Resistere allo Stato

Probabilmente il merito andrà al fatto che, come tutti i classici, Stato e rivoluzione di Lenin è un libro «che non ha mai finito di dire quello che ha da dire». Eppure il momento in cui questa nuova edizione di una delle opere più rappresentative del padre della rivoluzione d’Ottobre vede la luce sembra essere stato previsto dal caso per sbalordire gli scettici, ai quali non resterà, una volta sbarrati gli occhi, che scegliere tra due alternative: 1) considerare Lenin come un novello Nostradamus, riconoscendo quindi alla preveggenza uno status di tipo scientifico; 2) ripensare al marxismo-leninismo, in rapporto alla sua capacità di leggere il reale e, di conseguenza, di indicare una via di uscita dal mondo mercificato del Capitale.

Il mondo mercificato del Capitale, ovviamente, è quello in cui siamo costretti a vivere. In genere con la convinzione, indotta dal Capitale stesso, di essere afflitti da problematiche senz’altro gravi (la povertà, la disoccupazione, lo sfruttamento senza limiti e la cementificazione dei nostri territori, la crisi degli alloggi, eccetera), ma in fondo «naturali», come se invece che di precise conseguenze dei rapporti sociali vigenti, e quindi della relazione asimmetrica tra sfruttatori e sfruttati, stessimo parlando di fenomeni atmosferici tipo pioggia o grandine.

Ma una volta chiarito come l’unica cosa «naturale» su questa terra sono, e saranno sempre, gli sforzi con cui gli oppressi tentano di spezzare le loro catene, qual è, invece, l’attualità rispetto alla quale Stato e rivoluzione è in grado di intrattenere un dialogo risolutivo?

Ebbene, nel momento in cui scrivo, mentre dalla stessa redazione della casa editrice e dalla tipografia s’intensificano i richiami all’urgenza di chiudere il tutto e di andare in stampa (siamo pur sempre in un regime capitalistico, e come la vita chiamata a contenerli, anche gli spazi della riflessione e dell’analisi si comprimono combattendo una feroce battaglia per lo loro stessa sopravvivenza…), si consuma l’infelice epopea del leader greco Alexis Tsipras e di Syriza, l’organizzazione che anche in Italia aveva trovato numerosi epigoni insieme a vecchi e nuovi arnesi della sinistra parlamentare pronti a saltare sul carro di un vincitore incapace di rivelarsi tale. Ma cosa è successo effettivamente in Grecia?

Il paese ellenico, aggredito dai desiderata del comitato d’affari malamente nascosto dalle vesti istituzionali dell’Unione Europea e restato senza ossigeno in virtù degli interessi di un debito insostenibile, è passato per una battaglia parlamentare e per un referendum popolare che, dopo aver rispedito al mittente i diktat della signora Merkel e dei suoi sodali, non è riuscito a ottenere nulla di molto diverso di quanto già preteso dagli strozzini della Troica. Infatti, come riassume il Collettivo Militant sul suo blog: «Nella notte tra il 13 e il 14 agosto il parlamento ellenico ha approvato il terzo piano di aiuti, corredato dal terzo pacchetto di misure che l’Eurozona ha preteso come prova della “buona” volontà. Buona per modo di dire dato il contenuto delle misure. Sono state infatti approvate circa 57 riforme, che vanno dalla reintroduzione dei licenziamenti collettivi alla revisione della contrattazione aziendale, dall’abolizione delle baby pensioni fino alle privatizzazioni, nodo fondamentale di questo terzo pacchetto. Entro ottobre dovranno essere presentate le offerte per le privatizzazioni del porto del Pireo e di Salonicco, verranno inoltre privatizzati la rete elettrica Admie e gli aeroporti regionali» (http://bit.ly/1IJYSmC).

Alla Grecia, in sostanza, non restano più neanche gli occhi per piangere. E la speranza di Tsipras, mentre Syriza si spacca e il paese va verso nuove elezioni, si traduce in un territorio depredato della sua stessa sovranità, una specie di zona economica speciale occulta dove pochi, grandi investitori potranno fare qualunque cosa di uno spazio completamente privatizzato, mentre nel corso della crisi la stessa aspettativa di vita dei greci è calata significativamente proprio in virtù delle politiche di austerità adottate per ridurre i costi della spesa pubblica a discapito di qualunque esigenza della popolazione (vedi la relativa ricerca pubblicata dalla rivista medica «Lancet», http://bit.ly/1Q8TqjC).

Si potrebbe dire, e sarebbe senz’altro corretto, che l’errore di Tsipras sia stato quello di muoversi all’interno di un orizzonte in cui l’istituzione europea viene vissuta come riformabile. Eppure, ammesso e niente affatto concesso che quello di Tsipras sia un errore piuttosto che la precisa scelta di un partito liberal (anche la parola «socialdemocrazia» sembra forte di fronte ai risultati raggiunti…) e non di un’organizzazione di classe, la parabola di Syriza dà la parola a Lenin rispetto a un orizzonte ancora più vasto. Lo Stato di cui parla Lenin nel suo libro, infatti, non è nient’altro che il «prodotto dell’antagonismo inconciliabile tra le classi», e poco importa se l’esigenza di un suo rafforzamento lo abbia fatto passare dai confini nazionali a quelli europei. L’intento resta pur sempre quello di razionalizzare le politiche di dominio, rendendo sempre più efficace la tutela da parte degli organismi spacciati come pubblici di ciò che sono soltanto gli interessi di pochi.

