Democrazia

Questa notte ho sognato la ghigliottina. Dietro di lei faceva la fila tutta la famiglia Windsor, dal signor Carlo fino al piccolo George, con la manina sotto il naso, nel tentativo di sventolare il più lontano possibile la puzza del popolo da cui era attorniato.
C’erano pure Camilla, William, Catherine e sua sorella Pippa. Anche Diana Spencer stava nel mucchio. A lei, in realtà, ci aveva già pensato un tunnel sotto la Senna, ma in fondo era un sogno e quindi nessuno trovava strana la sua presenza lì.
“Vedete,” spiegava alla piccola folla di altezze reali un signore che stringeva tra le mani la corda della grossa lama sospesa sulla cima della ghigliottina, “non esiste che qualcuno nasca con una corona in testa per scroccare sulle spalle di chi lavora per secoli e secoli. Dunque accomodatevi, iniziamo con lei signora Elisabetta?”.
Gli astanti, nell’attesa, coccarde tricolori sui baveri delle giacche e sui cappelli, commentavano pacati: “Era ora, è dal 1789 che si parla a vanvera di democrazia…”.

8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la battaglia di San Basilio

È il 5 settembre del 1974 quando per Roma e dintorni inizia a girare una notizia tanto allarmante quanto inaspettata: stanno sgomberando a San Basilio!
Chi, rispondendo all’appello, si precipita nel quartiere trova uno scenario da guerra civile. Come vere truppe d’occupazione, le forze dell’ordine hanno invaso la storica borgata romana ma, dopo aver allontanato una prima volta gli occupanti dalle proprie case, non possono impedire una nuova occupazione degli appartamenti la sera stessa.
Il Comitato di Lotta per la Casa, insieme a un fronte sempre più ampio di sodali, rinforza la difesa, ma il 6 la storia si ripete:

La polizia arriva la mattina in forze per effettuare lo sgombero in via Montecarotto, ma trova una resistenza organizzata all’innesto della via Tiburtina con via del Casale di San Basilio, dove nella notte era stata alzata una barricata. Iniziano gli scontri con lanci di lacrimogeni e ripetute cariche a cui i manifestanti rispondono con un fitto lancio di molotov e sassi. La polizia comunque riesce a transitare da via Nomentana, circonda le case e inizia un fitto lancio di lacrimogeni sparati anche sui balconi e si fa largo a colpi di manganello: una bambina di 12 anni rimane ferita. In alcuni appartamenti si verificano focolai di incendio (Massimo Sestili, “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974”, in “Historia Magistra” n.1, 2009).

Le case sgomberate, in ogni caso, vengono nuovamente occupate nella stessa giornata. E proprio grazie alla determinazione di chi resiste, il 7, sabato, si respira aria di tregua, con gli avvocati di Movimento che riescono anche a recarsi in Prefettura per cercare di far ritirare l’ordinanza di sgombero. Potrebbe sembrare tutto finito, eppure è proprio la domenica il giorno atteso dalla polizia per sferrare l’attacco più feroce. Alle otto riprendono le operazioni di sgombero, ma non trova persone disponibili ad abbandonare ciò che hanno conquistato senza lottare. Intorno alle 17, addirittura, una donna di 24 anni imbraccia un fucile da caccia e, dalla finestra di casa, spara contro i poliziotti, ferendo un vicequestore. Alle 18, l’assemblea popolare riunita per cercare di capire il da farsi viene attaccata con i lacrimogeni: la reazione della folla è compatta e la celere, lanciata alla carica, perde la testa insieme alle sue posizioni.
È la guerra: il popolo da una parte, le forze dell’ordine dall’altra. Il quartiere è isolato, i pali della luce divelti, qualunque cosa utile a essere lanciata viene utilizzata allo scopo e i mezzi di trasporto, parcheggiati per provvedere alla deportazione degli sgombrati, vengono dati alle fiamme.
Le armi da fuoco, è vero, non sono soltanto appannaggio della polizia. Ma su questo versante, ovviamente, gli occupanti non possono competere con chi indossa la divisa. Si supplisce con il cuore e con la solidarietà. Le barricate chiamano e Roma risponde. La polizia, però, continua a sparare. Proiettili come se piovesse in via Fiuminata dove, a essere colpito al petto da una pallottola calibro 7,65, è un ragazzo con il casco rosso.

Fabrizio CerusoQuel ragazzo ha appena diciannove anni. Vive a Tivoli, dove milita nel Comitato proletario, un organismo di Autonomia Operaia. Suo padre fa il netturbino, la mamma è casalinga. Lui, dopo gli studi alla scuola alberghiera, aveva lavorato in diversi bar e ristoranti prima di provare a trasferirsi in Francia. Tornato in Italia, ci sarebbe stata una buona notizia ad aspettare la sua famiglia. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivata l’assegnazione di una casa popolare a Villa Adriana. Quell’8 settembre, prima di correre a San Basilio per difendere le case occupate, aveva aiutato con il trasloco… alle 19 e 15 circa si ritrova su un taxi, impegnato in una corsa disperato verso il Policlinico. Quando il mezzo arriva a destinazione è troppo tardi. Il ragazzo con il casco rosso è morto: si chiamava Fabrizio Ceruso; «per loro non eri nessuno», dice A Fabrizio Ceruso, una delle canzoni anonimamente dedicate al ragazzo di Tivoli:

Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno / soltanto 19 anni e per loro non eri che uno / uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina / un operaio, un disoccupato un emigrante…

Nemmeno la data dell’omicidio di Fabrizio sembra frutto del «caso». L’8 settembre del 1943, con l’esercito italiano allo sbando, era stata la milizia popolare a tentare la resistenza contro i nazisti. A Tiburtino III, non lontano da San Basilio, la memoria del cadavere della popolana Caterina Martinelli, ammazzata dalle SS mentre con altre donne del quartiere assaltava un forno nel vano tentativo di conquistarsi il pane con cui sfamare la famiglia, riallaccia il legame con gli ideali di una Resistenza che, trasformata in lotta per la casa, significa davvero giustizia e libertà. E se Caterina Martinelli era diventata la martire della lotta contro la fame, dopo l’8 settembre del 1974 Fabrizio vive in ogni casa che viene occupata.

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Accettare, come effettivamente è avvenuto nelle aule dei tribunali, che la morte di Fabrizio Ceruso resti archiviata con un non luogo a procedere «essendo ignoti gli autori del reato» non significa solo trascurare le numerose testimonianze che individuano in un poliziotto che si inginocchia ed esplode quattro colpi l’autore del gesto. Significa, in una situazione di estrema gravità, provare a dimenticare la situazione repressiva vissuta dall’Italia nel corso del 1974: l’anno della strage di Brescia (28 maggio; 8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus (4 agosto; 12 morti e 45 feriti); ma anche l’anno in cui la rivolta scoppiata nel carcere di Alessandria (9 maggio; 5 morti tra detenuti e ostaggi) viene soffocata nel sangue dall’assalto deciso e diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il tentativo di sgombero di San Basilio, in un simile clima, è un altro capitolo della strategia della tensione e, inaugurando la futura «linea della fermezza» adottata nella repressione dei fenomeni d’insorgenza sociale, segna la scelta di attaccare deliberatamente un movimento in crescita come quello della lotta per la casa nel tentativo di stroncarlo, impedendo all’autorganizzazione di diffondersi, alle famiglie coinvolte di predisporre una resistenza efficace e alle occupazioni abitative di moltiplicarsi. Analizzato in questi termini, il tentativo fallisce. Al contrario, a San Basilio fu proprio nel momento in cui il quartiere apprese dell’assassinio di Ceruso che la lotta si trasformò in una battaglia autenticamente popolare, senza distinzione alcuna tra occupanti e assegnatari. E, come recita Rivolta di classe, un’altra canzone popolare dedicata alla battaglia di San Basilio, «la casa si prende, la casa si difende» continuerà a essere lo slogan di qualunque episodio di riappropriazione:

La casa compagni si prende / l’abbiam gridato tante volte / e dopo la si difende / da padroni e polizia…

Le case, dunque, saranno occupate ancora, i diritti rivendicati, le conquiste sociali difese: «Sarebbe sbagliato», si scrisse allora, «“mitizzare” lo scontro di S. Basilio in quanto ancora episodio (anche se tra i più belli e i più profondamente radicati nella coscienza di classe) e non già acquisizione permanente di quel comportamento da parte del movimento per la casa».
Un’affermazione, proveniente dall’area dell’Autonomia Operaia, con cui si sottolineava come, partendo dall’abitare, fosse inevitabile arrivare allo scontro con strutture di potere disposte a tutto pur di non cedere un centimetro del proprio interesse alla classe contrapposta. E in effetti, ad appena un giorno di distanza dalla morte di Ceruso e dopo che, inferocita per l’omicidio del ragazzo di Tivoli, tutta San Basilio si era scagliata contro la polizia ingaggiando una guerriglia lotto per lotto, la Regione Lazio si decideva a riconoscere il diritto alla casa popolare a chiunque, vantando i necessari requisiti, avesse occupato un alloggio prima dell’8 settembre del 1974.
Per molti palazzinari simili provvedimenti rappresentavano – e rappresentano – un danno concreto. Il rischio di una perdita economica nel nome della quale si potrebbe tranquillamente tornare ad ammazzare ancora.

