico o fumettistico, come quella dell’indiano sanguinario e primitivo. Una specie di belva avida di sangue umano, abituata a scuoiare i suoi nemici e magari chissà, anche a cibarsi della loro carne. Fuori dalle rappresentazioni collettive, a tagliare le orecchie ai caduti, a mozzare il naso dei nemici morti e a fare lo scalpo ai loro contendenti ci sono proprio i bianchi americani. Il tutto all’interno di un contesto di violenza diffusa e intestina e non solo per reagire con crudeltà a tensioni di tipo etnico.

La diffusione delle armi non basta da sola a spiegare la velocità con cui si propagò il conflitto, se non altro perché la diffusione dei revolver – icona del cowboy – non fu dovuta agli stereotipati attributi di virilità e spregiudicatezza caratteristici degli eroi del cinema hollywoodiano ma fu un processo innescato dal governo, desideroso di armare i coloni contro gli indiani. Dopo aver sterminato gli indigeni nord-americani, i nuovi nativi rivolsero le pistole contro loro stessi iniziando una carneficina apparentemente impossibile da fermare: un disegno favorito dalla collisione di interessi antitetici all’interno del quale Jesse James trova la sua ragion d’essere principale. È per questo, forse, che in nazioni, come il Canada, dotate di una legislazione altrettanto liberale nei confronti della vendita e del possesso delle armi, si registra ancora oggi un numero infinitamente inferiore di omicidi e/o “incidenti”. È come se, a partire dalla guerra civile, si fosse innescata una paranoia diffusa e una cultura del sospetto che ha esaltato e addirittura reso necessaria l’etica del “grilletto facile”, una specie di maledizione ancestrale che gli Stati Uniti nascondono tra le pieghe del proprio codice genetico, conseguenza di una mattanza originaria nel corso della quale furono proprio i padri fondatori a scagliare “la prima pietra”.

Trascorsi gli anni della guerra civile, i danni di quel bagno di sangue comprendono anche la paternità della banda di Jesse James e, nel tentativo di rimuovere quell’evento, anche la necessità di trasfigurarlo e infondergli un senso di nobiltà.

Ecco, allora, che su diversi giornali del West si leggerà che Jesse James uccide, questo sì, ma sempre rispettando un suo codice d’onore e, spesso, soltanto per difendersi dai provvedimenti presi contro di lui in un Paese incapace di trovare una soluzione politica al problema dei desperados. La leggenda dei vendicatori della causa del Sud, infatti, continua a produrre violenza nei confronti dei “diversi” – sono centinaia i neri uccisi dalle formazioni paramilitari di Lee – ma finisce con il soccombere di fronte a una realtà in rapido mutamento: una società che si “normalizza” ha bisogno di stabilità e vede nelle ferrovie e nelle banche delle opportunità di investimento e non gli avamposti del male.

Il nuovo corso dei tempi si materializza davanti agli occhi di Jesse James quando, dopo aver ucciso il cassiere della First National Bank di Northfield, a sparare contro lui e la sua banda ci pensano i comuni passanti: una reazione inaspettata che costa l’arresto ai fratelli Younger. Nondimeno una parte dell’opinione pubblica si muove ancora per difendere i “guerriglieri” quando i cacciatori di taglie dell’agenzia Pinkerton, il 25 gennaio del 1875, assaltano la casa dove vive la madre del ricercato a colpi di bombe, provocando vittime innocenti e alimentando le ragioni di chi è disposto a risolvere l’affaire James con un’amnistia.

Sulla testa del fuorilegge, però, continuano a essere in palio diecimila dollari e tanto basta per spingere Bob Ford, con la complicità del fratello Charles, tutti e due arruolati da Jesse nell’ultimo periodo della sua carriera, a tradire il capo. E per una vita come quella di Jesse James, agente della guerriglia terroristica, l’unica morte possibile sembra essere quella dovuta a “un omicidio di Stato”. Appurato che nessuno dei fratelli Ford – e meno che mai Bob, da allora detto “il codardo” – avrebbe mai potuto avere la meglio su “la pistola più veloce del West” in un duello faccia a faccia, molti “complottisti”, appurata la notizia che Jesse James era stato veramente assassinato, puntarono il dito contro i presunti accordi presi dai traditori con il governatore democratico Thomas Crittenden.

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Le memorie scritte dal figlio di Jesse James sembrano escludere la possibilità di un coinvolgimento diretto di Crittenden nella “soluzione” del caso James. Ciononostante nel suo racconto, addentrandosi nella vicenda processuale che lo ha visto protagonista, la cosa che emerge con più chiarezza è proprio la «lunga durata» della guerra civile americana: sintomo di una rimozione collettiva di un evento tragico davvero molto difficile da affrontare.

Che il giovane James, come già suo padre, sia colpevole per gli agenti di Allan Pinkerton e i nordisti e innocente per la giuria del tribunale che l’ha assolto dall’accusa di rapina al treno e per l’opinione pubblica confederata non risolve i termini dell’opposizione radicale agli organi centrali dello Stato americano e dell’estremismo politico e religioso di una parte importante della popolazione, dal Ku Klux Klan alle varie associazioni paramilitari ancora oggi operanti in vaste zone degli Stati Uniti, a reagire al cambiamento sociale attraverso la pratica delle armi.

L’attentato subito da Oklahoma City il 19 aprile del 1995 – 2300 chili di esplosivo fatto in casa con agenti chimici impiegati nell’agricoltura e collocato nei pressi del palazzo federale: il bilancio è di 168 vittime, il boato dell’esplosione venne ascoltato a più di sessanta chilometri – è un altro dei massacri che si iscrivono a questa particolare “strategia della tensione”. Anche in questo caso, come ai tempi dell’eccidio di Lawrence, le parole d’ordine degli attentatori erano slogan lanciati contro «il cuore dello Stato»: il loro leader Timothy McVeigh, ventisette anni, è un ex militare, reduce dalla guerra del Golfo, che rivolge armi di distruzione di massa contro i propri concittadini e contro le strutture-simbolo degli apparati del governo centrale. Arrestato dall’Fbi, Timothy McVeigh risultò provenire da un gruppo neonazista armato di ispirazione cristiano-autonomista, la Michigan Militia: prima della carneficina dell’11 settembre del 2001 e il crollo delle Torri Gemelle, la strage di Oklahoma City è il più cruento atto di guerra verificatosi in territorio americano dai tempi di Pearl Harbor. Secondo diversi analisti, i mandanti dei terroristi vanno ricercati nei servizi segreti, interessati a imprimere una svolta autoritaria e imporre a tutto il Paese la legge marziale. Senza considerare che, ancora una volta, non è un agente esterno a colpire anzi, a “scagliare la prima pietra”, è proprio un soldato americano.

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Con il rientro sulla scena della “strategia della tensione” e del terrorismo, la dimensione politica del banditismo di Jesse James può essere recuperata. Ai bordi della rimozione collettiva del disastro della guerra civile fioriscono gruppi su cui il messaggio di James funziona a livello di immaginario su scala globale. L’eco delle gesta di Jesse James giunge in Italia tra le note di alcune fortunate ballate americane e, ancora più massicciamente, grazie alla cinematografia. Nel corso degli anni Settanta sono molte le immagini che descrivono, a livello metaforico, il retroterra immaginifico dei terroristi di estrema destra. I reduci della “brigata di ferro” di William Quantrill sono fatti dello stesso metallo della “guardia” del rumeno Cornelius Codreanu: icone sacrileghe da opporre a un Malcom X o a un Ernesto “Che” Guevara. A monte, le stesse definizioni di “guerrieri senza sonno” e di “cavalieri dalle lunghe ombre” (lo stesso titolo del film su Jesse James di Walter Hill) e la stessa “bandiera nera”; come progetto politico, la stessa assenza di prospettive e la paranoia di sentirsi minoranza oppressa; a livello sociale, spesso, la stessa provenienza da famiglie borghesi e da quartieri-bene; a livello pratico, un’inclinazione ambigua nello stringere rapporti con quelli della Mala, i “bravi ragazzi” di oggi; in tribunale, presenza abbastanza abituale nelle indagini relative ai vari “misteri di Stato”; a livello di militanza l’adesione compatta di gruppi di fratelli: i James o gli Younger negli Stati Uniti, i Fioravanti o i Bracci in Italia, se si va a scorrere l’elenco delle persone indagate a vario titolo per la militanza nei Nar.