Rispetto a simili istituzioni il compito di una struttura politica che si muove nella tradizione del movimento operaio resta identico. Si tratta, come scrive Lenin, di assumere su di sé la «funzione di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia». Tutto il resto, all’epoca di Stato e rivoluzione, coincideva con i termini di «revisionista» o di «opportunista», utilizzati da Lenin a mo’ di insulto contro i «rinnegati», contro, cioè, chi, in cambio di un comodo posto in parlamento, aveva impiegato davvero poco ad anestetizzare il marxismo, sfruttando il prestigio del materialismo tra le masse per un uso e un consumo antitetico rispetto alle autentiche necessità rivoluzionarie degli sfruttati.

Da questo punto di vista, Stato e rivoluzione è un libro di filologia marxista e viene portato avanti tenendo ben presente l’esigenza di fare chiarezza su ciò che davvero avevano scritto Marx ed Engels. Un’operazione quanto mai necessaria, considerando come la coeva legislazione antisocialista aveva prodotto una quantità imprecisata di versione edulcorate di libri come lo stesso Manifesto del Partito comunista, mentre dove non era arrivata la censura ci avevano pensato diversi autori provenienti dal campo del materialismo dialettico ad edulcorare con il loro revisionismo il senso di quanto originariamente affermato dai grandi filosofi tedeschi.

Il campo di battaglia su cui si stava combattendo l’accesa disputa era sostanzialmente uno: quello della rivoluzione. Perché, come dimostra Lenin in modo inequivocabile, se parliamo di Marx ed Engels parliamo di un processo al culmine del quale: «il proletariato distrugge l’“apparato amministrativo” e tutto l’apparato dello Stato per sostituirlo con uno nuovo, costituito dagli operai armati».

Il corsivo nel testo è dello stesso Lenin. Ai nostri tempi, invece, appartiene il problema di respingere nel terreno della superstizione (o del vile interesse personale) la posizione di chi crede nella possibilità di arrivare a un capitalismo «dal volto umano», come se fosse possibile chiedere a una balena di essere grande come un pesce rosso e di farsi le sue nuotate in una boccia di cristallo. È vero anche che se Lenin chiudeva il suo libro portando a casa il risultato epocale del trionfo della rivoluzione d’Ottobre e che se Marx e Engels scrivevano avendo ben chiari esempi come quello della Comune di Parigi, cioè la madre di tutte le rivoluzioni proletarie, in tempi come i nostri è diventato difficile dedicare parole a progetti di riscatto universale senza essere, nella migliore delle ipotesi, relegati in una galleria popolata da personaggi bizzarri e nostalgici, vecchi ancora rincoglioniti dalla sbornia presa con un liquore imbottigliato dal Novecento. Eppure riferimenti più vicini a ciò che quasi possiamo toccare con mano non mancherebbero. Pensiamo per esempio alla Resistenza al fascismo: cosa è stato quel glorioso movimento – non a caso reduce da settant’anni di attacchi opportunistici – se non il frutto di un’organizzazione popolare decisa a far valere il proprio NO all’abominio?

La Grecia, per tornare all’esempio iniziale, ha detto NO alla Troica. Ma il comportamento di Tsipras e di Syriza ha impedito al Paese di organizzare i fermenti di rivolta in una Resistenza. Il fallimento, in questo modo, è stato inevitabile ma, leggendo Stato e rivoluzione, non certo imprevedibile. Mi riferisco in modo particolare al passo in cui Lenin, appoggiandosi a Marx ed Engels, spiega come: «L’onnipotenza della ricchezza è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo».

Mentre, continua Lenin: «I democratici piccolo-borghesi (…) aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa “di più”. Essi condividono e inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio universale possa “nello Stato odierno” esprimere realmente la volontà della maggioranza dei lavoratori e assicurarne la realizzazione».

Non è forse questo quello che è successo in Grecia? Non sventolavano forse, in quel paese come in moltissimi altri, mille bandiere con l’orgogliosa scritta «OXI»? E non è stato forse quell’OXI, cioè quel NO greco, a trionfare nel corso del referendum anti Troica citato poco fa? Eppure quale è stato l’esito dell’espressione democratica della volontà popolare greca?

E se non vogliamo attraversare l’Adriatico, restiamo in Italia, e chiediamoci piuttosto, parlando per esempio del referendum dedicato all’acqua pubblica, quale sia stata la sorte di quel voto: apparentemente, il trionfo schiacciante di un NO alla privatizzazione…

Esattamente come nel caso dell’OXI greco, la sorte del NO italiano è stata quella di una volontà popolare ridotta a semplice carta da culo dai poteri forti: e come poteva essere altrimenti visto che è solo per loro e la loro tutela che è nato quell’organismo socio-politico definito «Stato»?

Per questa ragione, e per una lettura di Stato e rivoluzione coerente con ciò che resta della volontà di essere sempre e comunque quel «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», si può pensare di ripartire dai NO espressi dalla volontà popolare con una nuova consapevolezza. Che si tratti di lottare contro le grandi opere inutili e imposte (dalla linea ad Alta Velocità alle trivellazioni), contro gli sfratti, contro lo sfruttamento del lavoro o il razzismo nei confronti di rifugiati e migranti, dire NO significa organizzare la Resistenza o non significa nulla (http://bit.ly/1Oc5Vtt).

