Il discorso della Montagna e la parabola del sassolino: lo sgombero della Ex Telecom di Bologna nel contesto della nuova guerra civile italiana.

Lo conoscono tutti il discorso della Montagna. Se ne sta lì da duemila anni, conservato tra le pagine dei Vangeli, uno dei best seller della letteratura religiosa di ogni tempo e paese.

Non che sia tanto più giovane, ma, affidato a una storia orale conosciuta prevalentemente da chi subisce il problema, il tema dell’emergenza abitativa, insieme alla sua sorella prediletta, la lotta per la casa, non ha mai goduto della stessa popolarità accordata agli evangelisti; né, nel nome dell’emergenza abitativa o della lotta per la casa, c’è mai stato qualcuno che, protetto dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, si sia mai segnato il petto o mormorato parole di buona volontà.

Come mai?

La risposta è tra le ultime parole dei passi evangelici, quando, dopo aver promesso ai protagonisti del discorso – cioè ai poveri – la consolazione degli afflitti, la riparazione dei torti e il ristoro dalla fame e dalla sete di giustizia, s’indica con fare estatico l’orizzonte, per affermare che devono starsene tranquilli questi benedetti poveri, considerando che tanto finiranno per ereditare il regno dei cieli.

Ora, la pazienza sarà anche la virtù dei forti, ma mentre i forti continueranno a fare tutte le prove utili a capire se davvero sia più facile far passare un cammello per la cruna di un ago piuttosto che mandare un ricco in paradiso, accade che i poveri il regno dei cieli lo mettano un attimo da parte, per risolvere QUI e ORA i loro problemi, a cominciare proprio dal quello della casa.

Cos’altro dire su questo argomento? Che i prezzi degli affitti sono ormai ovunque superiori a quelli di un salario medio?Che, costretti a sopportare il peso di una crisi economica senza precedenti, il problema del reddito è diventato questione di pura sopravvivenza per numeri enormi di persone? O, piuttosto, serve dimostrare per l’ennesima volta come il meccanismo in grado di produrre tante case senza gente insieme a tanta gente senza casa sia il frutto di una precisa volontà speculativa e criminale organica al concetto stesso di “libero mercato”?

Toccando il problema delle abitazioni, c’è chi si appella ai diritti umani, ricordando come nei relativi documenti si parli esplicitamente di diritto alla casa, e chi, Costituzione alla mano, sottolinea il passaggio (già, è incredibile ma esiste…) in cui la stessa proprietà privata potrebbe e dovrebbe essere messa in discussione quando la sua concentrazione nuoce ai diritti della collettività.

Le parole, però, per quanto possano essere belle, suggestive, emozionanti, restano parole. E quando si parla di casa, invece, c’è bisogno di fatti. Proprio per questa ragione i Movimenti per il Diritto all’Abitare hanno sempre affrontato la questione del problema-casa dal punto di vista della sua SOLUZIONE. E l’unica, vera soluzione per le famiglia che stanno dormendo in macchine abbandonate, sulle panchine dei parchi o in ricoveri fortuna è quella dell’occupazione abitativa. In altre parole: la requisizione immediata di qualunque stabile lasciato in stato di abbandono per questioni meramente speculative o, sul fronte della proprietà pubblica, per favorire progetti di privatizzazione spinti dai comitati d’affari grazie all’uso disinvolto e normale dello strumento della corruzione.

Grazie a una massiccia ondata di occupazioni abitative, in questi ultimi anni, neppure si contano le famiglie messe in grado non soltanto di uscire da uno stato di assoluta indigenza, ma anche di articolare – attraverso i fatti e per mezzo di spettacolari azioni di protesta – un progetto politico alternativo rispetto all’esistente e, per questo, implicitamente ed esplicitamente schierato lungo la linea di un fronte su cui si stanno combattendo le prime, cruente battaglie di ciò che scegliamo di chiamare la nuova guerra civile italiana.

Blindati in via Fioravanti

Citando il vecchio Philip K. Dick, facciamo notare che scegliamo di chiamare realtà «quella cosa che se smetti di crederci non svanisce» e, liquidando come superflue le possibili obiezioni sulla scelta di una definizione come quella di «guerra civile», eventualmente troppo dura, torniamo a dare la parola ai fatti, iniziando dall’alba del 20 ottobre, quando uno squadrone di blindati ha scariolato davanti a uno stabile di via Fioravanti, a Bologna, un esercito di celerini con il casco, il manganello e la divisa blu.