(Tratto da “La Scintilla. Dalla Valle alla Metropoli, una storia della lotta per la casa”).

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BIBLIOGRAFIA:

Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma, 2006.
Massimo Carlotto, San Basilio, in In ordine pubblico, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005
Raimondo Catanzaro – Luigi Manconi, Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1985.
Gian-Giacomo Fusco, Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie: San Basilio come caso di studio, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013.
Ubaldo Gervasoni, San Basilio: nascita, lotte e declino di una borgata romana, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986.
Sandro Padula, San Basilio, 8 settembre 1974: Fabbrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa, in «Baruda.net», 8 settembre 2014.
Massimo Sestili, Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974, in «Historia Magistra», n.1, 2009.
Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Carocci, Roma, 2010.
A cura di «Progetto San Basilio – Storie de Roma» è in corso di preparazione un film documentario sui fatti del settembre 1974 intitolato La battaglia – San Basilio 1974

Non dimentichiamo, non perdoniamo. L’omicidio di Renato Biagetti

Quando, alla fine di agosto del 2006, i giornali romani aprirono le pagine di cronaca dando la notizia dell’arresto dei due “balordi” che, la notte tra il 26 e il 27, avevano ucciso a coltellate un ragazzo sul lungomare di Focene, il lettore distratto sarebbe passato oltre credendo di avere a che fare con la solita rissa tra ubriachi: un gruppo di giovani sovraeccitati dalla droga e dall’alcol che litigano nel parcheggio di una discoteca arrivando prima a riempirsi di botte e poi ad ammazzarsi tra di loro. Dei fatali esiti di una «rissa tra balordi», parlavano anche i commenti forniti a corredo della notizia: articoli scritti in punta di penna ma terribilmente preoccupati di specificare come la politica, con quel fattaccio, non avesse nulla a che fare: essendo la conflittualità sociale soltanto un brutto sogno vissuto negli anni Settanta e, oggi come oggi, completamente dimenticato.

Renato Biagetti

La precisazione di un fatto da considerare (a priori) “assolutamente estraneo alla politica”, evidentemente, si rendeva necessaria non appena, tra le righe dei quotidiani impegnati ad analizzare l’accaduto, emergeva la biografia della vittima: Renato Biagetti, ventisei anni, fresco di laurea in ingegneria, tecnico del suono e grande appassionato di musica reggae. La notte tra il 26 e 27 agosto del 2006, era stato proprio l’amore per i ritmi afrogiamaicani a spingere Renato a mettersi in macchina insieme a Laura, la fidanzata, e a Paolo, il suo migliore amico, per spostarsi da Grotta Perfetta, dove viveva ed era nato, per arrivare fino al «Buena Onda» di Focene: una dance hall sulla sabbia ricavata all’interno di uno stabilimento che, di notte, dà spazio ai seguaci delle good vibrations come, di giorno, ospita i romani dediti al surf.

Con il caldo torrido che affligge una Roma ancora semideserta, è naturale spingersi sul litorale per trovare un po’ di refrigerio: Renato, Laura e Paolo, al Buena Onda, restano finché, intorno alle cinque del mattino, la luce tremolante delle stelle annuncia la fine della tregua concessa dal sole prima di un nuovo giorno. È in questo momento, mentre Renato e Paolo si siedono su un muretto e Laura recupera la macchina dal parcheggio, che un’automobile si affianca ai ragazzi. A bordo, il volto di due completi sconosciuti. Persone anonime che, abbassando i finestrini, si mettono a gridare: «E finita la festa? Sì? Allora ritornatevene a Roma, merde!».

Più che di un insulto, si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra. Nell’abitacolo della vettura degli aggressori, insieme ai lampi sinistri degli occhi, scintillano le lame. È a colpi di coltelli, infatti, che una volta scesi dalla macchina gli aggressori si avventano sui ragazzi. Paolo viene colpito e anche Laura è presa a pugni. Renato Biagetti, in modo particolare, è raggiunto al corpo da otto fendenti micidiali. Chi lo ha ridotto in quello stato scappa tentando di dileguarsi mentre, a soccorrere Renato, restano Laura e Paolo, ancora insieme al fidanzato e all’amico quando, d’urgenza, il ragazzo viene ricoverato in ospedale. Qui Renato riesce ancora a fornire a un carabiniere, giunto al suo capezzale, la sua ricostruzione dei fatti ma, purtroppo, sono proprio queste le sue ultime parole. Le profonde lesioni che ha subito fuori dal Buena Onda risultano fatali e, intorno a mezzogiorno, provocano la morte di Renato.

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Mentre Renato veniva accoltellato sulla spiaggia, diversi testimoni vedono i ragazzi che infieriscono con i coltelli e, quando gli aggressori scappano con la macchina, annotano il numero di targa e il modello della vettura. Stranamente questi riferimenti non consentono affatto ai carabinieri di mettere immediatamente le mani sugli assassini così gli aggressori riescono a far perdere le loro tracce risultando irreperibili per almeno tre giorni.

In questo lasso di tempo, ad ascoltare le testimonianze di Paolo e Laura, più che i giornalisti ci sono i compagni del centro sociale Acrobax: uno spazio pubblico autogestito ricavato all’interno delle pertinenze dell’ex cinodromo di Ponte Marconi; in questo momento, forse l’unico punto di riferimento per chi, alla resa dei conti, capisce come la morte di Renato Biagetti non sia certo frutto di una rissa ma, al contrario, l’esito di una crudele aggressione. È proprio un comunicato emesso dall’Acrobax a quarantotto ore dalla morte di Renato, infatti, a cui si deve il primo tentativo di arginare la disinformazione che sta piovendo sul cadavere del ragazzo assassinato:

“Non si è trattato di una rissa tra balordi all’uscita di una delle discoteche del litorale ma di uno dei tanti episodi che si iscrive dentro un clima sociale, politico e culturale determinato dalle destre in Italia. Non sappiamo chi sono questi delinquenti ma queste pratiche ci ricordano da vicino le tante aggressioni agli spazi sociali e alle persone che li attraversano che si sono ripetute a Roma e altrove”.

Parole che trovano una triste conferma nel momento in cui chi ha colpito Renato viene finalmente arrestato. Si tratta di due ragazzi di diciannove e sedici anni: Vittorio Emiliani, nativo di Focene, e G.A., ancora minorenne, originario di Nola. E se non bastassero le modalità squadristiche con cui i due hanno consumato la loro aggressione; se non fosse sufficiente sottolineare il pregiudizio che grava sullo stabilimento dove Renato ha trovato la morte, considerato a Focene un «ritrovo di zecche»; se non servisse parlare dell’impegno profuso da Renato in tutte le iniziative in cui la musica veicolava messaggi antirazzisti, antifascisti e antisessisti; se tutto questo non consente ancora di accedere alla dimensione politica da cui è scaturito l’omicidio di Biagetti, allora non resta che sollevare la maglietta di Vittorio Emiliani per mostrare a tutti la croce celtica che il ragazzo esibisce sul braccio, tatuata.

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Emiliani ha ucciso, eppure avere un morto sulla coscienza non basta a fargli ammettere le colpe di cui si è macchiato: «C’è stata la lite, questo lo ricordiamo – ammette di fronte ai carabinieri – ci siamo anche picchiati, ma non ricordiamo della coltellata che ha ucciso il ragazzo».