Mi sembrerebbe, questo, un buon modo per ricominciare a tracciare dei confini precisi tra la sinistra di classe e le organizzazioni filo-padronali e/o piccolo borghesi da cui siamo afflitti, quando non direttamente governati. Mi sembrerebbe, questo, un buon modo per evitare settarismi, affondare le proprie radici nel solido terreno dei bisogni e, alla domanda «cosa vogliamo?», continuare a rispondere «tutto» ricordandoci che non stiamo parlando di una delibera, di una riforma o di un qualche accordo sindacale. Ma di assaltare il cielo.

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Vladimir Lenin, Stato e rivoluzione“Resistere allo stato”, in Vladimir Lenin, “Stato e rivoluzione”, a cura di Cristiano Armati, con un saggio su Lenin e lo Stato di Iñaki Gil de San Vicente; Red Star Press, 2015

Logos 2015: Pugni e socialismo alla Festa della Parola

Pugni e socialismo

ROMA: Se la parola “benessere” è il tema scelto per ispirare la quinta edizione di LOGOS – Festa della Parola, lo sport popolare è la forma di autorganizzazione capace di esprimere al meglio i valori di una pratica sportiva slegata sia dalle ideologie del profitto sia dal mantra della competizione a tutti i costi. In questo contesto, negli spazi occupati e autogestiti della Ex Snia – Parco delle Energie (Via Prenestina 173), DOMENICA 4 OTTOBRE, alle 17, Chiara Gregoris e Giuni Ligabue presentano “Pugni e socialismo. Storia popolare della boxe a Cuba“. Insieme agli autori intervengono Cristiano Armati (Red Star Press) e gli All Reds Rugby.

La scuola dell’odio a Bellinzona

La scuola dell'odio a Bellinzona

Militante ticinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Bruno Breguet ha appena vent’anni quando, nel 1970, viene arrestato ad Haifa dalle autorità israeliane. Accusato di svolgere attività terroristica per conto del Fronte, Breguet viene percosso e torturato a lungo prima di essere trasferito nel carcere di Ramleh dove, per ben sette anni, rimarrà a disposizione dei suoi aguzzini, che riservano ai prigionieri politici i trattamenti più duri senza riuscire ad avere la meglio sulla determinazione con cui i militanti riescono a lottare perfino dietro le sbarre di una cella di sicurezza.
Nella prigione, Breguet continuerà la sua battaglia antisionista, rifiutando di scendere a patti con i servizi segreti e, in seguito, organizzando sommosse, preparando piani di evasione e tentando sempre e comunque di comprendere, attraverso lo studio, la natura dei mostri generati da una società divisa in classi nel contesto della guerra di conquista condotta ai danni della Palestina dall’imperialismo israeliano.

a.odiolibro_10491253_668492393256029_4414858388109203167_nNato nel 1950 a Muralto, in Svizzera, entra a far parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1970 diventando, dopo l’arresto subito ad Haifa lo stesso anno, il primo non palestinese membro della Resistenza a essere processato e condannato da un tribunale israeliano. Costretto a subire durissime condizioni detentive, Breguet sconterà una pena di sette anni nel carcere di Ramleh, rifiutando sistematicamente di dichiararsi “pentito” e raccogliendo, al culmine di una mobilitazione internazionale, la solidarietà di attivisti e intellettuali come Roland Barthes, Louis Althusser, Jacques Le Goff, Gilles Deleuze, Umberto Terracini, Alberto Moravia, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Franco Fortini, Noam Chomsky.
Uscito di prigione nel 1977, Bruno Breguet è arrestato nuovamente in Francia nel 1982, accusato di essere membro dell’ORI, l’Organizzazione dei Rivoluzionari Internazionali di Ilich Ramirez Sanchez, più noto con il nome di battaglia di “Carlos”. Tornato in libertà tre anni dopo, Breguet si trasferisce in Grecia, dove lavora come carpentiere fino al 1995, anno in cui sparisce misteriosamente dalla motonave “Lato” lungo la rotta Ancona-Igoumenitsa.

45 anni dopo l’arresto di Breguet, l’essenza dello Stato Israeliano non è mutata. No all’autocelebrazione di Israele all’interno del Festival del Film di Locarno!

L’organizzazione del Festival del Film di Locarno legittima indirettamente questa oppressione, dimostrando la sua complicità con le autorità israeliane: nella sessione 2015 sarà infatti proposta una retrospettiva sul cinema israeliano, nell’iniziativa “Carte Bianche”, in collaborazione con il Fondo Israeliano per il Cinema (agenzia finanziata dal governo e dal Ministero degli esteri israeliani). Nonostante il carattere “sociale” del festival, quest’ultimo non si preoccupa di collaborare con chi, negli ultimi 60 anni, ha messo in atto un vero e proprio genocidio, torturando, massacrando e devastando un popolo. Ma c’è chi non vuole tacere di fronte a quest’autocelebrazione: c’è chi ricorda i corpi dilaniati dopo i bombardamenti su Gaza, che non può chiudere gli occhi di fronte al razzismo di uno Stato che vuole distruggere un popolo in nome di un “diritto superiore”, che non può dimenticare che un genocidio è in corso e che quindi non c’è nulla da celebrare. La politica di apartheid e il sistematico genocidio operato contro la popolazione palestinese vanno denunciati e combattuti, con ogni mezzo necessario.

Per queste ragioni, il Collettivo Scintilla ha il piacere di invitare Cristiano Armati  il 16 luglio presso la Casa del Popolo di Bellinzona per la presentazione del libro edito da Red Star Press “La scuola dell’odio – Sette anni nelle prigioni israeliane” di Bruno Breguet”.