Cosa si nascondeva dentro il palazzo velocemente circondato? Forse una terribile banda di rapinatori? Una congrega di mafiosi? O, magari, uno dei tanti raduni di politici corrotti?

Naturalmente niente di tutto questo. In via Fioravanti, nei vecchi uffici della Ex Telecom, vivevano semplicemente 280 persone: donne, uomini, vecchi e bambini; persone comuni e, proprio per questo, straordinarie nel momento in cui, di fronte alle difficoltà, avevano scelto di non considerare la propria condizione di indigenza come una «colpa», ma come la conseguenza di precisi rapporti sociali: un dramma collettivo da trasformare in opportunità grazie all’occupazione.

Grazie a questo, la Ex Telecom si è trasformato in una casa. Anzi, in un esempio nuovo e migliore di come sia possibile abitare un luogo: con la capacità di amalgamare 17 diverse nazionalità in un unico popolo di complici e di solidali, protagonisti della propria vita così come della politica cittadina e italiana, sempre pronti a mettersi in viaggio per le strade di Bologna come per le piazze di tutta Italia nell’ambito di un disegno condiviso a ogni latitudine della Penisola: il disegno di una casa e di un reddito per tutte e tutti.

La polizia, da questo punto di vista, non ha sentito né poteva sentire ragioni. Ha colto il dato eminentemente politico della lotta per la casa e, sostituendosi alla politica propriamente detta, ha proceduto violentemente allo sgombero. O almeno ci ha provato. Perché mentre il sindaco di Bologna scaricava sulla Questura la responsabilità di una simile scelta e mentre, dallo stesso palazzo comunale, diviso dalla Ex Telecom soltanto da un lato di strada, l’assessora Frascaroli dava spettacolo della sua inutilità osservando inerme, inetta e dunque complice le operazioni in corsa, insieme a tutto il popolo della Ex Telecom insorgeva l’intera città delle Due Torri, o perlomeno la sua parte degna.

Amelia Frascaroli osserva lo sgombero della Ex Telecom

Intendiamoci, i celerini hanno immediatamente provveduto a sporcare di sangue i marciapiedi di via Fioravanti, caricando brutalmente il primo gruppo di sodali intervenuto per bloccare lo sgombero. Poi la strada poliziesca si è fatta più dura e via Fioravanti è diventata con il passare dei minuti il centro di un mondo inesorabilmente schierato dall’altra parte della barricata rispetto a quello dei mandanti materiali e morali delle operazioni. Ecco, allora, che mentre il flex della polizia apriva le porte e mentre gli uomini (?) in divisa facevano irruzione, la resistenza degli occupanti scriveva le sue pagine eroiche, regalando a chi continua a opporsi all’abominio di una società mercificata speranze e sogni che qualcuno ha avuto la colpa di credere perduti.

Contro le mani rapaci degli sbirri, per esempio, c’è stata la determinazione di un bambino di sette o otto anni, capace di scalciare con tutte le sue forze, mentre dentro si continuavano a battere coperchi e a gridare contro gli infami.

Perché chiamiamo infami le divise che hanno sgomberato?

Danger: il manganello personalizzatoUsiamo questo termine perché sono stati molto lontani dall’interpretare “tecnicamente” il triste ruolo a cui sono condannati: lo hanno fatto, al contrario, con un sadismo che ha dello psicopatico e andando oltre qualunque regolamento di polizia. A testimoniarlo, se non dovesse bastare la signora a cui, all’interno della Ex Telecom, è stata spaccata a calci la mascella, un particolare inquietante: gli adesivi con scritto «danger» che alcuni sbirri portavano appiccicati sui loro manganelli; segnali di un godimento nella repressione capaci di spiegare lo stato di abbrutimento psichiatrico raggiunto dalla forze dell’ordine, evidentemente sulla scia di precise istruzioni e di un altrettanto puntuale addestramento. O, osservando le cose da un’altra prospettiva,Born to kill da "Full Metal Jacket" non meno grave, la personalizzazione delle armi in dotazione al corpo richiama immediatamente le immagini dei soldati statunitensi impegnati, per esempio, in Vietnam: una guerra d’invasione che, all’improvviso, mostra insospettabili analogia con la “guerra contro i poveri” a cui i celerini si stanno dedicando. Ma anche ennesima conferma di un dato di fatto: la polizia ha introiettato l’immagine del civile come nemico.