Gli inquirenti non insistono e mettono a verbale le dichiarazioni di Emiliani. Effettivamente la sua memoria deve funzionare davvero male visto che la «coltellata che ha ucciso il ragazzo» di cui parla non è stata soltanto una ma addirittura otto. Un aggravante di assoluto rilievo che non tarda ad emergere quando sul cadavere di Renato viene disposta una regolare autopsia. Osservando le ferite sul corpo di Biagetti, il patologo descrive bene l’efferatezza con cui sono state usate le lame:

“Due coltellate ebbero a raggiungere il bersaglio tangenzialmente alla superficie cutanea; due penetrarono a livello del gomito e dell’avambraccio di sinistra e, pertanto, possono essere interpretati come colpi limitati dall’azione di difesa, perché altrimenti diretti al cuore; due vibrate in rapida successione penetrarono la regione sovra iliaca sinistra; due attinsero l’emitorace sinistro e penetrarono profondamente nel torace producendo lesioni viscerali”.

L’arma del delitto, su indicazione dello stesso Vittorio Emiliani, viene ritrovata seppellita nei giardinetti di Focene. Secondo Paolo e Laura, anche il ragazzo minorenne che era con Emiliani ha partecipato all’aggressione armato di coltello: d’altronde come avrebbe potuto, il solo Emiliano, vedersela con Paolo e Laura riuscendo, nello stesso tempo, a vibrare otto fendenti contro Renato?

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Il caso di Renato Biagetti è particolarmente tragico ma tutt’altro che isolato. Un dossiercompilato dopo la morte del giovane tecnico del suono, non a caso, raccoglie informazioni riguardanti ben 134 aggressioni a sfondo razzista, omofobo e fascista compiute a Roma e nel Lazio tra il 2004 e l’estate del 2006. Una lettura assolutamente sconsolante, anche se limitata a una piccola scelta di episodi avvenuti nei primi mesi dell’anno in cui è stato ucciso Renato:

8 gennaio (Indymedia). Compagno aggredito da tre naziskin alle quattro del pomeriggio vicino San Giovanni in Laterano. Davanti alla fermata della metropolitana viene notato e uno di loro gli tira una testata in pieno volto che gli rompe il setto nasale, poi lo prende a calci.
[…] 13 gennaio (Indymedia). Intorno alle 3 e 30, dopo aver partecipato a un’iniziativa, tre ragazzi e una ragazza usciti dal centro sociale La Torre vengono aggrediti da parte di una decina di fascisti armati di bastoni e a volto coperto. Le ferite riportate dai quattro ragazzi hanno richiesto cure ospedaliere.
21 gennaio (Lazio.net). Dopo palesi intimidazioni, in un’imboscata viene aggredito e picchiato sotto casa da quattro fascisti con i caschi sul volto un redattore di Lazio.net, voce antirazzista e antifascista del tifo laziale.
22 gennaio (Indymedia). Due skin antirazzisti vengono accoltellati (alla gamba e al gluteo) alle 3 e 30 all’uscita del c.s. Ricomincio dal Faro dopo un concerto. I due o tre accoltellatori fanno parte di una banda di venti fascisti che scappano all’arrivo dei compagni attirati dalle urla.
28 gennaio (Indymedia). A Casal Bertone, nella notte, un gruppo di sette-otto fascisti armati di mazze aggredisce due giovani compagni del circolo prc. I due compagni, seriamente feriti, vengono soccorsi da alcuni cittadini. […]
14 marzo («la Repubblica»). Alle 19 e 30, alla sezione Aurelio dei Democratici di sinistra, viene trovata sullo zerbino una busta contenente cinque proiettili inesplosi e un foglio con il seguente testo: «Non fermerete le nostre idee. Adesso dovete tremare. Voi la stella a cinque punte, noi cinque proiettili. 10, 100, 1000 livornesi bruciati. Roma non è Milano. Fini boia, Rutelli infame, Veltroni boia».
[…] 7 aprile («l’Unità»). Fascisti, con la vernice nera e con una “z” sola, imbrattano la bacheca della sezione ds dell’Alberone: «Vi ammaziamo – firmato – Forza nuova». Poi attaccano i manifesti «Vota Alessandra Mussolini»”.

Dal momento che non riguardano persone morte, simili notizie fanno fatica ad essere divulgate e, se finiscono sui giornali, molto difficilmente superano la dimensione del classico trafiletto. Diluite negli spazi in genere riservati a reati come furti e rapine, le informazioni sulla violenza politica diventano difficilmente distinguibili da quelle sulla criminalità comune, generando lo stesso tipo di attitudine che, all’ennesima potenza, esplode nel corso del processo agli assassini di Renato: l’attitudine a negare, insieme alle idee, anche la dignità della vittima. Perché morire nel corso di una rissa tra balordi non è assolutamente uguale a essere uccisi in virtù di un’aggressione subita a causa della propria differenza morale ed esistenziale.

Eppure, da questo punto di vista, neppure il processo ha reso giustizia alla dinamica dei fatti di Focene. Vittorio Emiliani è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a scontare quindici anni di reclusione. Una pena simile a quella inflitta al suo complice minorenne, condannato a quattordici anni e otto mesi. Nella motivazioni della sentenza, però, riaffiora lo spettro della «rissa tra balordi» senza alcuna allusione alla matrice politica dell’agguato: degno corollario di un dibattimento in cui gli osservatori non hanno potuto fare a meno di sottolineare alcune circostanze a dir poco strane. La deposizione che, poco prima di morire, Renato rende al carabiniere arrivato a sentirlo all’ospedale Grassi, per esempio, non venne verbalizzata dal militare: come mai?

Si tratta ancora di una dimenticanza o questa singolare perdita di memoria può essere ricollegata alle decisioni con cui i giudici impediscono sia all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sia al comune di Roma di costituirsi parte civile nel corso del processo?

Renato Biagetti, come affermano gli avvocati della famiglia: «È stato colpito barbaramente con otto coltellate in un’aggressione caratterizzata da inaudita ferocia, conseguenza di un violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita di Renato e dei suoi amici».

Ed è proprio in questo «violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita» che si iscrivono i modi della violenza politica contemporanea. Nascondere la testa sotto la sabbia e negare l’insorgenza di una simile questione, da questo punto di vista, impedisce la nascita di un dibattito collettivo in grado di arginare un problema tutt’altro che superato. Succede così, nel secondo anniversario della morte di Renato, che il concerto indetto al Parco Schuster per commemorare il ragazzo, venga «festeggiato» da una nuova aggressione condotta a colpi di coltello. Ancora una volta, alle quattro del mattino, un piccolo gruppo di ragazzi che avevano aderito all’iniziativa viene circondato da dieci estremisti di destra mentre torna alla propria automobile. L’agguato, per fortuna, non provoca nuovi morti ma lascia sull’asfalto un ragazzo di ventisette anni con profonde lacerazioni alle coscia e altri due giovani con ferite causate da armi da taglio e da catene. Questa volta nessuno ha il coraggio di dire che «la politica non c’entra» eppure, confinata in qualche trafiletto, la notizia finisce soffocata nel marasma della cronaca, una ferita aperta nel cuore di una città tutt’altro che pacificata.

 