Leggi la postfazione di Cristiano Armati a “LA SCUOLA DELL’ODIO” >>

 

 

Dante Di Nanni e il comandante Visone: dove vivono i partigiani?

La notte del 22 giugno, a Torino, un gruppo di ignoti si rende protagonista di un gesto infame e vigliacco. Con il classico favore delle tenebre viene stampato e affisso un volantino con il solo scopo di diffamare la memoria di Dante Di Nanni, eroe della Resistenza caduto a soli diciannove anni al culmine di un’azione antifascista in cui, cuore e fucile alla mano, sebbene gravemente ferito, seppe tenere in scacco per ore un nutrito corpo di camice brune e nere decise ad arrestarlo.

Dante Di Nanni, la storia secondo gli infamiNel volantino non ci si permette soltanto di chiamare Di Nanni “Er Monnezza” ma, con un operazione di revisionismo di bassa lega, viene spacciata una versione alternativa della storia del gappista piemontese, ovviamente con l’intento di sminuire la statura di Dante e di colpire chi, nel suo nome, continua a portare avanti i valori che furono alla base della vittorioso insurrezione popolare del ’45, data a partire dalla quale l’Italia diventa quella repubblica nata dalla Resistenza e, contemporaneamente, il paese in cui il sogno di una reale giustizia sociale diventa un’eredità scomoda, da eliminare dal consesso civile con ogni mezzo necessario.

a.dantedinanniTra i mezzi utilizzati per infangare il nome dei partigiani, infatti, il vergognoso volantino torinese è in buona compagnia: eserciti di storici revisionisti, da moltissimi anni, lavorano con l’unico intento di: 1) ridurre l’epopea partigiana alle imprese di una banda criminale (cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, 2005); o, in subordine, di: 2) annacquare il nerbo garibaldino della Resistenza con storie di suore, preti e madri che fanno scudo con il proprio corpo ai loro figli per dare l’idea che il movimento partigiano fosse un affare di tipo nazional-patriottico e non un progetto di matrice social-comunista intenzionato a cambiare l’esistente (cfr. Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, 2015).

Tornando al volantino torinese, la mano che merita di ricevere qualunque punizione per aver osato riprodurre le fattezze di Dante con un naso da pagliaccio, si basa su una polemica vecchia e, in modo particolare, su un articolo di Nicola Adduci per “Studi Storici” ripreso nel 2012 da “La Stampa”. Secondo Adduci, Di Nanni non sarebbe stato ucciso al culmine di una sparatoria, ma colpito mentre cercava di nascondersi da una pattuglia di nazifascisti. Notizie storiche in contraddizione con quella che, per eccellenza, è la testimonianza sulla morte di Dante Di Nanni, resa dal comandante Visone, al secolo Giovanni Pesce, nei libri Soldati senza uniformeSenza tregua. Come afferma il Comandante:

“Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio”.

Il comandante Visone
Il comandante Visone

A partire da queste parole, l’operazione di cui si fa portavoce il diffamatorio volantino torinese, non attacca soltanto Dante Di Nanni, ma lo stesso comandante Visone, venuto a mancare nel 2007 ma a lungo depositario, nonché difensore infaticabile, della memoria viva dei GAP piemontesi.

Al confronto con la levatura morale dei personaggi citati è evidente che le parole di chi ha bisogno di nascondersi nel buio per blaterare le sue diffamazioni hanno un valore pari alla dignità dei loro autori, quindi zero. Eppure, da tutta la vicenda, emerge una situazione che non tira in ballo soltanto il discorso sul trionfante revisionismo foraggiato dal mainstream italiano ai danni della Resistenza ma che, più modestamente, aiuta anche a fare i conti rispetto a cosa significa fare editoria oggi, almeno per conoscere meglio i soggetti a cui una parte importante della memoria del Paese viene affidata. Perché due importanti libri di Giovanni Pesce, vale a dire il citato Senza tregua insieme a Quando cessarono gli spari, fanno parte del catalogo Feltrinelli: una scelta editoriale che, evidentemente, è frutto di tempi molto diversi da quelli attuali. Infatti, rispetto a quanto accaduto a Torino, quale è stata la reazione della casa editrice di Milano?

Difficile dirlo con esattezza, eppure visitando la pagina FB di Giangiacomo Feltrinelli Editore, l’unica notizia reputata degna di nota il 23 giugno riguarda la visita del ministro Dario Franceschini alla sede dell’azienda di Inge Feltrinelli… strana coincidenza, ma considerando il ruolo del “Partito della Nazione” a cui appartiene lo stesso ministro nel percorso di revisionismo storico appena descritto, la domanda non è più “perché dalla Feltrinelli nessuno prende parola per denunciare la vergogna del volantino torinese?” ma “cosa ci fanno i libri del comandante Visone in quella casa editrice?”.

Ci sarà modo senz’altro di tornare sull’argomento, che non riguarda la Feltrinelli, ma che ha a che fare con l’importanza di costruire approdi utili all’autonomia di classe per fare in modo che lo stesso patrimonio del movimento operaio sia ciò che è: memoria viva e non certo merce da catalogo; la semplice occasione di vendere qualche copia, utilizzare la Resistenza come una foglia di fico di fronte alla residuale opinione pubblica (di lettori forti!) indisponibile a liquidare le vicende della guerra di Liberazione e poi non avere né le risorse culturali né gli interessi necessari a difendere autori e opere pubblicate.