Jesse e Frank James come Giuseppe Valerio e Cristiano Fioravanti?

I camperos e le cinte con la fibbia, insieme a un “impermeabile bianco” uguale allo spolverino di Jesse James sono tra i pochi indizi che restano tra l’irrisolutezza di omicidi come quello di Fausto e Iaio a Milano (18 marzo 1978) o di Valerio Verbano a Roma (22 febbraio 1980) ma, soprattutto, sono il segno dell’impermanenza dell’immaginario e il frutto di un rapporto di lunga data con i mezzi di comunicazione.

L’epilogo dell’esistenza di Jesse James, alla resa dei conti, è di natura assolutamente cinematografica. Lo stesso Jesse James Jr., oltre che scrivendo La vera storia di Jesse James, ha contribuito alla causa della memoria del padre interpretando il personaggio di Jesse in Jesse James Under the Black Flag e in Jesse James as the Outlaw, due rari film-documentari del 1921. Ma i capitoli della filmografia relativi al fuorilegge per antonomasia sono ormai sterminati e hanno visto cimentarsi con il re degli outlaws attori come Brad Pitt e Tyrone Power e registi come Walter Hill. Una tensione alla spettacolarizzazione della storia comprensibile anche alla luce dei destini dei desperados di Jesse James: la morte violenta per il “codardo” Bob Ford, assassinato in Colorado; il carcere per Frank James e Cole Younger. Dopo aver scontato la galera, gli ex “cavalieri dalle lunghe ombre” sono costretti a subire l’ironia della sorte. Ma alla fine approfittano della stessa opportunità che gli Stati Uniti hanno concesso agli indiani che hanno smesso di combattere l’uomo bianco. L’opportunità di girare l’America per esibire i fantasmi di loro stessi in uno spettacolo in grado di richiamare un folto pubblico: una carovana errante cui andò il nome di James-Younger Wild West Show.

L’applauso del pubblico è sempre liberatorio. Anche se fino a oggi non è mai stato sufficiente per affrontare una volta per tutte il fantasma di Jesse James e risolvere le contraddizioni che l’hanno generato.

a.pcxKcristiano-armati-la-vera-storia-di-jesse-james-newtonPostfazione al volume La vera storia di Jesse James, di Jesse James Jr., a cura di Cristiano Armati, Newton Compton, 2007

Idee di patria. La letteratura della guerriglia in Italia

Come tutte le storie, anche quella della letteratura è gravata da un pregiudizio difficile da sradicare. Minaccioso come una censura che, seppur mai decretata da alcun organismo di controllo, sortisce l’effetto di occultare interi campi di sapere dall’enorme valore critico-culturale, questo pregiudizio è l’idea secondo la quale l’intera produzione mondiale di documenti scritti può essere divisa in due gruppi ben distinti: da un lato uno spazio “alto”, dove troverebbero cittadinanza il romanzo borghese, la poesia colta e la saggistica speculativa di matrice accademica; dall’altro lato un territorio “basso”, all’interno del quale andrebbero automaticamente collocate tutte le opere di natura eminentemente tecnica insieme a qualunque spunto – dalle scritte sui muri agli stornelli improvvisati “a braccio” – di natura popolare e, spesso, anche a qualunque traccia linguistica subalterna nell’economia e, di conseguenza, anche nei contenuti e nello stile.

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Poverino

La mattina ho gli occhi chiusi come i gatti appena nati. E ho la barba lunga anche se sono appena stato dal barbiere. Tutt’intorno, i rubinetti gocciolano. E l’aria sembra sia appestata dal cadavere di un cane morto, nascosto da qualche parte, sotto il letto. La prima macchinetta di caffè si risolve in una bestemmia quando, sul fuoco, ci finisce senz’acqua. E per andare al bar è tardi, vicino casa nemmeno in doppia fila c’è posto.
Lo schienale della macchina – qualche ubriaco, di notte, ha urtato lo specchietto che adesso pende sul lato del guidatore come un braccio spezzato – mi fa sentire sulla schiena una chiazza di sudore, sempre più grande, sempre più grande. E la gente che mi circonda è come me, rinchiusa in un rancore che nasce da qualche parte ma che ormai è divento un’abitudine sorda: il bisogno impellente di imprecare, di stringersi dentro uno sguardo torvo, di morire a poco a poco, salutando con il clacson che lacera i timpani la sentenza con cui, tutte le mattine, si monta in macchina per andare a lavorare.
Fantasie di morte per la signora che si piega le ciglia al centro della carreggiata e l’uomo grasso e brutto, con le dita infilate nel naso come per cercare un’illuminazione. Bestemmie per chi tiene alti i giri del motore con la pretesa di infilarsi nel varco lasciato libero da un autobus in manovra. Atroci sofferenza anche per i bambini, incolonnati con la grazia della carne in scatola davanti ai cancelli della scuola. Incubi per l’orologio che, all’incrocio tra via dell’Acqua Fredda e la complanare che porta alla Pisana, sentenzia un ritardo impossibile da recuperare: merda; il sole rimbalza sull’asfalto e mi ferisce. Il desiderio fugge strisciando nelle cunette pur di non sedermi accanto. Le ascelle, irritate, mi bruciano e i sedili in finta pelle della mia macchina non mi consolano: il semaforo è rosso. Mi fermo. E la vedo. Fa caldo ma lei non suda. Solo la sua pelle, scura, sembra diventare più morbida mentre si porta un ragazzino al seno. Le macchine finalmente stanno zitte. Lei, allegra, le accosta tendendo la mano. Io l’aspettavo: mi costa un euro ogni giorno farmi spiegare la vita. Quando arriva il mio turno, Lei mi dice soltanto: «Domani parto».
«E dove vai?»
«A casa, in Bosnia. Mi faccio un po’ di vacanze, ritorno tra due mesi».
Le porgo la mia moneta, adesso anche io sorrido.
«E tu, quand’è che vai in vacanza?», mi chiede.
Io non vado in vacanza. Ad agosto mi chiudo dentro casa, sudo e scrivo: «Io devo lavorare, per me niente vacanze».
Lei si stringe nelle spalle: «Ma dai». Poi mi carezza la guancia e, sulla mia condizione, riflette: «Poverino…».
Il semaforo è verde e qualcuno, da dietro, riprende a suonare. Metto la prima e lei resta lì: avanzo e la saluto con gli occhi.
Affondo il piede sull’acceleratore e ci metto pochi secondi a superare i cento all’ora. Guardo il contachilometri salire mentre mi lancio in un sorpasso a destra. Poi anche io lo penso.
«Poverino…».