Via chissenefrega numero qualchecosa

Sono gli ultimi giorni d’agosto e se non sono le vacanze (c’è la crisi, chi è che va più in vacanza?) è il caldo che ci pensa. In ogni caso per Roma è una tregua. O almeno sembra…
Cammino per i marciapiedi vuoti cercando un punto di riferimento diverso dalle cicche spiaccicate, uniche testimoni di qualcosa che pure deve esserci stato, qualcosa che abbiamo sempre chiamato “vita”.
Faccio il giro dell’isolato – i bar sono chiusi, i parcheggi vuoti – e lo penso sul serio: “E se fossero tutti morti?”.
Il tempo di svoltare l’angolo. Poi, con le gambe larghe, la bocca spalancata e un paio di occhiali con le lenti scure, un vecchio se ne sta immobile in mezzo alla strada. Forse vuole attraversare e il silenzio assoluto che si respira nel quartiere gli ha portato via qualunque punto di riferimento, rendendolo incapace di agire e di pensare. Sui pantaloni marroni, una chiazza scura gli si arrampica sulle gambe per andare a formare un lago all’altezza dell’inguine. Non saprei come aiutarlo e vado avanti: “No, non sono tutti morti. Non ancora…”.
In realtà, proprio come il vecchio, neppure io so bene cosa fare: l’edicola – dice un cartello giallo – riaprirà il primo di settembre; inutile pensare di arrivare al parco per leggere il giornale: “Nel mare di Sicilia”, ci avrei trovato scritto, “quattromila persone stipate su tre barconi alla deriva sono state tratte in salvo dalla guardia costiera. Mentre i profughi saranno ospitati in strutture di prima accoglienza, si procede con la schedatura…”.
Immagino l’inchiostro sui polpastrelli di uomini, donne, bambini. Gli stessi che alla frontiera con la Macedonia, intanto, vengono manganellati a sangue, inseguiti per i campi, respinti a forza di gas lacrimogeni…
Con le mani in tasca, assorto in simili pensieri, torno alla realtà per colpa di un cicalino: un suono inconfondibile che mi allerta e mi scuote, nemmeno fossi una cazzo di gazzella che nella savana sente la puzza del leone sottovento.
Il cicalino suona ancora, mi volto e la vedo. La volante della polizia che procede a passo d’uomo, i finestrini aperti e la radio sintonizzata sulle frequenze riservate. Dentro, come è d’uso, ci sono due agenti, impegnati a scrutare i muri in cerca evidentemente di qualche indizio. Ma certo. La targa con il nome della via: impressa nero su marmo ed esposta in bella vista. Via chissenefrega numero qualchecosa. Gli uomini in divisa la vedono, quindi accostano, parcheggiano e scendono. Evidentemente sono arrivati dove volevano essere: in via chissenefrega, appunto. Dove ci sarà chi hanno ricevuto l’ordine di controllare mentre, con le mani distese lungo i fianchi, molto vicino al posto in cui portano appesa la pistola, ancheggiano nel caldo che, rimbombando sull’asfalto, alle guardie non deve fargli per niente bene dentro la testa.
Le caserme, gli ospedali, i tribunali e tutti quelli che ci girano intorno, si sa, non hanno mai promesso niente di buono… ma sperando sempre di averci a che fare il meno possibile nella vita, per quale motivo simili individui hanno pure il mio indirizzo?
Via chissenefrega numero qualchecosa… ma io già lo so dove abito, perché allora dovrebbe essere così facile rintracciarmi?
Nervoso, aumento l’andatura. Incerto se tornare a casa o continuare a camminare finché la strada non sia costretta a lasciare un po’ di spazio ai campi. Come accade sul confine tra Grecia e Macedonia, dove il potere di lasciare vivere o fare morire è affidato a uomini in divisa uguali a quelli che ho appena incontrato. Certamente rispetto alla città in cui vivo da quelle parti le cose sono molto più pericolose e quindi giù botte. La polizia è sempre più nervosa se ha a che fare con gente che non è stata ancora costretta a subire la pratica della schedatura di massa. Per tutti gli altri c’è sempre un indirizzo e magari persino un nome sulla cassetta delle lettere, quindi perché preoccuparsi? Non abitate anche voi in via chissenefrega numero qualchecosa?
Quando lo vorranno sapranno benissimo dove venirvi a cercare.

Buttati giù, Zingaro: la storia di Johann Trollmann, Tull Harder e della mancata epurazione dei nazisti in Germania

Buttati giù, zingaroS’intitola Buttati giù, zingaro, eppure il libro di Roger Repplinger (Edizioni Upre Roma, 292pp, 12 euro) è molto di più di una biografia dedicata a uno dei più forti mediomassimi della storia del pugilato tedesco. La ricerca di Repplinger, infatti: riesce a mettere in parallelo quella che è stata la nascita e la diffusione sia della boxe che del calcio in Germania; analizza il modo in cui, partendo dal basso il pugilato e allargando il novero dei suoi praticanti da ciò che fu un’originaria élite borghese il calcio, questi sport divennero un fenomeno di massa, rappresentando il terreno ideale per la propaganda nazionalista e, presto, nazista; offre un contributo importante alla storia del “porrajmos”, l’olocausto sinto e rom, e costruisce un discorso in cui l’abominio hitleriano conosce un nuovo – e quanto mai necessario – atto di accusa a partire dalle vite sia del pugile sinto Johann Trollman che del calciatore “ariano” Tull Harder: esistenze a proposito delle quali il punto di contatto offerto dalla pratica sportiva non può che rafforzare quella differenza insanabile che separa le vittime dai loro carnefici.

Cercando di procedere con ordine, le prime pagine di Buttati giù, zingaro hanno a che fare proprio con un campo di calcio. O meglio, con un piazzale sul quale, in quel di Braunschweig, in Bassa Sassonia, un pugno di adolescenti di buona famiglia si dannano a rincorrere un pallone di cuoio, l’ingrediente principale dell’Association, come ancora ai primi del Novecento veniva chiamato in Germania il gioco del calcio. Il debito linguistico, evidentemente, è nei confronti dell’Inghilterra e della sua «Football Association», patria di un pallone che, in terra tedesca, trova proprio a Braunschweig uno dei territori più fertili, considerando che qui una prima squadra cittadina gioca partite di pallone già nel 1874.

Mentre la Federcalcio tedesca (DFB) vedrà la luce nel gennaio del 1900, è proprio l’origine inglese dello sport a rappresentare uno dei maggiori ostacoli alla sua diffusione. In tempi di montante nazionalismo, infatti, tutto ciò che proviene da Oltremanica viene guardato in modo a dir poco con sospetto. E il calcio, in modo particolare, con la sua connessa violenza di calci e colpi di testa da esibire di fronte a un pubblico incline a rumoreggiare selvaggiamente, viene visto come l’antitesi della ginnastica, cioè l’unica pratica sportiva, rigorosamente non competitiva, atta a esaltare gli ideali di sobria compostezza reputati connaturati ai valori del patriota tedesco.

Insieme al discorso ideologico, il calcio è ostacolato da problemi di ordine materiale. Per comprarsi maglia, calzoni, calze e scarpini, un operaio specializzato ha bisogno di investire una settimana di stipendio e non avrebbe ancora comprato il prezioso pallone di cuoio con la camera d’aria interna, da ungere di grasso a lungo se si vuole sperare di ottenere qualche rimbalzo.

Il giovane Tull Harder, da questo punto di vista, potrebbe permettersi ben più di un pallone. Eppure il benestante signor Fritz, suo padre, punisce severamente le partite clandestine giocate dal figlio attaccante, dispensando con generosità frustate su frustate e vedendo nella pratica dell’Association una sorta di tradimento al buon nome del Kaiser e a quello della Germania.

Sempre in Bassa Sassonia, un altro ragazzino inizia ad alternare le scorribande per le strade dei quartieri popolari alla fascinazione sportiva. Si chiama Johann Trollmann, ma genitori e fratelli usano per lui il nome «Rukeli» che, in romanes, potrebbe essere tradotto come «alberello». Merito della folta chioma nera e, soprattutto, di una struttura fisica forte e slanciata, una qualità che il giovane Trollmann non mancherà di mettere a frutto iniziando a frequentare una delle prime palestre di pugilato. Uno sport che, a differenza del calcio, non richiede agli atleti investimenti iniziali, essendo che i pugni ognuno se li porta da casa, anche se, come il football, sconta di fronte all’opinione pubblica conservatrice la stessa «colpa» di non poter essere considerato di origine tedesca. Anzi, quantomeno a causa di una pratica che richiede di mettere allo scoperto il corpo molto di più di quanto già non facciano le braghe dei giocatori di pallone, la boxe finisce nello stesso calderone razzista in cui i buoni borghesi di puro ceppo germanico infilano i marinai statunitensi e la loro musica jazz, come la boxe considerata foriera d’istinti bestiali e passionalità di bassa lega.