Bologna, in ogni caso, non è stata a guardare. E alcune apparizioni vanno sottolineate, lodate e analizzate per trarre preziose considerazioni. L’apparizione più bella, probabilmente, è stata quella degli insegnanti dei bambini e delle bambine della Ex Telecom. Non solo per le grida «resisti, ci vediamo a scuola!» con cui hanno incoraggiato i propri allievi occupanti, ma perché hanno insegnato a tutti e a tutte una cosa meravigliosa. Sul fronte della scuola, infatti, uno dei pezzi della cosa pubblica più importanti ed evidentemente proprio per questo più maltrattati nell’ultimo ventennio, molto spesso le richieste di professori e personale non docente sono affogati nella palude della vertenzialità, vittime di una propaganda capace di dipingere come «privilegiato» qualunque lavoratore statale e, più in generale, aggredite e superate dai tanti problemi di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Al contrario, la presenza delle insegnanti sotto la Ex Telecom ha aperto un discorso politico di ampio respiro e spiegato meglio di qualunque comunicato un fatto semplice come un uovo di Colombo, e proprio per questo dirompente: le rivendicazioni di chi lavora nella scuola torneranno popolari nel momento in cui chi lavora nella scuola torna a parlare direttamente a quel popolo che non intende restringere le possibilità dell’istruzione ai soli figli dei ricchi; e nel momento in cui – all’interno di un concetto etico e plurale di scuola pubblica – non finiscono solo le tabelline e le regole grammaticali, ma un principio di ordine superiore: è impossibile parlare di «scuola», e meno che mai di «buona scuola», se i bambini e le bambine non hanno neppure una casa.

Direi che questo è un concetto elementare e proprio per questo esplosivo, lodevolmente afferrato, sotto la Ex Telecom, anche dal nutrito gruppo di studenti e studentesse di medicina accorsi per portare la loro solidarietà agli sgomberati.

Recentemente la casa editrice Rapporti Sociali ha ripubblicato il libro Il bisturi e la spada, la biografia (dimenticata) di un medico canadese, Norman Bethune. Ebbene, pioniere della lotta alla tubercolosi, come rispondeva Bethune alle domande su come curare quel terribile male?

Con un lavoro decente e una casa, rispondeva Bethune: proprio così. Al contrario, in una città come Roma (non conosciamo da questo punto di vista la situazione bolognese), se qualche persona di buona volontà intendesse farsi un giro fuori dai cancelli di qualunque ospedale scoprirebbe orde di pazienti e parenti di pazienti costretti a dormire in macchina in attesa del momento del proprio ricovero o durante i cambi-turno legati all’assistenza di un proprio congiunto: molto spesso di un bambino (se non ci credete fate un salto fuori dal Bambin Gesù…). Ma avete mai sentito un dottore o un infermiere protestare – nel nome della dignità della propria professione – contro un simile stato di cose?

Direi proprio di no. Mentre a Bologna gli studenti di medicina sono stati artefici esattamente di questo tipo di protesta. Hanno portato solidarietà agli sgomberati, certamente, ma non nel nome di un qualche principio pietistico, ma perché il campo dei diritti – che si parli di casa o di salute non fa nessuna differenza – non può essere affrontato a compartimenti stagni. E se si curano gli uomini e le donne per professione e per vocazione è impossibile separare il modo giusto di fare il proprio mestiere dalle condizioni in cui coloro a cui ci si rivolge in quanto pazienti sono costretti a vivere.

Bisogna davvero lodare la presenza degli studenti di medicina di Bologna, dunque, e sono molte le categorie professionali che dovrebbero prendere esempio da loro. Ne citiamo almeno due cominciando dai pompieri: la loro missione è quella di garantire la sicurezza di uomini, cose e animali, per quale motivo dovrebbero essere screditati fino al punto di essere costretti a mettere i propri mezzi e la loro professionalità al servizio degli sgomberi?