Quando l’uomo bianco è perplesso

Lo zenzero, contorto, aspettava affastellato alla rinfusa. Faceva compagnia a porri giganteschi, dal sapore forte e di color verde scuro. Le patate dolci erano impilate dentro cassette di legno, venivano dall’India, il paese di Indira.
Di Indira mi piacevano i vestiti: velluti dorati sulla pelle scura e, sull’ombellico, un anello d’argento e pietre dure. Lei l’avevo conosciuta camminando: la via Appia per piazza San Giovanni, poi su, attraverso Piazza Santa Croce fino a Piazza Vittorio, tra i banchi del mercato, sotto al sole. L’uomo del pesce dava ai gatti quello che gli era rimasto: branchie, fegatelli, squame, tante spine, un carapace vuoto di granchio. Indira stava là, poi mi avrebbe svelato di essere capace di capire il sesso dei gattini dallo sguardo.
Io, Indira, la guardo negli occhi: lei, ferma con le buste della spesa tra le mani; più tardi sarei rimasto incantato nel vederla cucinare. Sono io che le porto le buste della spesa su per le scale del palazzo con i soffitti alti e le finestre spalancate sopra il mercato. L’ascensore è rotto. Indira abita al quinto piano. Quando passa la metropolitana trema tutto il pavimento, intanto faccio come mi dice lei e mi metto seduto. Zenzero, cannella, curry, pepe nero, noce moscata: Indira conosce mille modi per addomesticare il riso basmati. Le polveri si infiammano nella padella rovente, si sciolgono in olio profumato. Indira, da bere, mi ha dato un bicchiere di yogurt bianco pieno di cubetti di ghiaccio. Non bastano alle mie passioni per smettere di sognare più caldo del sole che fuori sta sciogliendo l’asfalto. Il riso basmati arriva in un piatto incorniciato da elefanti azzurri, lo prendiamo con le dita e lo mangiamo. Con la lingua rubiamo i chicchi che ci facciamo scappare dalle labbra. Girando intorno al piccolo tavolo di legno della cucina, Indira viene a prendermi. Una sua mano stringe la mia sulla pelle calda della pancia fermando il gioco che cercavo intorno al cerchio d’argento dell’ombellico. Poi, vicino alle orecchie, Indira sussurra: “Aspetto un bambino”.
Sotto casa di Indira è quasi finito il tempo del mercato. Mille cassette per la frutta sfasciate e torzoli marci di insalata non turbano l’ordine dei sacchi pieni di spezie che vende Alì. Lui se ne sta seduto su una sedia di vimini e aspetta i clienti. Con una premonizione risponde al mio saluto: “Quando l’uomo bianco è perplesso mangia il cous-cous”.

La leggenda di Anagnina

Dove finisce la città e comincia la periferia, ci vogliono venti fermate di metropolitana per arrivare fin qui partendo dal centro e scendendo alla stazione di Anagnina. Nelle aiole sono stati piantati i semafori: la loro luce rossaè una benedizione per quelli venuti da paesi lontani a lavare i vetri delle macchine in cambio di tanti insulti e qualche monetina. La poca erba corrosa che è rimasta ai lati della strada è buona soltanto alla pancia stremata di un cammello che sogna il deserto e sputa per terra quando la frusta del domatore glielo chiede: una volta all’anno, qui ad Anagnina arriva il circo con le sue roulotte scassate e il suo tendone scolorito. Con un euro si prende lo zucchero filato. Con tre euro si possono lanciare cicche arroventate a scimmie moribonde. Con cinque euro si assiste allo spettacolo completo: i gargarismi di fuoco della donna cannone, la lotta di un sandokan pelato con il feroce alligatore, l’eccitazione per i giorni migliori di una ballerina brasiliana, più nuda delle sue gambe con le vene varicose.

Al circo di Anagnina, ormai, hanno smesso di esibirsi le star internazionali: l’uomo-bruco è morto e Jack “faccia da cane” è andato a vendere la sua deformità altrove. Arriva la sera e le tribune restano vuote. Spettacolo dopo spettacolo, il circo naufraga senza nessun testimone. Il domatore dimentica di essere spietato, spalanca le gabbie e dice alle sue bestie: “Arrangiatevi se volete trovare da mangiare”.

L’erba secca andava bene al cammello e, nelle fogne aperte sotto il cielo, trovò rifugio il feroce alligatore. Ma alla ballerina il cibo non bastava, lei poteva vivere soltanto di danza e di passione. Passione offerta ai lavavetri e comprata a prezzi popolari: dieci euro per la bocca, venti per l’amore. Amore senza precauzione: dalla pancia delle ballerina saltò fuori una bambina che aveva addosso i cinque continenti. Il bruno della terra, il giallo del sole, il rosso del furore, il bianco del freddo in fondo al cuore. La bambina si presentò al mondo dalla parte dei piedi e, come levatrice, ebbe soltanto la Donna Cannone. Così, appena nata, la bambina perse la mamma e trovò un padrone: un domatore di seconda classe, un dittatore che non aveva ancora imparato a nascondere la frusta e ad accendere la televisione. Tra tutti i santi del calendario e i cartelli della metropolitana, il domatore fece confusione e non trovò alla bambina un nome più bello di quello di Anagnina. Anagnina Sanchez per l’ufficiale di stato civile un po’ ubriaco che dimenticò i dati necessari alla sua registrazione. Lui beveva tanta grappa e Anagnina non seppe più quanti anni aveva. Da ragazzina, Anagnina abitò insieme a quelli del circo, ma soltanto finché fu capace di entrare tutta intera dentro una scatola di scarpe, perché le ossa che si allungano per accogliere la carne non fanno bene alla carriera di una contorsionista. Le tette che si gonfiano, invece, alzano il coperchio della scatola e dicono al domatore che è arrivato il momento di insegnare ad Anagnina come si fa a soddisfare quel desiderio di ballare che una volta era stato di sua madre ma che adesso era suo. Lo stesso desiderio che salva Anagnina dalle ire di un controllore quando, sulla metropolitana, viene sorpresa a viaggiare senza biglietto. Troppo cresciuta per essere ancora una contorsionista, Anagnina era stata mandata via dal circo con un’unica consolazione: un talismano che la donna cannone aveva confezionato lucidando nella sua barba un dente di cammello. Con questo amuleto appeso al collo, Anagnina seguì il controllore negli uffici dove stampano i biglietti della metropolitana: se era cresciuta troppo per fare la contorsionista, Anagnina era cresciuta al punto giusto per cominciare a fare la puttana. Anagnina obbedisce ai clienti e, se si mette in ginocchio, non lo fa certo per pregare, ma per impastare il suo pane con chi paga: domatori di leoni, controllori di biglietti e poi soprattutto poliziotti. Gente interessata a verificare che Anagnina fosse in regola con la questione dei permessi di soggiorno e quella dei passaporti.

I poliziotti chiudono gli occhi sui documenti che Anagnina non ha mai avuto e li riaprono davanti a qualcos’altro: il corpo di una ragazza completamente nuda con, appeso al collo, il dente di un cammello avvelenato dal monossido di carbonio che l’animale mangiava insieme all’erba di Anagnina, non la ragazza, ma la stazione della metropolitana. Luogo sperduto dopo le ore di punta, la stazione di Anagnina viene popolata, improvvisamente, da una lunghissima processione di persone in uniforme: poliziotti, guardie di finanza, ispettori forestali, carabinieri. Si raccontavano l’uno con l’altro, i militari, quello che stava succedendo grazie al corpo di una ragazza che aveva addosso tutti i continenti e che trasformava i gradi delle divise e le mostrine in miracolosi rimedi contro i mali. Così le guardie smisero di essere sergenti, caporali, marescialli e capitani; persero le  pistole ai fianchi, le le torture in caserma e le ulcere gastrointestinali e, come per magia, diventarono giardinieri, fornai, pasticceri, muratori e falegnami.

Questa storia, accaduta allora, adesso è una leggenda: qualcosa che si sente raccontare a bassa voce dai più vecchi tra tutti i pendolari. Qualcosa che consiglia a tutti di cercare bene perché da qualche parte deve pur danzare ancora la seconda bocca della ragazza che si chiama come una fermata della metropolitana: Anagnina; la ragazza che, prima di diventare santa, era stata guaritrice di poliziotti, puttana, contorsionista e ballerina.