Presto, in ogni caso, le cose sarebbero cambiate tanto per il calcio quanto per la boxe. Il gioco del pallone, a caccia di popolarità, si mette a disposizione dell’incipiente militarizzazione e, in breve tempo, si «germanizza». Mentre s’inizia a parlare di fussball, e non più di football, le origini del gioco vengono rintracciate in certe vetuste pratiche degli antichi abitanti delle terre teutoniche e le reminiscenze inglesi spariscono. Quando, nel 1911, la DFB diventa una branca dell’ultranazionalista Lega della Gioventù Tedesca, per dire goal si usa il termine rete, il corner è diventato angolo e, il giudice di gara, si chiama arbitro, non più referee. Persino i ruoli dei giocatori non sono più gli stessi. Ora c’è il difensore, non il centre back, l’attaccante, non il centre forward, l’ala e non il wing forward: non semplici traduzioni, ma la resa linguistica di uno sport che trova nella similitudine con la guerra la sua ragion d’essere in Germania. E non certo a caso, nell’annuario della Federcalcio tedesca del 1913 si arriva a leggere: «Il tempo avanza con fragore di armi, con pugno d’acciaio distrugge tutto ciò che è diventato marcio e vecchio e concima con sangue e ossa la nostra terra per una nuova semina. Fanfare di guerra salutano il progresso che spinge in avanti la ruota del mondo. E tuttavia anche nel nostro Paese gli stupidi gridano: guerra alla guerra. Sarebbe pericoloso se il loro messaggio avesse successo tra il popolo. Rinunciamo al duro giudizio delle armi e di conseguenza saremo distrutti. Rallegriamoci se nella terra tedesca cresce nuovamente la voglia della lotta e diamo il benvenuto al più grande profeta di questa nuova epoca, lo sport».

Per il calcio, insomma, il dado della militarizzazione è tratto in fretta. E in fondo, già del 1909, ci aveva pensato Heinrich di Prussia, ammiraglio nonché fratello di Guglielmo II, a istituire il Deutschlandschild, campionato di calcio riservato alla marina imperiale. Con simili credenziali, per Tull Harder diventa molto più semplice inseguire la propria passione sportiva e, vinta l’opposizione paterna, il rampollo sassone può indossare la casacca dell’FC Hohenzollern e, già nel 1909, quella dell’Eintracht, prima di passare all’Amburgo, compagine di cui il centravanti sarà presto il giocatore più rappresentativo e la bandiera.

Nel 1914 Harder vede riconosciuto il proprio talento debuttando in nazionale e, grazie alle sue doti di decatleta, in un momento in cui lo specialismo non è la prima caratteristica della pratica sportiva, avrebbe persino potuto partecipare alle Olimpiadi se lo scoppio della prima guerra mondiale non avesse fatto saltare i giochi del 1916. Harder, allora, parte volontario per il fronte, rispondendo oltre che agli ideali con cui è stato educato anche alla chiamata proveniente dalla sua Federazione: «Addosso al nemico!», scrivono i funzionari del calcio tedesco rendendo esplicita l’equazione sport-nazionalismo-guerra. «In questa lotta infuocata dimostrate di essere veri sportivi, animati da coraggio, ardimento e ardente amore per la Patria. Attraverso lo sport siete stati allevati per la guerra, perciò addosso al nemico senza tremare».

Da parte sua, nato solo nel 1907, il pugile Johann Trollmann non avrebbe potuto cogliere il senso di simili parole. E se anche il piccolo Rukeli ha appena otto anni quando gli capita di affacciarsi in una palestra (semi-clandestina) di pugilato, in quel momento la boxe non potrebbe certo essere sventolata come un vessillo patriottico considerando che la sua pratica, fino al 1919, è addirittura vietata dalla polizia. Con la caduta del divieto, la prima palestra di Trollmann può trasformarsi in una vera squadra: la BC Heros Hannover. Era il 1922, due anni dopo la fondazione della “Federazione del Reich tedesco per la boxe amatoriale” ma con appena un anno di anticipo rispetto al tentato, e famigerato, putsch di Hitler, datato 9 novembre 1923. Il particolare è determinante non solo in senso generale, considerato che nel breve periodo di detenzione scontato dopo il fallimento del colpo di stato, l’ex caporale austriaco scriverà “Mein Kampf” esprimendo la sua incondizionata approvazione nei confronti del pugilato: «Se tutta la nostra spirituale alta società non fosse stata educata esclusivamente a raffinate regole di buone maniere, e avesse invece imparato a fare a pugni», sostiene Hitler, «non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di protettori, disertori e furfanti del genere».

Il vento che spirava sulla boxe, insomma, stava cambiando. Ma mentre Trollmann metteva a punto un approccio personale a questo sport, rivoluzionando uno stile pugilistico fino a quel momento rigido e legnoso con tecniche che in futuro si sarebbero potute ammirare nuovamente nel repertorio di un Muhammad Alì, il pugile capace di «danzare come una farfalla e colpire come un ape», il nazionalismo si impossessava anche nel ring, arrivando a parlare di un “pugilato tedesco” che, naturalmente, non è certo ben disposto ad accettare i trionfi di Rukeli, non più un grande campione, ma soltanto uno «zingaro» agli occhi dei nuovi fanatici della purezza della razza.

«Se una disciplina sportiva deve servire all’addestramento militare, all’educazione paramilitare, non può in nessun modo essere “giocosa”, “piacevole”, o soltanto “divertente”», si tuona nel volume La boxe fondamento dello spirito di lotta (1935). Perché: «Lo Stato popolare non ha il compito di allevare una colonia di esteti pacifici e di degenerati fisici. Non ritrova il suo ideale di umanità in piccoli borghesi per bene o in vecchie vergini virtuose, ma nella pugnace incarnazione della forza virile».

Grazie a questa nuova impostazione, il pugilato, da disciplina negletta, diventerà obbligatorio nella scuola di Hitler, mentre a Trollmann servirà a poco vincere incontri su incontri, né, a salvarlo, potrà essere la sua scelta di entrare – alla ricerca di una maggiore tutela – nel Boxclub Sparta Linden, affiliato alla “Lega degli atleti lavoratori tedesca” (AABD), la federazione dello sport popolare che, in quegli anni, rifiutava qualunque contatto con la controparte borghese anche se, proprio come la Federazione imperiale, si opponeva al professionismo.

Trollmann, in realtà, diventa professionista nel 1929, radunando un folto pubblico di ammiratori, incantati, in un periodo in cui gli incontri di boxe tendevano a ridursi a un testa contro testa condito da un diluvio di pugni ai fianchi, dal suo modo di combattere imprevedibile, pirotecnico e, al tempo stesso, terribilmente efficace. Sarebbe stato proprio grazie a questo stile che, il 9 giugno del 1933, Trollmann, insieme ai suoi 71,3 chili di peso, riesce a surclassare il beniamino dei sostenitori del “pugilato tedesco”, Adolf Witt, ammesso a combattere per il titolo dei pesi medi malgrado un peso di 77,9, di molto superiore ai 72,574 fissati come limite della categoria. Trollmann è incontenibile, ma il razzismo non conosce neppure il limite della decenza, malgrado tutti i cartellini dei giudici assegnassero la vittoria al suo avversario è Witt a essere proclamato vincitore. Accade nella Bockbierbrauerei di Berlino, dove si sfiora il tumulto: i sostenitori di Trollmann minacciano di linciare i responsabili dello scandalo, così l’incontro, a posteriori, sarebbe stato annullato. A nessun costo, insomma, uno «gipsy», questo recitava la scritta che provocatoriamente lo stesso Trollmann recava stampata sui suoi pantaloncini, doveva poter vantare la vittoria del titolo di campione tedesco. Per Trollmann, già capace di sfidare i suoi detrattori nazisti comparendo completamente ricoperto di farina bianca nel corso di un incontro, è l’inizio della fine. Per sopravvivere deve accettare combattimenti improvvisati in luoghi sordidi, poi è la sua stessa vita a essere ogni giorno più a rischio. Il dramma incombe su Trollman come sui 130.000 sinti e sui 1585 rom che vivono in Germania durante l’ascesa di Hitler, giudicati egualmente «Zigeuner» dall’apposito “Istituto di ricerca sull’igiene razziale e sull’eredità biologica”. Ognuno di loro, è a malapena un numero. E il numero 9841 sarà quello che lo stesso Trollman riceverà nel 1942, quando viene arrestato e deportato nel lager di Neuengamme. È qui che succede un episodio che ha dello straordinario. Mentre le SS, infatti, riconoscono nell’internato il campione di pugilato, iniziandolo a usare come un fantoccio per i loro «allenamenti», all’interno del lager si muove un comitato clandestino: «Trollman», pensa André Mandryxcs, capo della resistenza interna, «deve essere strappato al divertimento dei nazisti». Il suo esempio è troppo importante per chi, anche nelle condizioni disumane del campo, si organizza per rispondere alla barbarie hitleriana. Grazie al coraggio degli uomini della resistenza, dunque, Trollmann è fatto passare per morto, scambiato con un altro prigioniero effettivamente deceduto e quindi trasferito in un altro campo, quello di Wittenberge. Ad aspettarlo, ancora una volta, ci sarà la maledizione di sapere usare i pugni. Perché sarà la colpa di mettere KO un feroce kapò ciò che, nel corso del 1944, costerà la vita al grande campione. Responsabile del suo omicidio, avvenuto a randellate, un individuo di nome Emil Cornelius: criminale di guerra responsabile di molte atrocità all’interno del campo, se la caverà con qualche anno di galera, tornando in libertà nel 1961. Una sorte non troppo diversa da quella a cui, nel dopoguerra, andarono incontro gli innumerevoli nazisti con le mani sporche del sangue versato da milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici.