La cosa è accaduta molte volte e a Bologna non c’è stata un’eccezione. C’è stata, però, e la cosa va almeno citata, la protesta dell’USB: anche se a Roma, in una precedente occasione, l’organizzazione aveva invitato i pompieri alla disobbedienza civile contro l’uso del corpo nelle operazioni di sgombero, ora a Bologna ci si lamenta di come i vigili del fuoco siano impropriamente utilizzati per compiti di ordine pubblico.

Che di concrete azioni di disobbedienza civile ci sia estremo bisogno è poco ma sicuro. Lo stesso tipo di azioni, e qui veniamo alla seconda categoria professionale chiamata in causa nel corso dello sgombero della Ex Telecom, assolutamente assente, almeno per quello che ci è dato sapere e almeno fino a questo momento, tra gli assistenti sociali. Personale di questo tipo, infatti, ha svolto un ruolo attivo nel corso dello sgombero, ma non certo per difendere i problemi delle persone coinvolte, ma per fiancheggiare le forze dell’ordine proferendo minacce del tipo: «Se non esci di qui ti facciamo togliere tuo figlio».

Lo schifo di un simile atteggiamento è intollerabile. E dopo quanto accaduto a Bologna è l’intero comparto a essere chiamato a un’assunzione di responsabilità per spiegare se quando parliamo di «assistenza sociale» parliamo dei colletti bianchi della repressione o di altro. Nell’attesa dei necessari chiarimenti, resta altissimo il disprezzo, anche perché nella stessa giornata del 20, quando a Roma molte centinaia di occupanti di case solidali con i compagni bolognesi si sono riversati a Porta Pia per manifestare contro lo sgombero della Ex Telecom, lo stesso, identico tipo di frasi erano pronunciate direttamente da poliziotti in borghese: «Ti fotografiamo e poi veniamo a cercarti per toglierti il bambino», dicevano ai manifestanti con figli al seguito.

Ma quando questi stessi bambini, verrebbe da chiedersi, si trovavano con le loro famiglie in mezzo alla strada, dove erano questi solerti tutori dell’ordine, dove erano gli zelanti assistenti sociali e dove gli assessori preposti?

Di sicuro per quei bambini ha fatto molto di più l’orsetto che a Bologna si è visto difendere gli occupanti lottando sulle barricate e, grazie a questo, destinato a conquistarsi un posto importante dell’immaginario antagonista degli anni a venire.

a.orsetto

E non a caso, a proposito del dove erano? rivolto a poliziotti, assistenti sociali e assessori preposti, la risposta istintiva dei manifestanti di Porta Pia è stata:

  • I poliziotti erano dove sono adesso: a garantire i traffici di mafia capitale e gli interessi dei palazzinari a suon di manganelli;
  • Gli assistenti sociali erano dove sono adesso: con il culo sopra una sedia; davvero restii a comprendere che fare il lavoro che fanno dovrebbe significare iniziare a schierarsi compatti dietro a una piattaforma che affermi «casa e reddito per tutt*»;
  • Gli assessori alla casa erano dove sono adesso: con il culo sopra una sedia anche loro, ma con la faccia dentro una mangiatoia foraggiata a destra dai palazzinari e a sinistra dal peloso – e altrettanto palazzinaro – sistema clerical-cooperativistico, quello che gestisce i residence e i centri per i rifugiati e che si pone, dietro compenso, come intermediario tra l’erogazione dei diritti e la massa a cui spetterebbero senza condizioni di sorta.

a.frascaroli2

Per quanto riguarda il 20 ottobre romano, la dose dell’indegnità è stata ulteriormente rincarata ancora dagli stessi tutori dell’ordine, capaci di avvicinarsi agli attivisti più noti per proferire frasi sul genere: «Tanto con te facciamo i conti dopo»; oppure: «Ti veniamo a prendere quando meno te lo aspetti».

«Sì», è stata una delle risposte che si è sentita in piazza, «e portati pure quattro mani, così magari riesci a farmi una pippa»; ma al di là del folklore locale o del coraggio manifestato a Bologna come a Roma e anche ad Alessandria e a Brescia, dove pure ci si è riversati in strada per bloccare il traffico in solidarietà con gli sgomberati della Ex Telecom, l’atteggiamento «cileno» della polizia dovrebbe spingere alla disperazione anche i «sinceri democratici» e indurre gli osservatori a capire come tra il golpe bianco di Renzi e l’insediamento del prefetto Gabrielli come sostituto dell’incapace sindaco Marino si sia consumata l’occupazione poliziesca degli spazi di mediazione politica, ormai completamente azzerati.