Da questo punto di vista non c’è molto altro dire. Meno male, però, che Soldati senza uniforme non è un libro della Feltrinelli, essendo stato pubblicato proprio quest’anno dalla Red Star Press.

Dante Di Nanni: la targa commemorativa

La scuola dell’odio a Firenze

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Con la sua storia di lunga durata, la lotta per l’indipendenza della Palestina riflette prospettive di portata internazionale e spinge a riflettere sull’imperialismo a partire dai mutamenti a cui anche le strategie di dominio vanno incontro. A dimostrarlo, la preziosa testimonianza di Bruno Breguet raccolta nel libro “La scuola dell’odio. Sette anni nelle prigioni israeliane” (Red Star Press), al centro del dibattito organizzato venerdì 12 giugno con Cristiano Armati, curatore del volume, negli spazi del Centro Popolare Autogestito Firenze Sud (Via Villamagna 27/A).

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Militante ticinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Bruno Breguet ha appena vent’anni quando, nel 1970, viene arrestato ad Haifa dalle autorità israeliane. Accusato di svolgere attività terroristica per conto del Fronte, Breguet viene percosso e torturato a lungo prima di essere trasferito nel carcere di Ramleh dove, per ben sette anni, rimarrà a disposizione dei suoi aguzzini, che riservano ai prigionieri politici i trattamenti più duri senza riuscire ad avere la meglio sulla determinazione con cui i militanti riescono a lottare perfino dietro le sbarre di una cella di sicurezza.
Nella prigione, Breguet continuerà la sua battaglia, rifiutando di scendere a patti con i servizi segreti e, in seguito, organizzando sommosse, preparando piani di evasione e tentando sempre e comunque di comprendere, attraverso lo studio, la natura dei mostri generati da una società divisa in classi nel contesto della guerra di conquista condotta ai danni della Palestina dall’imperialismo israeliano.

Leggi la postfazione di Cristiano Armati a “LA SCUOLA DELL’ODIO” >>

BITT Festival: la “Piazza Letteraria” bolognese

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BOLOGNA, giovedì 4 giugno: Il BITT-Batti il tuo tempo festival e Agenxia X presentano la prima edizione della Piazza Letteraria, un evento libero e gratuito dove prenderanno parola più di 50 tra scrittori e scrittrici, musicist*, teatranti, studenti e studentesse, poeti, attori e attrici, dj’s, rapper in performance/reading di 10-15 minuti.

a.bittLo Slam-x in salsa bolognese si svolgerà in due vicine e diverse location della zona universitaria bolognese: dalle 19:00 alle 00:30 in Piazza Verdi, dove si accavallano ogni giorno lingue e dialetti differenti, si alterneranno readings, voci, incursioni teatrali/poetiche, in un unico flow meticcio che compone la Bologna di ieri e di oggi. Dalle 23.30 lo spettacolo si trasferisce nella facoltà di Lettere al civico 38 di via Zamboni, per continuare con i reading e poi dare spazio alla musica con tanti/e dj’s “Bolo All Stars”, dove ci saranno i banchetti delle case editrici indipendenti come Agenzia X, Red Star Press e Bebert e quelli delle librerie bolognesi Modo Infoshop e Trame.

In caso di maltempo il tutto si svolgerà in via Zamboni 38.

> Letture/performance/voci/suoni con:

Pino Cacucci (scrittore) + Wu ming contingent (musicisti) & Marco Philopat (scrittore) – Manlio Benigni (giornalista) – Sante Notarnicola (poeta) – Giorgio Canali (cantante) – Angela Baraldi (cantante) – Suz – (cantante) – Duka (scrittore) – Sigaro (cantante “Banda Bassotti”) – Yari Salvatella (scrittore) – Alberto Masala (poeta) – Moreno Spirogi (cantante de “Gli Avvoltoi”) – Gianluca Morozzi (scrittore) – Enrico Palandri (scrittore) – Riccardo Balli (dj e scrittore) – Dies (rapper) – Alessandra Mostacci (musicista “Freak Antoni Band”) – Loriano Macchiavelli (scrittore) – Sergio Rotino (fine dicitore) – Simona Sparago (scrittrice) – Andrea Topot (precario) – Bifo (scrittore) – Helena Velena (scrittrice) – Cristiano Armati (scrittore) – Gianpiero Rigosi (scrittore) – Andrea Di Carlo (scrittore) -Massimo Vitali (scrittore) – Alberto Sebastiani (giornalista/scrittore) – Massimo Vaggi (scrittore) – Dimore in Movimento (gruppo teatrale indipendente) – Alessandro Berselli (scrittore) – Mimmo Crudo (musicista Parto nuvole Pesanti e OndAnomala) – Marco Martucci (scrittore) – Enzo Minarelli (poeta) – Alberto Bertoni (scrittore) – Gennaro Suano (cantante degli Smania Uagliuns) – Marcello Fois (scrittore) – Matteo Iammarrone (cantautore) – Moder (rapper) – Mc Nill (rapper) – Willy Peyote (rapper) – Giovanna Bandini (scrittrice)… e tanti altri!