Tra i criminali graziati a vario titolo dal tribunale di Norimberga e, quindi, dalla mancata denazificazione della Germania, anche il centravanti Tull Harder: perché è proprio nel campo di Neuengamme che le sorti opposte del pugile e del calciatore s’incrociano nell’indifferenza del massacro in corso. Mentre Trollmann, infatti, è solo un prigioniero tra i tanti, Harder, di professione assicuratore dopo una lunghissima carriera e la consolidata nomea di «gloria del calcio tedesco», fa parte di quella generazione convinta di dover addossare a un “nemico interno” la responsabilità della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Ed è, in effetti, un simile sentimento a spingere Harder ad arruolarsi nelle SS e, quindi, con il grado di Untersturmführer, a diventare comandante del lager in cui Trollmann si trova recluso.

Come tutti i nazisti, interrogato sulle sue responsabilità dai giudici di Norimberga, Harder si limiterà a balbettare di avere soltanto «obbedito agli ordini»… avessero avuto, simili individui, un briciolo della dignità e del coraggio dimostrato da un André Mandryxcs! Ma anche solo pensare di paragonare il sangue degli eroi alla squallida subumanità degli aguzzini è un insulto. Mandryxcs avrebbe trovato la morte nel corso di un bombardamento alleato quando la guerra era prossima a concludersi, Harder sarebbe stato invece arrestato nel 1945. Nel corso del processo tenterà di far valere il suo curriculum sportivo, le sue quindici presenze in nazionale e anche l’aiuto prestato durante la guerra a un ex arbitro ebreo. Condannato a quindici anni, sarà liberato già nel 1951, e, come scrive l’autore di “Buttati giù, zingaro”, Harder: «In occasione della sua presenza alle partite dell’HSV viene festeggiato dallo speaker e festeggiato dagli spettatori. (…) Riprende il suo lavoro con le assicurazioni e vive a Bendestorf. Il suo reddito è buono, riceve anche una pensione dallo Stato come ex Untersturmführer delle SS, a differenza dei sinti e dei rom che sono stati internati nei campi di concentramento. I tribunali tedeschi hanno stabilito che gli “zingari” non sono stati perseguitati dai nazionalsocialisti per ragioni razziali ma venivano deportati come criminali».

Un’amarezza sconfinata. Mitigata appena da un atto dovuto. Nel dicembre del 2003, infatti, i discendenti di Trollmann ricevono dalla Federazione una cintura da campione, mentre Rukeli si vede ufficialmente assegnare il titolo dei mediomassimi che gli era stato sottratto nel 1933. Ma se il combattimento di Trollmann, alla resa dei conti, può essere considerato un match lungo settant’anni, quello che oppone la verità e la giustizia alla volontà di cancellare con un colpo di spugna la storia nera del nazismo e del fascismo è ancora in corso. E troppi, ancora oggi, restano i debiti che non sono mai stati saldati.

Carlo Giuliani e la morte di MP

Io lì non ci dovevo andare. Me lo avevano detto i miei colleghi sotto la doccia. Arrotolavano gli asciugamani e mi colpivano sulla schiena. E quando mi voltavo per vedere chi era stato giravano il dito indice, ridevano e facevano finta di niente: «Tu lì non ci puoi venire,» ripetevano, «perché sei stupido».
Erano tutti contenti di partire. Perché là pure a noi carabinieri di leva ci avrebbero pagato la giornata. E la mensa. E il posto dove dormire.
Qualcuno dei miei colleghi diceva pure che non c’era mai stato a Genova e già che c’era si sarebbe scopato qualche puttana. Magari una dei noglobal.
Io lì non ci dovevo andare. A fare il carabiniere. È che mio padre aveva un cugino che conosceva il maresciallo e allora mi hanno fatto passare. Anche se dicevano che non ci stavo tanto con la testa.
Poi un collega si è ammalato. E il comandante della caserma era convinto che dovevamo essere in tanti e allora mi ha mandato a dire che sarei salito anche io. Però dovevo stare attento perché mi volevano tirare i palloncini con il sangue infetto. E mettere le bombe nella macchina. Perché poi si volevano prendere tutto e a noi mandarci a casa.
Io comunque a casa non ci sto mica male. Conosco quelli del bar del mio paese. E loro non dicono che sono stupido.
Forse qualcuno lo dice. Ma solo perché mi sono fidanzato a una che era sposata e che aveva una bambina e quelli del bar pensano che le donne uno se le deve prendere nuove, come la macchine. No che prima le ha usate qualcun altro.
Ma a me lei piaceva. E anche la bambina.
Comunque sono partito. Con il pullman e tutti i colleghi.
Eravamo allegri.
Cantavamo.
Quelle canzoni non le conoscevo. Una diceva «faccetta nera», mi ricordo. Un’altra diceva «bella bionda apri le cosce». Un’altra ancora non la so ridire perché le parole erano in tedesco. Mi pare.
Quando siamo arrivati ci hanno fatto scendere e ci hanno detto di andarci a mettere la divisa.
Io mi sono trovato un posto vicino al muro nello spogliatoio. Così non potevano iniziare a darmi le botte con gli asciugamani. Ed ero contento perché avevamo pure un armadietto con la chiave. Che una volta avevo lasciato la roba nello spogliatoio e poi l’ho trovata tutta sporcata con la schiuma da barba.
Quando ci siamo vestiti ci hanno portato in una piazza. Non eravamo solo noi carabinieri, c’erano tutti. Quelli della guardia di finanza, quelli della polizia penitenziaria, pure quelli della forestale, c’erano. C’erano tutti.
E uno senza divisa, ma con la giacca e la cravatta, ci ha parlato. Ci ha detto che l’onore dell’Italia dipendeva da noi, che altrimenti le nostre donne avrebbero cominciato a fare l’amore con le cameriere e poi nelle chiese ci sarebbe finita la droga dove si mette l’acquasanta.
Alla fine tutti abbiamo urlato «sissignore». E siamo andati a prendere gli ordini al comando.
«Tanto tu sei stupido», mi ha detto un collega. E ce l’aveva con me soltanto perché il mio ordine diceva che dovevo stare di supporto, no fare le cariche proprio io. Invece il collega sbatteva il manganello nell’aria ed era tutto contento: «Perché a quelle zecche io glielo do sulla faccia così».
Intendeva dalla parte del manico. Perché fa più male il manganello dalla parte del manico. Ed è per questo che tutti lo usano in quel modo.
Come con il lanciagranate per i lacrimogeni. A me ne hanno dato uno e nella zona della Fiera mi hanno detto: «Spara!».
Io ho iniziato a sparare, e mi sono respirato un sacco di gas. Per questo io, durante il servizio, quasi nemmeno li ho visti quelli che stavano lì a Genova. Qualcuno sì. Mi sembravano ragazzini. Erano maschi e femmine in realtà. E una di loro, una femmina con lo zainetto, assomigliava alla figlia della mia fidanzata. L’ho riconosciuta subito, perché a lei voglio bene. Pure di più che se fosse figlia mia, anche se è diverso.
Non lo so se quella ragazzina si è fatta male oppure no. Mi dispiace se lei si è fatta male. Ma di sicuro mi sono fatto male io. Mentre sparavo i lacrimogeni non ci stavo proprio pensando che mi volevano tirare i palloncini con il sangue sieropositivo, e nemmeno che la mia fidanzata poteva fare l’amore con la cameriera perché da noi li lava lei i piatti e i panni, non c’è nessuna cameriera. Io sparavo solo i lacrimogeni, finché un ufficiale non è venuto da me e mi ha ordinato: «Levati di mezzo, che tu non sei capace».
Me lo ha preso lui il lanciagranate. E quando sparava, sparava dritto, così poteva colpire la gente in faccia.
«Qua siamo in guerra, cosa ti credi», mi spiegava.
E il mio compito era prendere i lacrimogeni e passarli a lui. Ma da quelli un po’ di gas usciva, e io me lo respiravo. È stato così che mi sono sentito male. Allora l’ufficiale ha perso la pazienza: «Sei un coglione», ha urlato. E mi hanno fatto salire sul gippone riservato agli ammalati.
Capirai. Io ero solo che contento di andarmene via. Se proprio potevo me ne sarei tornato a casa, al bar. Che mi mancava la mia fidanzata. E sua figlia.
Invece poi è successo. Non lo so se la colpa è stata del collega che mandava i messaggi con il cellulare, ma alla fine il gippone dove stavo è rimasto da solo, e intorno c’era tanta gente arrabbiata che ci lanciava le cose. Noi abbiamo provato a scappare, ma siamo rimasti incastrati addosso a uno di quei cosi dove la gente ci mette i vetri da buttare. E intorno che macello!
Ci tiravano i sassi, ci rompevano i vetri, sembrava ci volessero ammazzare, non me lo ricordo bene però. Io avevo respirato il gas. Avevo pure vomitato. Poi ho visto il sangue. Non lo so di chi era. E ho preso la pistola. E ho sparato in aria due volte. Ci ho messo un po’ perché non ero tanto capace a togliere la sicura, ma ho sparato in aria. E le cose si sono calmate. È arrivato pure un altro collega e finalmente mi hanno portato in ospedale. Lì mi hanno dato delle medicine, talmente tante medicine che mi veniva sonno, e se mi chiedevano qualcosa rispondevo piano, nemmeno io lo sapevo quello che dicevo. Quando proprio quasi dormivo mi hanno riportato in caserma. E li mi stavano aspettando. Tutti i colleghi. Sembravano felici. Hanno iniziato a battere le mani e a scandire in coro: «uno a zero per noi! uno a zero per noi!».
Allora, con una pacca sulla spalla, mi hanno informato che avevo ucciso un manifestante: «Benvenuto tra gli assassini», mi hanno salutato.
E da quel momento, ogni volta che uno di loro mi incontrava, mi indicava agli altri e avvisava: «State attenti, mi raccomando, non fate arrabbiare il cecchino».
Ma se io non sono mai stato capace a sparare!
Al poligono ero il peggiore di tutti, non ci prendevo proprio.
Ma ormai nessuno mi credeva. Mi hanno portato delle carte e io l’ho firmate: «Ti gestiamo noi, ricordatelo», venivano a raccomandarsi.
Ma cosa significa gestione?
Sono finito su tutti i giornali!
Mi hanno dato la colpa.
E mi hanno detto che non ero più buono per fare il carabiniere.
Capirai.
Io questo lo sapevo già.
E pure gli amici del bar, giù al paese, hanno cominciato a farmelo pesare. Secondo loro chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina. E che la mia fidanzata mi ha lasciato se lo immaginavano tutti. Secondo loro una volta che è stata fatta la strada tutti i cani ci passano. E da lei ne erano passati tanti…
Ma io le volevo bene.
A lei.
E alla bambina.
Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male. Quando sono venuti a prendermi l’ho spiegato bene: «Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male».
Ma loro insistono.
Insistono che io la toccavo.
O che mi sono fatto toccare, non me lo ricordo.
Io ho respirato i gas e ho pure vomitato.
E poi ho sparato in aria, sono sicuro.
Sono sicuro, anche se con tutte le gocce che mi hanno fatto prendere non è facile essere sicuri. Non riesco nemmeno a capire se è vero quello che vedo davanti agli occhi quando li chiudo. Se è vero un ragazzo con il passamontagna che mi guarda e alza il braccio puntandomi addosso le tre dita unite a formare una pistola. Lui, quando chiudo gli occhi, arriva e fa: «Pum!».
«Carlo Giuliani è vivo e tu sei morto».
Ogni volta che chiudo gli occhi il ragazzo con il passamontagna me la ripete sempre questa cosa qua.