Oggi più che mai, quindi, affermare che «i diritti si conquistano a spinta», non significa estendere alla società intera il felice slogan coniato dai lavoratori della logistica nel corso di mille picchetti davanti alle fabbriche del loro sfruttamento, ma cercare di mettere in pratica un sano esercizio di realismo morale e politico. Ancora da Bologna, da questo punto di vista, arriva un segnale importante e riguarda intellettuali ancora in grado di agire in quanto «organici». Accanto al nome di Zerocalcare, che da sempre lega il suo tratto alla storia dei movimenti conflittuali e che anche questa volta non ha fatto mancare la sua interpretazione iconografica di quanto accaduto, segnaliamo la puntuale vignetta di Be Folko e sopratutto il prezioso contributo del collettivo Wu Ming, presente in piazza accanto agli occupanti e protagonista di una cronaca-fume degli eventi in corso.

Questi contributi sono ancora più preziosi all’indomani dell’assoluzione di Erri De Luca, processato per essersi espresso a favore degli atti di sabotaggio contro la linea ad Alta Velocità; sono preziosi perché mettono in discussione il processo di disumanizzazione a cui da anni sono soggetti i protagonisti dei movimenti per il diritto all’abitare; sono preziosi perché in controtendenza rispetto alle gravissime responsabilità di organi di stampa come «la Repubblica», il «Corriere della Sera» e «il Resto del Carlino», immediatamente pronti a silenziare o a diffamare gli eventi (lo hanno sempre fatto, continueranno a farlo: «giornalista / terrorista» non è uno sologan, è una fotografia…); sono preziosi, perché sull’esempio delle insegnanti offrono la possibilità di impostare un discorso sulla cultura davvero popolare (dovrebbe farci un pensiero chi, in questi giorni, si trova colpito dai feroci tagli di Franceschini ai teatri…) in quanto capace di partire dal presupposto “cosa me ne faccio di un libro se non ho nemmeno una casa”; sono preziosi perché si muovono su un crinale dove le parole sussistono dentro le azioni e perché non bisogna dimenticare almeno altre due cose accadute il 20 ottobre:

Si potrebbe chiosare quest’ultima notizia affermando come nessuno dei fascisti che volevano uccidere Emilio sia mai entrato in carcera, ma sarebbero altre parole gettate al vento: Zerocalcare per Degage«La guerra la fate soltanto a noi», aveva scritto Zerocalcare quando si era trattato di fare i conti con lo sgombero di Degage, probabilmente la “madre” di questa ondata di sgomberi; e l’affermazione resta vera: si può toccare con mano ed è sotto gli occhi di tutte e di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutte e di tutti l’attacco scagliato contro i movimenti antagonisti: contro, cioè, un’area che rifiuta le mediazioni al ribasso e che legittima giorno dopo giorno l’azione diretta e la riappropriazione come pratiche utili al necessario riscatto popolare. Occupare case, lottare contro la linea ad Alta Velocità, rifiutare trivelle, discariche, impianti militari e gasdotti o essere protagonisti dell’antifascismo militante e della riappropriazione diretta e indiretta di reddito sono l’equivalente contemporaneo di ciò che è stato in passato la lotta contro la schiavitù: pratiche considerate illegali, represse con il sostegno di tutti i poteri forti, eppure irrimediabilmente giuste.

Pisa: il poliziotto con la pistola alla Ex GeaQuesto è il versante della nuova guerra civile italiana: un territorio dove, è accaduto il 23 ottobre nel corso delle operazioni di sgombero della ExGea, a Pisa, la polizia si permette di fare irruzione con le pistole spianate (un fatto gravissimo e a proposito del quale è lecito chiedersi: quando ci scapperà il morto?); o dove, come a Roma, il 16 ottobre, uno spazio pubblico come quello universitario viene privatizzato a uso e consumo di una ridicola fiera delle multinazionali delle nuove tecnologie e si finisce per imporre un biglietto d’ingresso persino agli studenti a cui quella stessa università impone tasse sempre più alte, anche grazie all’ennesima creatura di Renzi: il nuovo Isee, un astruso sistema di calcolo capace di trasformare i poveri in ricchi dal punto di vista delle imposte, contribuendo così alla distruzione degli ultimi brandelli di welfare ancora esistenti. Inutile specificare, a questo proposito, che gli studenti romani sono stati caricati, picchiati, arrestati e attaccanti con l’idrante.