> A seguire (IL)LETTERATO PARTY @ via Zamboni 38
• 1 Stage: Sor Braciola & Arsenale Diggei (Internazionale Trash Ribelle), Rebecca Wilson (electro), Big Mojo (Electro Blues) and more…
• 2 Stage: Bandolero Movement & Friends (reggae/jungle/dub)

Pugni e Socialismo a Padova

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a.pugni.10995383_682760251829243_2686875613243488258_nRiflettori accesi sullo sport popolare a Padova. Il 29 maggio, nell’ambito della tre giorni “Chinatown Calling”, piazzetta Caduti della Resistenza ospiterà, alle 17, un allenamento collettivo e una dimostrazione di boxe mentre, dalle 18, Chiara Gregoris e Giuni Ligabue presenteranno con Cristiano Armati della Red Star Press il libro “Pugni e socialismo. Storia popolare della boxe a Cuba”, insieme al documentario “Gancho Swing”, dedicato alla pratica del pugilato cubano. A seguire, la serata proseguirà con il concerto di Black Stuff e Skufitza Roshi.

 

La bandiera dell’odio. Brevi note dal mondo perduto di Bruno Breguet

È incredibile come storie un tempo sulla bocca di tutti e persino in grado di sollecitare importanti mobilitazioni internazionali possano sparire senza lasciare alcuna traccia nella memoria collettiva.

Quella di Bruno Breguet è una di queste storie. Una storia degli anni Settanta, si potrebbe aggiungere, e il particolare, grazie al portato simbolico di cui resta capace l’evocazione di quel decennio, racconta già un pezzetto di verità. Perché se oggi non sappiamo più rispondere alla domanda «chi è Bruno Breguet?», la sopraggiunta ignoranza ha a che fare anche con la fretta con cui si è provveduto a sigillare con l’etichetta «anni di piombo» istanze, desideri, rivendicazioni, lotte e progettualità politiche inerenti a problemi in realtà più vivi che mai.

Prendiamo La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Raccontando i suoi Sette anni nelle prigioni israeliane, l’autore non si limita a consegnarci un testo di grande forza emotiva né, il suo, è un semplice contributo alla letteratura concentrazionaria prodotta in ogni tempo e in ogni paese. Breguet, infatti, compone il suo testo nel «qui» e nell’«ora» di una fase particolare del cosiddetto conflitto «israelo-palestinese». Un «qui» e un «ora» dove, a ben vedere, la terminologia etnica oggi comunemente utilizzata per descrivere la «questione» ha uno diritto di cittadinanza pressoché irrilevante. Il conflitto di cui Breguet è protagonista, infatti, se trova nella Palestina il suo fronte geografico s’inserisce, in realtà, nell’ambito internazionalista della lotta di classe, parla il linguaggio sintetizzato da slogan come «Palestina libera Palestina rossa», supera una dialettica di tipo patriottico e, dopo aver denunciato l’oppressione di classe subita tanto dai palestinesi quanto dai proletari ebrei, incarna un capitolo dell’eterna guerra tra sfruttati e sfruttatori: quella guerra che, negli anni Settanta, veniva declinata attaccando le dinamiche neocoloniali, messe in pratica dallo stato di Israele in Medio Oriente come dalle potenze occidentali in tutte le parti del mondo. Per questa ragione persino l’elemento religioso, all’interno de La scuola dell’odio assume un ruolo marginale, diventando una componente problematica ma prima di tutto minoritaria e isolata delle lotte animate all’interno del carcere. Nella stessa istituzione totale vissuta da Breguet, inoltre, perfino la strategia, largamente utilizzata in qualunque carcere, di opporre i prigionieri lungo linee di tipo razziale per semplificare il loro controllo, non ha ancora avuto la meglio, motivo per il quale un detenuto comune ebreo ha molto più da spartire con un detenuto politico palestinese che non con una guardia carceraria israeliana. Una simile constatazione, in effetti, dovrebbe essere ovvia se si osserva la realtà dal punto di vista degli interessi oggettivi delle parti in causa; eppure finisce per risultare sacrilega oggi, quando i concetti di «etnia», «razza» e «religione» diventano i cavalli da battaglia con i quali negare il peso dell’unica differenza sostanziale, quella che continua a separare in modo insanabile chi sfrutta da chi viene sfruttato.

Bruno Breguet
Bruno Breguet

Eppure è proprio questo il campo in cui inserire le scelte di Bruno Breguet, nato a Muralto, cittadina della Svizzera italiana, nel 1950 e, non ancora ventenne, pronto ad arruolarsi tra le fila del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diventando in seguito il primo membro «straniero» della resistenza palestinese a subire il carcere. Come d’altronde scrive lo stesso Breguet ne La scuola dell’odio, commentando le vicende successive al suo arresto avvenuto in territorio israeliano il 23 giugno del 1970, le ragioni della sua militanza discendono direttamente da un momento storico in cui: «L’analisi dell’imperialismo e del sottosviluppo permetteva di capire il legame tra l’impegno politico all’interno della metropoli capitalista e le lotte dei contadini dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina uniti insieme nella lotta contro la potenza del dollaro e contro le varie borghesie nazionali» (Bruno Breguet, La scuola dell’odio, Red Star Press, 2015).

Uno scenario, dunque, marcatamente internazionalista, «scomodo» già sul nascere per il modo in cui prometteva di sconvolgere i piani del mercato e del pensiero unico e, anno dopo anno, declassato come se si stesse parlando di una «moda culturale» e non della visione di un progetto di liberazione capace di coniugare la lungimiranza dell’analisi politica con i nobili ideali della giustizia sociale. Come scrisse dalla Svizzera il «Collettivo nazionale per la liberazione di Bruno Breguet», formatosi solo nel 1975: «Nei vivaci dibattiti che pure caratterizzarono l’inizio degli anni Settanta, un dato era generalmente acquisito: il declino del terzomondismo, da cui anche una scarsa considerazione per le azioni di solidarietà internazionale» (Appendice in Bruno Breguet, La scuola dell’odio, La Pietra, 1980).