Il feticismo della guardia: guerre, uniformi e altre oscenità

C’era una volta un bastimento carico di uomini neri. Uomini razziati nel cuore del continente africano, legati uno all’altro con un cappio stretto intorno al collo, segregati nel buio delle stive, torturati e malnutriti: se sopravvivevano diventavano schiavi. Carne fresca che al mercato di Mkunazini si vendeva un tanto al pezzo: un dollaro per un bambino, dodici per una bella ragazza, di più per un uomo grosso e forte. Tutto questo, come ricorda il reporter Ryszard Kapuscinski (Ebano, Feltrinelli) succedeva a Zanzibar, l’isola maledetta, la “stella nera”, in pratica solo uno dei luoghi dove i mercanti portoghesi (e altri con loro e dopo di loro), grazie all’approvazione dei re e alla benedizione di dio, smerciavano gli schiavi diretti alle piantagioni degli Stati Uniti o del Brasile: schiavi che i mercanti chiamavano semplicemente “ebano”, sottolineando, con questo nome, come gli uomini resi oggetto del loro commercio non fossero altro che cose.

Ridotte a cose, le esistenze degli schiavi vennero condannate al lavoro brutale e coatto mentre, le manifestazioni delle loro menti, furono umiliate e negate. Fu allora, infatti, che le visioni del mondo e i saperi antichi e preziosi degli uomini africani resi schiavi vennero passate al vaglio della teologia cristiana e dello scientismo razzista anche se, ancora una volta, furono i mercanti portoghesi a trovare un nome ai comportamenti rituali e alle raffigurazioni di divinità che, derise in quanto reputate primitive e irrazionali, vennero indiscriminatamente archiviate sotto la voce “feticismo”. Così, quegli oggetti ai quali le popolazioni locali rivolgevano una particolare devozione, divennero “feticci” mentre i “feticisti” sarebbero stati gli adepti di un culto che i primi missionari, considerandolo frutto del demonio oppure esempio di degradazione umana, provarono con zelo a sradicare.

Feticismo, colonizzazione, cosificazione


Dal gergo dei mercanti
, attraverso le relazioni compilate da missionari e da viaggiatori, il termine portoghese “fetiço” venne tradotto in tutte le lingue europee. L’etimologia della parola, derivata dal latino “factitius” (artificiale), lasciava intendere che, di fronte al feticcio, si aveva a che fare con un oggetto prodotto mediante un procedimento tecnico, un procedimento che trasferiva all’oggetto il controllo di quelle qualità che la natura offre all’uomo come incerte: la fertilità della terra, la clemenza del tempo atmosferico, la capacità di procreazione.

Con questa accezione, il feticismo entrò a far parte della scienza delle religioni nella seconda metà del XVIII secolo grazie alla fortunata opera del magistrato francese Charles De Brosses il quale, raccogliendo le riflessioni operate da Hume nella sua Storia naturale della religione (1757), scrive Sul culto degli dei feticci o parallelo dell’antica religione egiziana con la religione attuale della nigrizia (1760; trad. it. Bulzoni, 2000), un libro che trasforma quelle che erano state le visioni preconcette di osservatori occidentali in un sistema religioso di senso compiuto e che, sostenendo una teoria evolutiva della storia umana, colloca tale sistema religioso sul gradino più basso dello sviluppo morale e materiale: quello dell’infanzia dell’umanità.
Stigmatizzando l’impostazione di De Brosses, l’etnologo Marcel Mauss (1907) negò ogni validità scientifica al concetto di feticismo, contribuendo in maniera decisiva a collocare la storia di questa idea sul versante del malinteso.

04.Feticcio1Un malinteso che, se riletto attraverso il Discorso sul colonialismo del poeta martinicano Aimé Césaire (1955; trad. it. Lilith, 1999), rende il feticismo un miraggio, un pregiudizio nato all’interno di rapporti – quelli tra colonizzato e colonizzatore – che: «trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurma, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione». Poiché tra colonizzatore e colonizzato, continua Césaire: «c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia…»; allora, conclude il poeta: «Adesso tocca a me porre un’equazione: colonizzazione=cosificazione».

Uomini e cose

Rinchiudendo le credenze degli indigeni africani tra le sbarre della categoria feticismo, i colonizzatori crearono una realtà, quella di un’umanità stupida e barbara, e, allo stesso tempo, prescrissero i modi con cui affrontarla, suggerendo la necessità di un domino territoriale che sottraesse ai suoi legittimi abitanti tutte quelle ricchezze che essi, nell’opinione degli stessi colonizzatori, non sarebbero stati capaci di sfruttare in maniera razionale.

Certo è che, esplorata alla luce di questa prospettiva, la riduzione al feticismo delle culture africane suona come grottesca e paradossale. “Feticiste”, infatti, non sono tanto le credenze dei gruppi umani che attribuiscono una forza magica e sacrale agli oggetti del loro culto. Feticisti, piuttosto, sono i comportamenti degli stessi colonizzatori che, nei confronti degli indigeni, operarono quel “doppio scambio” che nel suo Fascino. Feticismo e altre idolatrie (Feltrinelli), il filosofo Ugo Volli riconosce come la faccia buia dei rapporti di potere occultati dal fascino ambiguo delle cose. Perché, proprio nel comportamento dei colonizzatori, vediamo il modo in cui: «ciò che dovrebbe essere soltanto una cosa inerte» – la frusta: simbolo dei colonizzatori e del loro ruolo – «si presenta con i caratteri più intensi della vita e del potere,» mentre: «ciò che è vivo e riguarda la persona» – gli indigeni soggetti alla colonizzazione – «risulta ridotto a puro oggetto, cosa fra le cose».

03.Feticcio9Attraverso le riflessioni di Ugo Volli, in sostanza, vediamo come il feticismo degli schiavisti europei si abbatta sui popoli africani attraverso il superamento di un confine: quello che separa gli uomini dalle cose. La schiavitù, da questo punto di vista, è un’autentica “deprivazione dell’umano”, una pratica che, se ebbe modo di sfogare la sua ferocia in oltre quattrocento anni di impunito esercizio sul territorio africano, allo stesso tempo non garantì alla placida Europa l’immunità dai terrificanti effetti di ritorno del mostro che essa aveva creato. 

Arriviamo, così, ai campi di concentramento nazisti e, risalendo la corrente del dramma fino alla contemporaneità, tocchiamo i campi che, nella ex Jugoslavia, sono stati allestiti nel nome della pulizia etnica e sulla scia di quell’azione disumanizzante che l’Europa praticò in Africa senza poter fare a meno di insegnarla a se stessa. «E così, un bel giorno,» commenta Césaire: «la borghesia viene svegliata da un formidabile contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti». Quello che veniva preparato, attraverso il nazismo, era il tragico epilogo di una volontà di dominio fondata, come nel caso della colonizzazione, sull’elezione di una parte del genere umano a razza eletta; l’abbattimento di ogni distinzione tra l’uomo e l’oggetto era ciò che, nella schiavitù come nel nazismo, sarebbe stato celebrato.

Quando il potere indossa l’uniforme

Numerosi intellettuali hanno riflettuto sulla barbarie del nazifascismo e sulla crudeltà della colonizzazione e della schiavitù rinvenendo, in questi tristi periodi storici, l’inserimento coatto di interi popoli e intere culture all’interno delle strutture di uno spietato dominio sado-masochista. Basti ricordare, a tal proposito, il terribile Doveri di violenza, dello scrittore maliano Yambo Ouologuem o, per restare tra i militari, il pluricensurato Salò di Pier Paolo Pasolini. Il film di Pasolini, in maniera particolare, mette in scena una sorta di iconografia funebre che ha nelle impeccabili divise, negli stivali tirati a lucido, nelle lucenti decorazioni di guerra, i suoi luoghi centrali. La sbirraglia nazifascista, d’altra parte, ha curato in maniera ossessiva le uniformi, nascondendo dietro le croci al merito l’incredibile villania di massacri che, spesso e volentieri, vennero perpetuati ai danni dell’inerme popolazione civile.