Per sempre ragazzoRacconto di Cristiano Armati tratto dal volume Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani, a cura di Paola Staccioli, Tropea Editore, 2011.

E fu così che mi ritrovai laureato

Sono passato dalle parti della città universitaria oggi. E mi sono imbattuto in stormi di persone con l’alloro dietro le recchie come usava ai tempi di Dante e Virgilio, vestiti eleganti (devo essermi perso qualcosa: quando è iniziata la moda del farfallino?) e bei tomi rilegati in similpelle sotto il braccio. Tutti ridevano, qualcuno era ubriaco. Nel cervello mi si è accesa una fotografia datata 2002. Ci sono io in maniche di camicia color verde militare e praticamente nessun altro a parte la commissione: la discussione della mia tesi, in effetti, era fissata per le otto e mezza, a chi poteva reggere la pompa di svegliarsi per ascoltare una relazione su Ogotemmeli, un vecchio cacciatore Dogon? Venne un mio amico che entrò in aula un po’ in ritardo perché non riusciva a trovare parcheggio e una signora maliana in abito tradizionale a cui avevo parlato del mio lavoro. Altre persone le incontrai nell’atrio quando era tutto finito, intorno alle 9 più o meno. Così pagai ai convenuti cornetto e cappuccino nel bar di piazzale Aldo Moro, quindi mi presentai regolarmente al lavoro. “Quanto hai preso?”, mi domandò il capoccia di allora. “110 e lode”, risposi io. “Bravo, mo’ sposta ‘sto bancale”, ordinò lui. E fu così che mi ritrovai laureato.

Di cosa si parla quando si parla della guerra contro i poveri combattuta dal governo Renzi

Rispetto al 2004, pare che i furti negli appartamenti (lo dice il Censis) siano aumenti del 127%. Una stima comprensibile se si tenesse conto all’indiscutibile aumento della fame, riscontrabile anche “a occhio” in questo paese. Come reagire, quindi, al problema che, proprio sull’onda della fame, sta evidentemente spingendo sempre più persone verso l’opzione individuale dell’illegalità, magari a scapito dell’alternativa sociale offerta dalla lotta?

Il governo non ha dubbi: con la riforma del codice penale, la pena minima per i reati di “furto in abitazione e furto con strappo” (art. 624-bis) passa da uno a tre anni, con severe limitazioni nella valutazione di eventuali circostanze attenuanti. Il discorso è analogo anche per i reati di rapina e di rapina aggravata, la cui pena minima è innalzata, rispettivamente, a quattro e a cinque anni contro i tre e quattro anni previsti dal codice vigente.

Diverso, ovviamente, è ciò che si sta prevedendo per il reato di tortura, tornato “di moda” dopo la condanna emessa nei confronti della polizia italiana dalla Corte europea per i diritti umani per i fatti della scuola Diaz e velocemente espulso dalle luci della ribalta. In realtà, gli abusi consumati tra le quattro mura delle carceri e delle prigioni nostrane potranno continuare indisturbati, forti dei segnali lanciati dall’alto. La stessa Commissione Giustizia che usa il pugno di ferro per colpire ladri e rapinatori, infatti, indossa il guanto di velluto e, stravolgendo il testo elaborato dalla Camera, rigetta l’idea di raddoppiare i tempi di prescrizione e riduce da quindici a dodici anni il massimo della pena prevista per i torturatori.

Le scelte governative, da questo punto di vista sono coerenti: se i reati frutto della fame devono essere colpiti senza pietà riempendo le carceri con nuove masse di proletari, bisogna tutelare l’azione violenta e persino la tortura commessa dal personale in divisa per tenere sotto scacco i fenomeni di insorgenza sociale. Con il contributo del ministro Andrea Orlando, intanto, la guerra contro i poveri dichiarata dal governo Renzi continua.

Il carabiniere di Desenzano sul Garda: street art is not dead

Il carabiniere di Desenzano sul Garda

Quando tutto sembrava perduto. Mentre il segno dirompente della street art appariva sul punto di soccombere di fronte al duplice attacco scatenato sui ribelli dell’arte dall’apparato repressivo e dalle logiche dei benpensanti, da Desenzano sul Garda i teppisti dimostrano di avere ancora molte frecce nel loro arco e, con il favore delle tenebre, realizzano questo capolavoro, ficcando la colonnina dell’autovelox sopra la testa di un milite di bronzo, posato tra le strade della cittadina lombarda dallo zelo dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

Gli storici dell’arte e i critici più attenti ammirano basiti il lavoro degli ignoti artisti. C’è chi sottolinea, soffermandosi sulla cappa di metallo calata sul volto bronzeo del militare, l’efficacia della rappresentazione dell’eterna lotta tra la “legalità” istituzionale e la “giustizia” popolare. Altri si spingono ancora oltre e affermano, analizzando l’opera, di come attraverso l’istallazione si sia voluto condensare un “non vedo – non sento – non parlo” a cui, come le celebri tre scimmiette con le mani sulla bocca, gli occhi e le orecchie, le forze dell’ordine si sarebbero votate, evitando di prendere qualunque posizione diversa da una presunta necessità di obbedire agli ordini a prescindere da ogni logica di umanità o buon senso.