Né sorte migliore è toccata, nel pomeriggio del 20, a chi è sceso in piazza a Porta Pia: inginocchiati l’uno accanto all’altro, gli occupanti romani hanno opposto una determinata difesa passiva su cui si è accanita la nuova macchina dell’acqua ad alta pressione, capace non solo di sparare un potente getto direzionale ad altezza d’uomo, ma anche di muoversi producendo getti bassi, evidentemente progettati allo scopo di forzare simili blocchi. La grottesca somiglianza di questo tipo di idrante-blindato alla tradizionale motospazzatrice ha fatto scattare nella testa degli occupanti un’evidente analogia: «Ci stanno trattando come spazzatura», è stata l’impressione che è iniziata a serpeggiare sulla piazza; e la risposta a chi vuole trasformare uomini e donne in oggetti da buttare è stata effettivamente all’altezza della situazione in termini di coraggio e di determinazione; ma anche costosa in termini di feriti: due donne, lavoratrici e madri di bambini, una anche incinta, sono state portate via in ambulanza con diverse fratture provocate dalle cariche.

Purtroppo la cronaca di queste giornate non si esaurisce con i soli fatti di Bologna, Roma, Brescia o Alessandria, perché a Torino, il 22 ottobre, con la Ex Telecom ancora impegnata a sostenere la lotta che pretende l’assegnazione di una casa popolare a tutti i nuclei familiari sgomberati, la polizia attacca di nuovo i movimenti per il diritto all’abitare, facendo irruzione in una palazzina in via Collegno ma producendo, insieme allo sgombero, l’apertura di una nuova vertenza, con le famiglie che si asserragliano nella circoscrizione, decise a pretendere l’alloggio popolare a cui hanno diritto o a occupare ancora!

Un nuovo stabile, d’altro canto, viene occupato a Parma il 24: finalmente una bella notizia; la conferma che l’onda lunga inaugurata dal grande corteo del 19 ottobre 2013, quando centomila persone sfilarono nella capitale dietro lo striscione «una sola grande opera: casa e reddito per tutt*», sta continuando a camminare, con un’unità di intenti maggiore del passato e, come ha dimostrato Bologna, anche con la capacità di istituire i termini di un dibattito pubblico in grado di riscoprire la possibilità di essere veramente parte di un movimento reale che cambia lo stato di cose presenti. Che cosa hanno affermato, in fondo, le «tesi di settembre», vale a dire il documento conclusivo dell’intensa quattro giorni di «Sfidiamo il Presente», momento di assemblea e incontro delle lotte italiane autorganizzate?

«Senza aspettare che una promessa di cambiamento piova improvvisamente dal cielo, ora è il tempo di agire, di prendere in mano il nostro destino, facendo in modo che le nostre stesse vite diventino minaccia», c’è scritto sul documento conclusivo. E puntuale, una simile minaccia si è fatta vedere ancora il 24 ottobre, quando tra Palermo, in solidarietà con gli arresti per i fatti di Cremona, a Roma e a Bologna sono state migliaia le persone scese in piazza, con le grida “tutte libere, tutti liberi”, bandiere rosse «stop sfratti e sgomberi» al vento e grandi striscioni con la parola d’ordine «prima i poveri», già pronta ad affermarsi nel corso di quello che si preannuncia come un nuovo ciclo di lotte.

Di fronte alla montagna dell’ingiustizia, in realtà, non c’è discorso che tenga. Ci sono, piuttosto, i tanti sassolini delle lotte, determinati a inceppare gli ingranaggi del neoliberismo o comunque capaci di scivolare lungo il crinale di una società atomizzata per tornare ad aggregare, e quindi a ricomporre in una classe, le energie degli esclusi, degli ultimi, dei proletari e dei sottoproletari, dei precari, dei disoccupati, delle partita IVA incapienti, dei working poor e di qualunque altra categoria sia riconducibile, con qualunque tipo di lessico, all’universo degli sfruttati. Ce n’è abbastanza per trasformare il Vangelo in un Manifesto e per passare dal Discorso della Montagna a una più edificante “parabola del sassolino”, concludendo dunque con le parole del poeta Tasos Livaditis: beati coloro che non hanno nulla, perché stanno venendo a prendersi il mondo. Altro che regno dei cieli.