02.Feticcio6La questione delle uniformi, tra quelle sollevate dai problemi della guerra, potrebbe sembrare una materia futile e scontata essendo, le uniformi, un semplice mezzo di distinzione, un modo per distinguere un esercito da un altro. Oltre questa considerazione tecnica, però, lo studio della storia degli eserciti europei mostra come, le uniformi, furono tutt’altro che la prima preoccupazione degli stati nel momento in cui questi equipaggiavano i loro eserciti. Al contrario, il problema dell’uniformità dell’esercito – come il problema del feticismo – si pose come tale soltanto nel corso del XVIII secolo e, come mostra la storica Sabina Loriga in un libro (Soldati, Marsilio) dedicato al più antico esercito italiano, quello piemontese: «ci vollero molti anni perché la divisa, distribuita per la prima volta nel 1671, diventasse un elemento caratteristico e insieme scontato della vita militare». 

Ecco, allora, i pantaloni bianchi, il giustacuore azzurro, la sciarpa azzurra intrecciata d’oro: «anche grazie a tanta armonia cromatica,» spiega la Loriga, «la divisa permetteva di segnare l’uniformità della truppa: fili di corpi della stessa altezza, visi e baffi uniformi».
Attraverso l’azione di questa nuova politica militare, in sostanza, il difforme elemento umano che compone l’esercito viene eliso dall’uniformità delle nuove divise, simulacri del potere di vivere o, come direbbe Foucault, di respingere nella morte. 

Un’operazione feticista in piena regola, dunque, quella che attraverserà le caserme del XVIII secolo e che si soffermerà sui corpi dei soldati per addomesticarli alle esigenze di una nuova gerarchizzazione sociale che, se restituirà al mondo il soldato in uniforme, segregherà il soldato nei cordoncini e nelle mostrine della sua stessa divisa, lo distinguerà in maniera irriducibile dal civile e lo preparerà, già nel corso del XIX secolo, a rendersi responsabile dei più grandi massacri mai ricordati nella storia dell’umanità. Massacri che, in massima parte, saranno destinati ad abbattersi sulla popolazione civile: uomini, donne e bambini privi di quei “caratteri intensi della vita e del potere” che “il feticismo della guardia” toglie alla gente comune e riconosce all’uniforme. 

Il fascino della divisa, il feticismo della guardia

«Anche le donne che sostengono di non badare che al fisico d’un uomo,» scriveva Proust ne La strada di Swann, «vedono in quel fisico l’emanazione di una certa vita. È la ragione per cui s’innamorano dei militari, dei pompieri: l’uniforme le rende meno esigenti per il viso; credono baciare sotto la corazza un cuore diverso, avventuroso e dolce».

Tuttavia Anna, una giovane ragazza moldava, non si è innamorata di nessuno, semplicemente: «Per cento dollari potevano fare di me ciò che volevano, arrivavano ubriachi a qualsiasi ora, pagavano e facevano di tutto. Volevo chiedere aiuto ad uno dei tanti soldati che mi hanno portata a letto ma loro pagavano, volevano solo una cosa e non ascoltavano» (Dall’Avvenire del 2.2.2001). I soldati di cui parla Anna sono i militari della Kfor, la forza Nato che deve avere una bizzarra idea della pace visto che, la sua presenza nei Balcani, più che alla causa della pace ha giovato, fin’ora, alla causa dello sfruttamento della prostituzione.

Come i loro colleghi della Kfor, anche alcuni militari del contingente italiano di stazza a Massaua, impegnati a garantire la difficile pace tra Etiopia ed Eritrea, sembrano vivere “il fascino della divisa” che indossano limitandosi ad utilizzare l’Altro (il civile) come una cosa: coinvolti in un giro di prostituzione infantile che prevedeva orge con bambine di 10, 11 anni sono stati privati della libera uscita per punizione. D’altronde, protestava il funzionario Farkhan Haq: «quando nella scorsa primavera è scoppiato un caso simile (…) e che coinvolgeva soldati del contingente olandese, la commissione era formata esclusivamente da funzionari delle Nazioni Unite» (Da La Repubblica del 25.08.2001).

Funzionari che, negli ultimi tempi, si sono trovati a fronteggiare una serie documentata (oltre 1500 testimonianze) e agghiacciante di accuse che puntano il dito contro i campi profughi e contro i caschi blu in missione di pace in Africa Occidentale. Questi barattavano il cibo, le tende e gli altri aiuti umanitari con il sesso dei loro spesso piccolissimi assistiti: «L’indagine ha anche appurato le cifre pagate dagli operatori: una ragazza liberiana ha ottenuto 10 centesimi di euro; in Guinea alcuni caschi blu avrebbero pagato 5 euro» (Nota UNHCR-Save the Children del 27.2.02).

Cifre, queste pagate dai militari moderni, che farebbero invidia a un negriero di tre secoli fa, segno che il feticismo della guardia concede soltanto quel tanto che basta alla sopravvivenza dei mezzi di riproduzione (del proprio piacere) e in questo, tale forma di deprivazione dell’umano, non si discosta dal feticismo delle merci di cui parlava Marx quando criticava l’attitudine capitalistica a presentare i rapporti tra le persone e le classi sociali, non come rapporti tra uomini, ma come rapporti tra cose. 

Rapporti che negli ultimi tempi sono tornati a stabilire limiti sempre più angusti all’essere umano visto che non si fanno scrupolo di trasformare nelle cifre statistiche previste dalle “guerre preventive” a cui si demanda il compito di “esportare la democrazia” quelle che, nella realtà, sono persone morte nel corso delle sviste di “bombardamenti chirurgici” dei quali si racconta che sono stati dolorosi ma inevitabili. Inevitabili proprio perché questo fa il feticismo della guardia: dispensa guerre, uniformi e altre oscenità.

Vienna 1925: un capitolo di antisemitismo e di repressione sessuale

Città particolare Vienna: adagiata dove le pendici orientali delle Alpi digradano fino a incontrare le steppe ungheresi, lungo le alture costeggiate dal Danubio, la vecchia capitale dell’impero asburgico offre ai contemporanei una storia che suona come una condanna. La condanna a vivere se stessa come punto fermo di un confine culturale, una porta chiusa in faccia alle pressioni mediterranee, una roccaforte dall’interno della quale votarsi a una sorta di perpetua resistenza. Perché resistere è la parola d’ordine che i governanti austriaci, da secoli, ammansiscono al popolo. Una resistenza che ogni volta maschera le sue esigenze politiche ed economiche con una retorica da guerra santa, un linguaggio da soluzione finale accompagnato dalla puzza di zolfo con cui, immancabilmente, si avvolge l’avversario di turno nei panni del diavolo in persona.

Bastione cattolico nell’Europa orientale, per secoli, il grande impero di cui Vienna era capitale, ha edificato la sua identità consacrandosi a una duplice missione: la resistenza alla pressione ottomana e la lotta all’eresia protestante. Uno stato di guerra permanente che impedì alla corona d’Austria di abdicare dal suo ruolo di difensore della cristianità anche quando, con il XIX secolo, l’opposizione all’islamismo e al luteranesimo perde la sua pregnanza storica. In bilico tra nuove filosofie e concezioni strapaesane, allora, la Vienna di quegli anni è la città del principe Metternich, cabina di regia di una restaurazione convinta che una buona polizia avrebbe senz’altro potuto avere la meglio su quelle fantasie che un corso di nome Napoleone Bonaparte aveva esportato in mezza Europa. A cominciare da quella che era stata una delle conquiste più importanti della rivoluzione francese, l’emancipazione di milioni di individui costretti, fino ad allora, a subire la vergogna dei ghetti, la violenza dei pogrom, l’onta delle prediche forzate: gli ebrei.