Tutti, in ogni caso, sono concordi nell’affermare come da Desenzano sul Garda arrivi la necessità di affermare il senso autentico dell’arte di strada: quello di spezzare il monopolio dei significati detenuto dalle classi dominanti per imprimere sui muri e sugli arredi urbani un senso alternativo che, instancabilmente, ricorda come un altro mondo sia non solo possibile ma necessario.

Il 15 ottobre di Davide Rosci: tra repressione e dissociazione, note sul come e sul perché della galera oggi

Non lo so se è stato il destino a stabilire la data e l’ora di quanto accaduto per costringermi a riflettere. Di sicuro ciò che poteva succedere in un altro momento si è verificato ieri, sabato 6 giugno, mentre mi trovavo nella Sala da The di Porto Fluviale Occupato, a Roma, per partecipare alla presentazione del libro “Parole inarrestabili”, il volume curato da Matthias Moretti e dedicato alle lettere scritte dal carcere dai militanti italiani. I relatori non avevano neppure iniziato a parlare che da Teramo mi arriva un messaggio. Poche, spietate parole per dire: «Davide è stato arrestato e sta venendo portato in carcere. Di nuovo».

a.davide-rosciMi è crollato il mondo addosso. Davide, per chi non lo conoscesse, è Davide Rosci: antifascista teramano arrestato una prima volta per i fatti del 15 ottobre 2011, quando una massa impressionante di persone si scontrò con la polizia in piazza San Giovanni nel nome dei troppi diritti bruciati sull’altare di una guerra contro i poveri che, da quel momento in poi, si sarebbe continuata ad abbattere sul Paese con durezza sempre crescente. Neppure nei momenti più duri del suo primo periodo di detenzione Davide ha smesso di far sentire la sua voce: lo testimoniano, tra le altre cose, proprio le lettere raccolte in «Parole in arrestabili», il segno tangibile di come né la galera, né i domiciliari abbiano impedito all’attivista teramano di continuare ad animare la lotta e di partecipare attivamente al dibattito sui diritti e la giustizia sociale.

Quello che è accaduto ieri, quando Davide è stato nuovamente tradotto in carcere, da un punto di vista tecnico riguarda il cumulo di vecchie condanne incassate in virtù dell’antifascismo militante scelto come vessillo dalla sua adorata curva teramana. Ma intanto pesa su di lui anche la sentenza della Cassazione e la conferma, decisa dei giudici, della condanna a sei anni, già incassata da Rosci nel momento in cui veniva riconosciuto colpevole del reato di «devastazione e saccheggio». Un argomento su cui è lo stesso Davide a intervenire attraverso la sua pagina Facebook, facendo il punto sulla situazione in cui versa una parte importante degli imputati del 15 ottobre e richiamando chiunque operi, viva e pensi in un ambito ancora definibile come “di sinistra” a dare concretezza ai valori della solidarietà:

Il girone dantesco dove sono finito pare essere per il momento senza uscita. Ieri infatti la corte di Cassazione ha confermato per me, Mauro e Cristian le pene stabilite dalla corte d’appello mentre per Marco è stata annullata la sentenza e rimandata in secondo grado. Di questo festeggiamo. C’è poco da dire e purtroppo nulla da fare quindi per il momento l’unica cosa su cui soffermarsi è riflettere su ciò che è stato e organizzarsi su ciò che sarà. A livello politico giovedi ho fatto una piccola analisi e penso che di più non vada detto mentre a livello umano e personale per me da ora sarà tutto diverso. A breve la condanna passerà definitiva e le prospettive sono o tornare dentro oppure trovare un lavoro stabile e sperare che non mi rompano ulteriormente il cazzo. Le porte, per uno che come me è uscito dal carcere, non sono di certo spalancate quindi approfitto di questo post nella speranza di trovare qualche anima pia, che si imbatte nel leggere queste righe, di tenermi presente qualora venisse a conoscenza di un qualsiasi impiego. Penso di aver dato tutto alla causa e spero di poter dare ancora tanto ma per il momento devo restare lucido ed evitare di diventare carne da macello. Nonostante tutto e tutti sempre a testa alta e con il sorriso sulle labbra. Passerà anche questo…

a.davide2_16447_10200140132423331_814482995048554580_nPer chi fosse ancora all’oscuro della piega profondamente reazionaria su cui si sta avvitando l’Italia del Partito della Nazione di Matteo Renzi, l’imputazione di «devastazione e saccheggio» è un residuo del fascista Codice Rocco, una norma ereditata dall’ordinamento repubblicano e, da Genova 2001 in poi, malgrado fosse nata per fronteggiare uno scenario di tipo militare, usata sistematicamente per annichilire l’espressione del dissenso politico, trasformando la realtà di reati minori, come per esempio il danneggiamento di una vetrina, in condanne esemplari: «Vale più una vetrina rotta o una vita spezzata?», ci si è chiesti tante volte riflettendo su un omicidio come quello di Carlo Giuliani, restato sostanzialmente impunito mentre dall’altra parte della barricata si andavano sprecando gli anni di galera.

Oggi, però, la domanda da farsi è un’altra, per cercare intanto di capire come mai, anche a fronte di una conflittualità sociale imparagonabile ai livelli del passato, la stretta repressiva si fa sempre più forte. Ed è inevitabile, tentando un’analisi degli scenari in corso, che una simile domanda rischi di lasciare l’amaro in bocca. Perché se carcere e repressione possono essere, come sono sempre stati, il corollario con cui la grande proprietà affronta le fasi di ristrutturazione del Capitale (condizioni esistenziali e lavorative sempre più dure producono fenomeni di insorgenza diffusi anche se non sempre organizzati), dall’altro lato della barricata ciò che accade non può essere liquidato semplicemente bestemmiando contro giudici, padroni e poliziotti vari, ma riguarda tutte e tutti noi. Quello che succede se e quando si spalancano le porte del carcere, infatti, riguarda in modo assolutamente diretto la solidarietà che si costruisce fuori e dentro l’istituzione repressiva, e chiama in causa in maniera ancora più importante un altro concetto: quello di unità.

Ora che la condanna per Davide Rosci è andata definitiva, infatti, diventa complicato smettere di ricordare ciò che successe all’indomani del 15 ottobre del 2011, quando a sinistra – o in una «certa» sinistra – si fece a gara per dissociarsi, stigmatizzare e, superando persino giudici e poliziotti, condannare senza alcun processo i protagonisti degli scontri. Tra i pezzi di cui la condanna di Davide in Cassazione è composta ci sono anche quelle dissociazioni!

Le stesse dissociazioni che, dopo il primo maggio, scegliendo di cadere nel tranello dei “buoni” e dei “cattivi”, non hanno mancato di vibrare contro la parte più conflittuale del corteo No Expo: un evento che, se è indubbiamente diverso rispetto al 15 ottobre (e d’altronde come possono, a distanza di anni, prodursi fenomeni uguali?), finisce per essere simile proprio nella volontà di molti di prendere le proprie distanza dalla massa, incuranti di come un simile atteggiamento – indegno umanamente prima che politicamente – sia il primo mandante di ciò che, portato poi nelle aule dei tribunali, si traduce in anni di galera. Il resto della partita, questo è evidente, è sempre in piazza che deve essere giocata: il terreno in cui i diritti continuano a conquistarsi a spinta e dove il conflitto costruisce attraverso la partecipazione la legittimità delle sue pratiche.

Altrimenti di cosa è che si parla quando si dice che per liberare tutt* occorre lottare ancora?

DAVIDE LIBERO! TUTTE E TUTTI LIBERI!

Per scrivere a Davide, indirizzare la corrispondenza a:

Davide Rosci – Casa Circondariale di Teramo, Strada Comunale Rotabile Castrogno, 64100 Teramo