Allo stesso Collettivo, il merito di aver velocemente colmato il ritardo rispetto alle azioni di solidarietà nei confronti del prigioniero ticinese, ma anche di aver mostrato le responsabilità degli stati europei nella definizione della situazione palestinese e, più in generale, il loro ruolo di protagonisti nel generale assoggettamento di popoli e territori agli interessi del capitalismo globale. Fu grazie al Collettivo Breguet se il nome del militante del Pflp s’impose sulla scena pubblica, arrivando a raccogliere il sostegno d’importantissime personalità della cultura in un appello internazionale alla sua liberazione. Per rendersi conto dell’eco assunto dalla notizia, basti dire che, a firmare per la libertà di Breguet, furono, tra gli altri, personaggi come Roland Barthes, Louis Althusser, Manuel Castells, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Michel Foucault, Jacques Le Goff, Edgard Morin, Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Friedrich Dürrenmatt, Günther Grass, Noam Chomsky e, dall’Italia, Dario Fo, Franco Fortini e Alberto Moravia. Tutto ciò accadeva nel 1977, quando Breguet aveva già scontato i due terzi della pena a cui era stato condannato e quando, grazie anche alle pressioni internazionali, il militante ticinese avrebbe effettivamente riguadagnato la strada di casa insieme alla libertà.

Quella accennata fino a qui, però, è, in rapporto a Bruno Breguet, soltanto il pezzo della vicenda necessaria a spiegare la genesi de La scuola dell’odio e, nei fatti, coincide con la pubblicazione del libro, avvenuta per la prima volta nel 1980 grazie all’iniziativa della casa editrice milanese La Pietra. Guidata dall’ex partigiano Enzo Nizza, nome di battaglia «La Pietra», l’etichetta con cui uscì La scuola dell’odio è essa stessa frutto di una riflessione culturale e politica che, complice lo stretto rapporto tra Nizza e il «massimalista» Pietro Secchia, avrebbe abbracciato in un solo catalogo libri dedicati alla guerra partigiana e alle esperienze delle lotte di liberazione dei popoli oppressi.

L’eredità resistenziale e anticolonialista di Secchia, morto nel 1973, considerata la lungimiranza del partigiano piemontese ma anche le sue posizioni, con il tempo sempre più eretiche rispetto alla linea ufficiale del Partito Comunista prima di Togliatti e poi di Amendola, potrebbe e dovrebbe essere riscoperta e problematicizzata proprio a partire dalla pubblicazione di un testo come La scuola dell’odio in quella che fu la «sua» casa editrice. In quel periodo, tra l’altro, Breguet si trovava a Londra per proseguire gli studi di economia iniziati in carcere. Eppure non è l’arrivo nelle librerie italiane e ticinesi delle memorie dedicate ai suoi sette anni di carcere a salutare l’uscita di scena del militante svizzero. Il nome di Breguet, infatti, torna a circolare già nel 1982 quando, con il nome di battaglia di «Luca», viene arrestato a Parigi insieme a «Lilly», al secolo Magdalena Kopp, compagna di Ilich Ramírez Sánchez e appartenente all’Organizzazione dei Rivoluzionari Internazionali (Ori), la sigla del venezuelano, più conosciuto con il soprannome di «Carlos lo Sciacallo».

Accusato di aver progettato di minare con un’auto-bomba la sede di un giornale libanese, Breguet sconta tre anni e mezzo di prigione ma, dopo di allora, «esce dal giro» e, a parte un avvistamento a Damasco datato 1986, il suo nome non compare più in alcun rapporto, né si torna a parlare di lui sui giornali. Sappiamo solo che ha imparato il mestiere di carpentiere e che si è trasferito nella cittadina greca di Perdika, dove vive con la compagna Carol-Anne e Shona, la loro bambina. Sappiamo anche che transita spesso in Italia: Ancona, infatti, è una tappa obbligata del viaggio che da Perdika conduce in Ticino; e anche il 10 novembre del 1995 Breguet si trova nel capoluogo marchigiano quando, per quello che sembra un banale controllo dei documenti, l’ex membro del Fronte viene fermato mentre scende dal «Lato», il traghetto greco proveniente da Igoumenitsa. Fino a qui, nulla di strano:

Un breve controllo alla frontiera e Bréguet potrà ripartire con la sua famiglia verso la Svizzera. Lo fa ogni cambio di stagione, ma questa volta è diverso. I doganieri italiani lo fermano, lo tempestano di domande: sospettano che stia trasportando un carico d’armi. Gli chiedono di aprire il portabagagli, perquisiscono la macchina, frugano dappertutto; ma non trovano niente. «Lei è persona non gradita sul suolo italiano», gli dice un agente. «La sua famiglia può proseguire, lei invece non può passare». Bréguet riesce comunque a fare una telefonata. Chiama suo fratello a Lugano, gli spiega la situazione. Non è la prima volta che, arrivato alla frontiera italiana, viene respinto. Gli era già successo l’anno prima. Un bel fastidio, certo, ma niente di grave. «Se non avete mie notizie nel giro di tre o quattro giorni, significa che ci sono problemi», dice prima di riattaccare. Viene quindi imbarcato nuovamente sul «Lato» e rispedito in Grecia (Emanuele Midolo, La scomparsa di Bruno Breguet, «Agoravox.it», 8 marzo 2012).