  • Il disagio nella contemporaneità

Una transizione tutt’altro che semplice quella che, dall’ancien regime, avrebbe dovuto traghettare un continente intero verso la contemporaneità proponendo un nuovo modello di stato laico, fondato sui diritti di cittadini uguali di fronte alla legge. Un processo che, nell’Austria imperiale, fu più lento che altrove. Ancora nel 1848, infatti, il numero di famiglie di religione ebraica residenti a Vienna non poteva, per legge, superare le 200 unità. Solo nel 1867 una nuova legislazione, sancendo l’uguaglianza dei diritti civili, abrogò il numero chiuso e Vienna cominciò a popolarsi di ebrei che, attraverso l’esercizio delle arti liberali e delle professioni legate all’economia e alla cultura, furono gli animatori di ciò che ancora oggi molti storici ricordano con il nome di “età dell’oro di Vienna” anche se, come sottolinea Paolo Genesio: «Per lunghi periodi, fra il 1815 e il 1914, Vienna non fu d’oro più di quanto il Danubio fosse blu».

Dopo una breve stagione di governo liberale, infatti, una vasta area di malcontento si coagulerà intorno ai nuovi partiti di massa di ispirazione cristiano-sociale e pangermanista. Questi, fautori di una politica demagogica e oscurantista, fecero di un acceso antisemitismo la loro bandiera, presentando come componente essenziale della propria linea di azione la lotta contro gli ebrei, considerati registi occulti di un gigantesco complotto che, dalla rivoluzione francese in poi, avrebbe operato per corrompere le radici spirituali dei popoli cristiani spianando la strada a una dominazione giudaica che una nutrita pubblicistica di matrice cattolica e razzista prometteva come terribile e imminente.

  • Così respirò Adolf Hitler

Anche il giovane Adolf Hitler, immigrato a Vienna in cerca di fortuna, unì le sue frustrazioni di imbianchino disoccupato all’ammirazione per il violento capo degli antisemiti viennesi: Karl Lueger che governerà Vienna dal 1895 al 1910 e di cui, il futuro dittatore, tesserà le lodi nel Mein Kampf (1926) salutandolo come «il più grande borgomastro tedesco di tutti i tempi».

Attraverso la vecchia via del pregiudizio antiebraico, in sostanza, l’antisemitismo nazista andava saldandosi con le opinioni di una chiesa cattolica che, lungi dal prendere le distanze dai cristiano-sociali, offre loro un ampio sostegno. Non a caso, anche in Italia, a pensarla come Adolf Hitler, troviamo un Alcide Degasperi che, dalle colonne di un giornale trentino, scrive: «In Austria […] spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. […] Vienna era completamente sotto il gioco degli ebrei. Giornalisti, si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali, tenevano gli operai cristiani in condizioni di schiavi; commercianti facevano con grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica» (da «Il Domani d’Italia» del 15 maggio 1902).

D’altronde, come difensori de “la morale pubblica” e come irriducibili avversari de “lo spirito talmudico”, neppure le più alte gerarchie cattoliche vollero opporsi alle intenzioni omicide di Adolf Hitler. Questi, non appena preso il potere in Germania, raccolse anche la benedizione dei vescovi tedeschi visto che, sotto il suo spietato regime: «Il cristianesimo viene sostenuto, la moralità viene migliorata, la lotta contro il bolscevismo e l’ateismo viene condotta con successo».

Parola di mons. Berning, collega del vescovo Steinmann che, nel 1933, in occasione dell’esposizione della tunica di Cristo a Treviri, salutò la folla al grido di Heil Hitler spiegando poi che i vescovi tutti riconoscevano nel sanguinario aguzzino un baluardo contro «la peste della letteratura immorale».

  • Lo spirito talmudico e la letteratura immorale

La vena di forte pessimismo in campo sessuale che, a partire dalla speculazioni paoline, caratterizzerà il cattolicesimo, non trova nessun riscontro né nella Bibbia ebraica, né nell’Antico Testamento. Molti passi biblici, anzi, mostrano una forte spregiudicatezza in campo sessuale, offrendo al lettore narrazioni ricche di episodi dove perfino rapporti sessuali atipici o incestuosi vengono vissuti senza particolari drammi etici: dalle figlie di Lot che ubriacano il padre e, per soddisfare il loro desiderio di maternità, ci vanno a letto a notti alterne (Gen 19, 30-38), all’astuzia di Tamar, la vedova che, travestita da prostituta, inganna il suocero concependo un figlio con lui (Gen 38, 13-18). Un’autentica lode alle gioie sessuali, poi, è quella contenuta nei Proverbi, dove leggiamo: «Sia benedetta la tua sorgente; trova gioia nella donna della tua giovinezza; cerva amabile, gazzella graziosa, essa s’intrattenga con te; le sue tenerezze ti inebrino sempre; sii tu sempre invaghito del suo amore!» (Pro 5, 18-20).

Anche se è impossibile condensare in un discorso unitario la trimillenaria storia ebraica, tendenzialmente, in campo sessuale, nell’ebraismo non trovò spazio l’elogio della castità che caratterizza il cattolicesimo. È nota, semmai, una convinzione tradizionale ebraica: quella secondo la quale, il sesso, ha il potere di invocare sugli amanti la discesa della Shekinah, la “divina presenza”, un triangolo santo dove Dio si unisce all’uomo e alla donna nel mistero della procreazione. Privo del peso angosciante del peccato originale, l’ebraismo pone il gesto di Eva al di là del frigido territorio della colpa, elevandolo a merito: il merito di aver donato all’umanità una storia da vivere fuori dalla monotonia asettica del giardino primordiale. Così, se i rabini sono soliti invitare i credenti a celebrare degnamente lo Shabbat accostando, alle gioie delle lodi a Dio, le più terrene gioie della camera da letto, fuori dall’ortodossia, con pregnante humor ebraico, tra le comunità americane risuona una divertente domanda: «How do you get a Jewish girl to stop fucking?» – «You marry her», (Come puoi fare per impedire a una ragazza ebrea di scopare? – La sposi…). E, tanto per sottolineare che farlo “alla missionaria” non è certo l’unica posizione consentita al credente, in quell’immenso monumento di cultura ebraica che è il Talmud, semplicemente è scritto: «Tutto quello che l’uomo vuole fare con la sua donna può farlo» (Nedarim, 20). Inoltre, anche in pieno Medio Evo, la Lettera sulla santità (XIII sec.), offre sprazzi di luce per un desiderio sessuale che i cattolici erano propensi a credere cosa da bestie più che da uomini e afferma: «Non bisogna affatto pensare che l’unione carnale sia di per sé qualcosa di scabroso e di brutto, anzi, quando avviene nel modo giusto si chiama conoscenza». Sottolineando che il modo creduto come “giusto” è quello che prevede la partecipazione paritaria degli amanti all’atto sessuale, tant’è che, scrive l’anonimo autore della Lettera: «Non è opportuno possedere una donna mentre questa dorme, perché così non sussisterebbe mutuo accordo, e il pensiero di lei non sarebbe concorde con quello di lui».

  • Il pregiudizio antiebraico nell’età della rivoluzione erotica.

Provando, con un audace salto nel tempo, a calare la ricca e complessa tradizione ebraica nella Vienna degli anni ’20 troviamo che, tra i disastri economici che la prima guerra mondiale lascia in eredità all’Austria, la modernità dell’ebraismo in materia sessuale si impasta con i pregiudizi antiebraici nel proporre alle masse la figura dell’ebreo come essere dissoluto e crapulone, sentina di vizi lussuriosi, individuo dedito alla corruzione dei giovani e allo stupro delle fanciulle attraverso il potere conferitogli dal denaro e dalla carta stampata, dispensatrice di oscenità e pornografia. Quando, nel 1923, il grande sessuologo tedesco Magnus Hirschfel, visitò Vienna per tenervi alcune conferenze, trovò l’opposizione di una corposa compagine nazista che tentò di assassinarlo a colpi di pistola. Gli animi erano resi feroci da una martellante campagna di disinformazione che aveva individuato in Hirschfel, ebreo e omosessuale, l’incarnazione di quella figura di “sabotatore sociosessuale” contro la quale i nazisti prima invocarono, poi realizzarono, la deportazione e lo sterminio.