Ex Telecom Bologna: resistere si può, vincere bisogna

Un bambino piccolo, usando le piccole dita della sua mano, non sarebbe stato più capace di tenere il conto: Uno, dieci, cento blindati, questa mattina all’alba, hanno invaso via Fioravanti, dietro la stazione di Bologna ed esattamente di fronte agli uffici del Comune. Armati di tutto punto, gli uomini e le donne delle forze dell’ordine sono scesi dagli automezzi e hanno immediatamente circondato il palazzo della Ex Telecom, un luogo già abbandonato ma che dallo scorso dicembre trecento persone hanno iniziato a chiamare “casa”. Questo è il numero delle persone che vivono in quel luogo: una delle più grandi occupazioni abitative italiane, ma anche una delle più vivaci. Perché come in ogni casa che si rispetti, sotto quel tetto non ci si è riparati soltanto dal freddo e dalla pioggia, ma è stata costruita solidarietà, rispetto reciproco, vera integrazione culturale e possibilità concrete di riscatto per chi è stato derubato di ogni cosa ma che, a partire dalla Ex Telecom, ha potuto rialzare la testa, sfidare un presente di soprusi e umiliazioni e tornare a progettare un futuro. Oh, se solo si potesse contare l’amore da cui l’Ex Telecom è stata avvolta! I cento blindati bolognesi sarebbero immediatamente spazzati via. Un intero esercito non avrebbe il valore di una singola storia tra le moltitudini che hanno visto protagonisti gli occupanti e le occupanti della Ex Telecom. Ne racconto una soltanto, perché sarà abbastanza. La storia di una giovane coppia marocchina. Lei aspetta un bambino. Passano i giorni, ma il piccolo ha fretta. Forse vuole conoscere i tanti amichetti e le tante amichette – nella Ex Telecom ci sono un centinaio di bambini – che lo aspettano lì, nel grande piazzale interno ai vecchi uffici abbiandonati. Fatto sta che il bambino spinge e una notte, all’improvviso, alla mamma si rompono le acque… il bambino sta nascendo!

Il giovane papà si spaventa, la mamma non sa bene che fare… in Marocco, però, c’è un’altra mamma, la nonna, che i suoi figli li ha partoriti in casa. E se l’ambulanza, chiamata, ritarda, la sapienza popolare supera il mare: si fa così e così, ordina la nonna da Casablanca. E un manipolo di donne dell’occupazione, nate in ogni continente, si trasforma in ostetriche esperte sotto la guida della nonna marocchina: mettono a bollire l’acqua e preparano gli asciugamani… proprio come si vede nei film. Il piccolo nasce nella nuova casa occupata, tra le grida di gioia e le lacrime d’emozione di tutta la Ex Telecom: quando arrivano i medici possono solo dire che sta bene e che tutto, compreso il taglio del cordone, è stato fatto alla perfezione. Quel bambino, in questo momento è lì, in quel palazzo: gli uomini e le donne in divisa non vogliono che cresca libero e felice, non lo vuole il Pd locale né il Pd nazionale, non lo vuole la prefettura, non lo vuole la questura e non lo vogliono nemmeno i tanti leoni da tastiera, abituati a pontificare ma incapaci di agire.

Questa mattina, alla Ex Telecom di via Fioravanti la polizia e i carabinieri stanno sputando su ciò che esiste di più sacro. Una comunità di vita e di lotta che ha sovvertito la regola delle tante case senza gente e della tanta gente senza casa. Quella gente, la nostra gente, è stata già caricata diverse volte in via Fioravanti: ci sono molti feriti, c’è il sangue che cola sull’asfalto, eppure si sta resistendo.

LA EX TELECOM NON HA NESSUNA INTENZIONE DI ABBANDONARE LA LOTTA

La cosa più schifosa, insieme agli assessori del partito democratico che assistono allo scempio dalle finestre dell’edificio Comunale (vergognatevi di esistere!) è, forse, la vista degli assistenti sociali che stanno minacciando madri e padri: sono pronti a togliere i figli a chi resiste; ma non lo permetteremo ma, non staremo a guardare un simile abominio.