Sarebbe stata, questa, l’ultima volta in cui viene visto Bruno Breguet. Lo stesso capitano del «Lato», pur affermando che il ticinese si trovava effettivamente sulla sua nave fino a poco prima dell’approdo, non riesce a capacitarsi della «sparizione» del passeggero. E infatti bisogna aspettare almeno fino al 2001 affinché, dopo un ritrovamento di ossa umane avvenuto a Drepano, un’altra località greca, si possa almeno ipotizzare che questi resti appartengano proprio a Bruno Breguet. La fosca previsione scoperchia una nuova, inquietante possibilità. Breguet sarebbe: «Deceduto in seguito a una “crisi cardiaca” all’interno di un’installazione militare a Kaposvár, sud dell’ Ungheria. La stessa fonte precisa: niente torture, si è trattato di “un incidente”» (Olimpio Guido, «Caro Obama, notizie su Bruno?», firmato Carlos, lo «Sciacallo», dal «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2009).

Ai margini del mistero, si agitano le acque sporche dei servizi segreti e, senza trovare conferme definitive a nessuna ipotesi, si mette mano a uno scenario in cui trovano posto gli affari francesi in Algeria, la copertura di delicate informazioni rinvenute nella Germania Orientale negli archivi della Stasi, la possibile vendetta postuma dell’israeliano Mossad e un non meglio precisato coinvolgimento della Cia. Proprio all’agenzia statunitense, per esempio, fa riferimento anche Carlos nel 2009, indirizzando al neo-eletto presidente Obama una lettera aperta scritta nel carcere francese in cui sta scontando l’ergastolo: «Se Bruno è ancora vivo liberatelo», chiede il prigioniero al capo della Casa Bianca, «se è morto restituite le sue spoglie».

L’appello di Carlos non passa inosservato. E così il giallo sulla sparizione di Breguet torna di attualità nel 2012, quando Wikileaks inizia a pubblicare un pugno di mail provenienti dagli analisti della Stratfor (http://bit.ly/1F4dvS9), un carteggio in cui i collaboratori della compagnia d’intelligence texana fanno riferimento a uno scenario ancora più complesso, come quello che potrebbe riguardare le situazioni siriane e irachene, già attraversate dal gruppo di Carlos, e rispetto al quale la sparizione di Breguet potrebbe suonare come un avvertimento, affinché chi sa continui a non parlare. Ma a non parlare di cosa?

Anche solo provare a rispondere a questa domanda sarebbe un compito troppo gravoso rispetto a questo testo: una postfazione che saluta il ritorno in libreria de La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Eppure, come il classico messaggio lanciato in mare chiuso dentro una bottiglia, questo libro, a distanza di trentacinque anni rispetto alla sua prima edizione, sembra dirci qualcosa di più ampio rispetto alla terribile situazione vissuta dall’autore nelle prigioni israeliane. Ci dice, per esempio, che la guerra alla Palestina continua più crudele che mai. E ci obbliga a notare come, dalla Libia alla Siria, ciò che fu il socialismo arabo, il «mondo perduto» dal quale ha parlato Bruno Breguet, sia stato sistematicamente travolto dai feticci etnici e religiosi, agitati, con la maldestria degli apprendisti stregoni, dalla politica estera occidentale, indignata soltanto adesso per l’avvento della bandiera nera dello Stato Islamico: quell’Isis, Is o Isil che, a mo’ di nemesi storica, arriva a radicalizzare quelle stesse linee etniche e religiose sistematicamente preferite a Ovest di Raqqa, la capitale del Califfato, ai frutti di libertà e di uguaglianza offerti dalla lotta di classe.

Al libro di Brequet va riconosciuto il merito di aver intuito il problema quando questo non esisteva ancora nei termini drammatici di oggi. Se, da questa semplice osservazione, sarà possibile ricavare ulteriori spunti di riflessione rispetto a una realtà che certamente non è più quella del 1977 spetta ai lettori giudicarlo.

a.odiolibro_10491253_668492393256029_4414858388109203167_nPostfazione al volume La scuola dell’odio. Sette anni nelle prigioni israeliane di Bruno Breguet, a cura di Cristiano Armati (Red Star Press, 2015)

La strada. Il luogo in cui le uniche storie che meritano di essere raccontate vedono la luce

La Red Star Press rassicura i lettori e li ringrazia per la solidarietà
Intervenuto, insieme a centinaia di altri compagni e compagne, in difesa delle circa 200 famiglie che il 7 aprile avevano occupato uno stabile abbandonato alla Montagnola (Roma), Cristiano Armati, direttore editoriale della Red Star Press, ha subito la carica della polizia riportando ferite (commozione celebrale suturata con sette punti e frattura dell’ulna) giudicate guaribili in trenta giorni.

a,manganelli.armatiTutta la redazione ne approfitta per ringraziare i tantissimi che, nel corso della giornata di ieri, si sono rivolti alla casa editrice per informarsi sullo stato di salute di Armati e per esprimere la loro solidarietà. Armati sta bene e neppure il gesso riesce a tenerlo lontano dalla tastiera e/o dalla strada, il luogo in cui le storie più belle, da sempre, vedono la luce.
Per questo rassicuriamo i nostri lettori, i prossimi volumi della Red Star – “Teppa” di Valerio Marchi e “Un fiore che non muore. La voce delle donne nella Resistenza” a cura di Ilenia Rossini – andranno in tipografia nei tempi previsti e saranno disponibili a partire dai primi giorni di maggio.