Tra le “colpe” di Hirschfel, quella di chiedere a gran voce l’abrogazione dell’articolo 175 del codice penale prussiano (restato in vigore fino al 1968!) che recitava: «Un atto sessuale innaturale commesso tra persone di sesso maschile o da esseri umani con animali è punibile con la prigione. Può essere imposta la pena accessoria della perdita dei diritti civili».

Contro una simile discriminazione, Hirschfeld, insieme agli psicologi H. Ellis e A. Forel creò la “Lega Mondiale per la Riforma Sessuale”, testimonianza concreta del fatto che, lungi dal restare confinati nella camera da letto, le abitudini e le inclinazioni sessuali attraversano il corpo sociale evidenziando visioni del mondo scomode rispetto a un potere reazionario, pronto a punire con la deportazione e l’assassinio ogni lieve discostamento da un’idea, questa sì tutta malsana, di “normalità”.

Se Magnus Hirschfield fu costretto dagli eventi a riparare in Francia per sfuggire alla persecuzione, nella Vienna degli anni ’20, un grande giornalista e scrittore di origine ebraica, Hugo Bettauer, sosteneva esplicitamente la necessità di operare nel costume sociale e sessuale una vera e propria “rivoluzione erotica”: una battaglia contro l’ipocrisia e la misoginia, quella sostenuta da questo coraggioso pioniere della cultura erotica, una storia che infiammò Vienna, prima della nuova preistoria nazista, in un’appassionata e tragica lotta in favore della libertà.

  • La straordinaria vita di Hugo Bettauer

Hugo Bettauer
Hugo Bettauer

Hugo Bettauer era nato nel 1872 a Baden, una cittadina a sud di Vienna, da una famiglia ebraica di origine ucraina. Convertitosi al protestantesimo a diciotto anni, Bettauer, per sfuggire alla coscrizione obbligatoria, riparò prima a Zurigo, poi negli Stati Uniti. Come giornalista, fu corrispondente da Berlino per diversi giornali americani prima di essere espulso dalla Germania in virtù delle sue inchieste spregiudicate. Da liberale radicale, Bettauer era aperto al positivismo e fece presto propria l’idea secondo la quale, scopo principe dell’intellettuale, è quello di educare le masse. Non a caso, fatto ritorno nella natia Vienna, Bettauer svolse un’attività molto intensa nel campo della divulgazione dell’educazione sessuale. Sorprendendo la censura austriaca con impianti modernissimi, nel 1924, Bettauer inaugura il primo numero di ciò che può essere considerata la madre di tutte le riviste erotiche contemporanee, il settimanale intitolato «Er & Sie. Wochenschrift für Lebenskultur und Erotik» (Lui e lei. Settimanale di cultura di vita ed erotismo).

Er und Sie, la prima rivista di Bettauer
Er und Sie, la prima rivista di Bettauer

Dalle colonne di «Er & Sie», Bettauer forniva ai lettori intrattenimento e informazione erotica, inventava rubriche di annunci per “cuori solitari” e, contemporaneamente, avanzava ardite rivendicazioni sociali, come la battaglia a favore del diritto di voto alle prostitute, mostrando, più in generale, la volontà di sottrarre l’erotismo dal dominio della vita matrimoniale, riconoscendo alle donne un’autonomia in campo sessuale che certamente non era quella che il costituendo regime nazionalsocialista andava pensando per loro. Il primo numero della rivista, di 12 pagine, stampato in 20.000 copie andò letteralmente a ruba mentre il secondo numero, di 16 pagine, superò addirittura le 60.000 copie vendute: un risultato straordinario!

Andò a finire che, giunti al numero cinque, la polizia fece irruzione nella redazione della rivista, sequestrando il settimanale e impedendone la prosecuzione. L’accusa mossa a Bettauer era quella di induzione alla prostituzione e, naturalmente, quella di pornografia.

  • Bettauer colpisce ancora… ma i nazisti non stanno a guardare

Mentre i giornali cristiano-sociali alzavano i toni della polemica antiebraica augurando al “pornografo” la morte come giusta punizione del suo tentativo di sedurre la gioventù attraverso la pubblicazione di fogli peccaminosi, lo stesso Bettauer non se ne restava certo con le mani in mano. Beffando ancora una volta la censura, iniziò la stampa di un nuovo periodico chiamato orgogliosamente «Bettauers Wochensrift. Probleme des Lebens» (La rivista di Bettauer. Problemi di vita) che fece immediatamente propria la causa della legalizzazione dell’aborto. Mentre anche questa nuova iniziativa editoriale firmata Bettauer andava a gonfie vele, l’impegno sociale del grande giornalista viennese non si limitava certo alla carta stampata. Basti dire che, una volta alla settimana, il suo ufficio in Lange Gasse si apriva per il ricevimento di tutti coloro che, cercando assistenza, si rivolgevano a Bettauer non solo per questioni di carattere sessuale ma anche per i gravi problemi di disoccupazione e di carenza di alloggi che affliggevano Vienna.

L'assassinio di Bettauer in prima pagina
L’assassinio di Bettauer in prima pagina

Per questa ragione, il 10 marzo del 1925, non fu difficile per Otto Rothstock, un odontotecnico venticinquenne, recarsi nella redazione della rivista e chiedere di poter parlare con herr doktor. Entrato nell’ufficiò di Bettauer, Rosthock tirò fuori la pistola sparando cinque colpi contro il giornalista. Poi, chiusa dall’interno la porta dello studio, aspettò semplicemente l’arrivo della polizia. Bettauer sarebbe morto dopo dieci giorni di agonia ma Rosthock aveva dalla sua parte Walter Riehl, avvocato nazista che assunse gratuitamente la difesa dell’imputato, trasformando il processo in una campagna antisemita e riuscendo a ottenere, per l’omicida, il riconoscimento della semi-infermità mentale e una condanna a soli 18 mesi. D’altronde, quando venne chiesto a Rosthock: «Perché l’hai fatto?»

L’imputato rispose solo: «Desideravo salvare i giovani dalle insidie tese loro da gente come Hugo Bettauer».

  • Vienna, la città senza ebrei

Dopo i turchi e i protestanti, dunque, come insegna l’omicidio di Hugo Bettauer, furono gli ebrei a incarnare la necessità viennese di avere un nemico da combattere, un demonio da annientare. Così, quella che, ancora negli anni ’20, sembrava solo una perniciosa fantasia, con l’annessione dell’Austria alla Germania (1938) diventava una tremenda realtà: la tremenda realtà di una città senza ebrei. Gli scritti di Bettauer, allora, dovettero suonare come tristemente profetici: ma quanti viennesi ricordarono quello che il loro concittadino scriveva già nel 1922 quando, per satireggiare il montante antisemitismo, veniva dato alle stampe il romanzo Die Stadt ohne Juden (La città senza ebrei)?

Copertina de "La città senza ebrei"
Copertina de “La città senza ebrei”

Ispirato dalla lettura di alcuni graffiti razzisti letti in un bagno pubblico di Vienna, ne La città senza ebrei Bettauer costruisce l’utopia negativa di una Vienna dove un’ordinanza espelle, pena la morte, tutti i cittadini di “origine mosaica”. Partito dall’Austria anche l’ultimo ebreo, Vienna precipita rapidamente in un baratro di povertà e provincialismo: chiudono i teatri, falliscono le banche e le attività commerciali, la moda è ridotta al loden e agli scarponi chiodati mentre le belle fanciulle viennesi, ripensando ai loro galanti e audaci corteggiatori ebrei, illanguidiscono nel ricordo e si struggono di nostalgia. In breve, la cacciata degli ebrei, si trasforma nella rovina di Vienna fino al punto che imponenti sommosse popolari costringono il governo a tornare sui propri passi e a richiamare in patria tutti gli ebrei espulsi che, rientrando in città, verranno accolti con manifestazioni di giubilo e grandi feste. Se il sottotitolo originale del fortunato romanzo di Bettauer recitava «Un romanzo di dopodomani», nella traduzione americana, più realisticamente, compariva la dicitura «un romanzo dei nostri tempi».

Tempi duri quelli che avrebbero aspettato l’Austria e il mondo intero, gli stessi che avrebbero consumato la tragedia della shoah e ridotto Vienna a una città stupida e di secondaria importanza. Una città che, ammazzati i pensatori illustri come Bettauer, costrinse alla fuga o alla morte oltre 180.000 israeliti, rinunciando al grande valore della differenza e privandosi delle intelligenze di uomini come Stefan Zweig, Joseph Roth, Gustav Mahler, Arthur Schnitzler, Ludwig Wittgenstein, Elias Canetti, Karl Krauss e Sigmund Freud…

«Da questo autentico salasso di energie nei vari campi della medicina, della letteratura, delle arti figurative, della musica, dell’economia, del diritto», osserva Luigi Reitani, «Vienna non si è ancora ripresa». E intanto, oggi che un mondo nuovo reclama i diritti forgiati da una società che si configura come multietnica e pluriconfessionale, nei sinistri palazzi del potere viennese, sospinto dal nazionalismo del FPO, cieco di fronte al passato, torna a risuonare contro tutti i presunti “diversi” un grido scellerato: “Resistere!”

Su Belleville. E sugli “stranieri” come “risorsa”

Nei panorami di Parigi spuntano, come le cime bianche delle montagne, i profili metallici di palazzi altissimi. Palazzi grandi come città, costruiti in quartieri sempre più lontani dal centro: in luoghi dove la vita è così dura che solo gli ultimi arrivati trovano, quasi ricorrendo a uno sviluppato istinto di sopravvivenza, la forza per abitarci

Favole: come quelle che i marinai raccontavano sul paese dove anche le porcilaie erano pavimentate con l’oro zecchino. O come quelle su esseri giganteschi e con un occhio solo, avidi mangiatori di uomini. Nessuno, tra quelli che conosco, è mai stato tanto vicino ai profili metallici di questi grattacieli da poter vedere, con i suoi occhi, la vita delle persone che vi abitano: hic sunt leones… si dice che in questi palazzi giganteschi, i parigini li chiamano cité, non si avventuri nemmeno la polizia. Le automobili con le sirene blu sarebbero bersagli troppo facili, mezzi assolutamente inadatti per avere la meglio su di un fitto lancio di pietre e bottiglie. Se gli arabi la fanno troppo grossa che ci pensi la legione straniera, naturalmente in tenuta antisommossa.

Eppure gli stranieri sono una risorsa. Appiccicato sulle pareti delle cité dai pubblicitari di una grossa catena di hard discount, il campione del mondo Zinedine Zidane dice: “J’adore vous faire gagner“.

Anche David Copperfield era riuscito ad attraversare l’inferno a testa alta, era passato dalla strada alla buona società solo grazie alle proprie capacità e senza commettere reati. Ma nessuno gli aveva chiesto di fare gol al Brasile per questo.

Ci vuole la fame per farsi strada nella vita. Ma, anche senza fare strada nella vita, la fame resta lo stesso. Per questo ci sono gli hard discount. Anche chi non fa strada nella vita ha il diritto di rappresentare una fetta di mercato.

In un café di Belleville ascolto un avventore: “Candela, Ibou, Trezeguet, Zidane, Lizarazu… poi ci si lamenta che i vivai francesi sono in crisi.”

Zinedine Zidane sorride impacciato. Di hard discount come quelli a cui lui fa la pubblicità ne hanno aperto uno pure qui a Belleville. Sì che in questo quartiere puoi ancora trovare qualche vecchio che dice “oggi devo andare a Parigi” se per caso deve prendere la metropolitana e scendere dalle parti degli Champs Elysées.

Ecco come fanno gli stranieri a diventare una risorsa: le nuove e più estreme periferie delle cité riscattano la vecchia periferia francese. Donano dignità borghese a vecchi quartieri malfamati, le location ideali per film e libri dedicati ai profumi delle spezie. I nuovi casermoni, intanto, con la loro bruttezza estrema, trasformano i vecchi e malandati palazzi di edilizia popolare in piccoli gioielli. Case, da qualche anno, abitate da pittori, studenti, filosofi, scrittori e turisti a caccia di autenticità. Flaneurs… adesso vengono tutti quanti qui a Belleville. E si godono l’integrazione culturale.

Come on City!

La stazione di Manchester si chiama Piccadilly, la via principale Oxford Street: una strada che è lunga chilometri e chilometri. Cardo e Decumano: Manchester è i romani che l’hanno fatta così. Adesso il centro della città è un centro commerciale all’aperto, con le piastrelle per terra e gli ombrelloni delle caffetterie tipo “Bell’Italia”. Ci sono gli uffici, qualche college prestigioso e i negozi di tutte le catene del mondo, sembra che nessuno lavori per conto suo né che abiti qui.
A dormire si va altrove: lungo Oxford Street fino alle casette sui canali, dove tutto è lindo & pinto e l’architetto è un designer famoso. Le case hanno porte di vetro sottile: i bobby, fischietto e manganello, fanno il loro dovere. Mica dappertutto però. Qualcuno, a dormire, si ferma nei dintorni dello Stadio oppure vicino a Rasholme, il quartiere con trecento ristoranti pakistani. In uno cuociono il pane del kebab sulle pareti incandescenti di un forno di ghisa. In un altro, dentro, c’è una macelleria islamica che vende pure televisioni usate e videoregistratori.
Per strada, bambini bianchi, biondi e in calzoncini corti ti fermano e ti mostrano i soldi: ti chiedono per piacere se gli compri sigarette, birre oppure fuochi d’artificio intorno a carnevale. A loro, il negoziante, questa roba non la da, sarebbe vietato per legge. La stessa che fa si che la social security inglese si occupi di trovare casa a chi non ce l’ha. Magari a Moss Side, vicino alla chiesa cattolica e alla panchina del vecchio alcolizzato che beve sidro tutta la mattina.
Davanti qualche villetta arrugginita, con il giardinetto pieno di materazzi zozzi, dietro case a due piani ricoperte di mattonelle gialle: tra l’una e l’altra c’è lo spazio giusto per farci passare una persona e basta. Sulle pareti, tra le scritte fatte con la bomboletta spray, una dice: STUDENT BASTARD.
Qui a Moss Side odiano gli studenti: sono ricchi, non lavorano, hanno un futuro, hanno un accento snob, tifano Manchester United o Chelsea o qualche altra squadra di Londra mentre i locali, stoicamente, supportano il Manchester City, colori sociali celeste e bianco, capace pure di vincere un paio di scudetti negli ultimi anni ma, in quel momento, impegnata ad affrontare il periodo più buio della sua storia insieme allo spigoloso campionato di serie B.
Comunque ci vanno in trentamila il sabato pomeriggio al vecchio stadio di Main Road. Escono di casa parecchie ore prima della partita. Si fermano nei pub irlandesi e bevono, poi battono le mani e gridano in coro: «COME ON CITY! COME ON CITY!».

Dopo la partite tornano nei pub: bevono e giocano a biliardo. Chi prende da bere lo prende per tutti: un giro per uno e, tra una birra e l’altra, le presentazioni. «Questo è Cappa», diceva Steve per presentarmi agli amici, «a Roma Supporter… do you remember Falcao and Bruno Conti?».
Ci mettevamo a parlare di calcio italiano. Veniva fuori che il loro idolo era Pasquale Bruno ai tempi che giocava col Torino.
«Perché tra il Torino e il City», mi confida Steve, «c’è una certa somiglianza. Sai, sono due squadre con una grande storia alle spalle ma con un presente, ehm… altalenante…».
«Sì, come la testa di una puttana!», aggiungono, spiegando meglio in coro, i tifosi nel pub.

Pubblicato su Sportpopolare.it