In tutta Italia, di fronte alla Ex Telecom, vogliamo piangere le stesse lacrime di gioia e di emozione che abbiamo pianto quando abbiamo saputo del parto assistito dalla telefonata dal Marocco. La gioia che vogliamo piangere è quella di una resistenza capace di durare un minuto in più del nostro nemico e l’emozione, allora, sarà quella di un nuovo inizio: non più una difesa, ma un clamoroso attacco alla riconquista di tutti i diritti. Una casa in cui vivere, un lavoro dignitoso, una scuola piena di colori, una sanità aperta a tutti e a tutte. Questa è la partita che si sta giocando in questo momento a Bologna, e allora: perché state ancora leggendo questo pezzo?

ECCO COME SI STA RESISTENDO ALLA EX TELECOM

Se siamo ancora capaci di farci stringere il cuore e di sentire un briciolo di indignazione non diamola vinta alle forze del male, non lasciamo soli le mamme e i papà di Bologna insieme ai mostri: lasciamo il lavoro, usciamo dalle case, riversiamoci nelle strade!!! A Bologna il presidio dei sodali cresce di minuto in minuto e la granitica certezza delle forze dell’ordine si incrina: oggi non si passa, dicono le bandiere degli occupanti saliti sul tetto decisi a restare lì. Oggi non si passa dicono le signore che sbattono sui muri i coperchi delle pentole. Oggi non si passa dicono i bambini e persino le loro maestre e i loro maestri, i Partigiani della Scuola Pubblica, accorsi sul posto.

In tante città italiane, sono stati chiamati presidi di solidarietà, punti di raccolta decisi a scongiurare questa ennesima infamia: da Alessandria a Palermo, da Brescia a Roma, dove i sodali del movimento per il diritto all’abitare hanno fissato una manifestazione per le 17, a Porta Pia, sotto le finestre di Del Rio, uomo forte di Renzi nonché ministro attualmente responsabile della grave crisi degli alloggi in Italia.

Oggi è una di quelle giornate dove la storia accelera la sua corsa, vibrando dalla voglia di essere scritta, non con le parole, ma con i corpi di chi sceglierà di stare dalla parte giusta.

Oggi è una di quelle giornate in cui la sinistra italiana è chiamata a dire “io c’ero” mentre, delle guardie e dei loro padroni in doppiopetto, bisogna che a fine serata si possa dire “non ci sono più”.

Perché oggi alla Ex Telecom e con la Ex Telecom, simbolo di tutte le occupazioni abitative italiane, è necessario dimostrare che l’alta velocità in Val di Susa non la vogliamo, che le trivellazioni nell’Adriatico devono cessare, che le esercitazioni militari in Sardegna non hanno ragione di essere, che gli impianti Nato in Sicilia vanno smantellati, che i rifugiati sono i benvenuti e che l’unico posto in cui possono rifugiarsi fascisti, razzisti e uomini di Renzi si trova fuori dalla storia, al di fuori di qualunque umanità. Per questo alla Ex Telecom resistere si può, ma vincere bisogna.

TUTT* IN PIAZZA!

a.12096532_447877125413833_7087803181125791190_n

Attenti al cinghiale

Una volta, per i fattacci di cronaca nera, la stampa aveva già bello è pronto il colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica. E questo, immancabilmente, era l’extracomunitario.
Tutti ricorderanno ancora, tanto per fare un esempio eclatante, quanto accaduto a Novi Ligure nel 2001, quando lo sgozzamento di una madre di famiglia e di suo figlio fece immediatamente scattare una caccia all’albanese… salvo scoprire poi che, ad uccidere a coltellate la mamma e il figlio era stata la giovane Erika, cioè la figlia e la sorella delle vittime, insieme ad Omar, il suo fidanzatino.
Alla stessa maniera, ad Erba, in provincia di Como, lo sterminio avvenuto a colpi di spranga e di coltello di un’intera famiglia, cane compreso, fu immediatamente addossato a Azouz, “colpevole” principalmente di essere tunisino. Solo in un secondo tempo si decise di accettare la realtà per quello che era, e di riconoscere gli autori della strage negli italianissimi Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi: una placida coppia di mezza età, “tranquilla” come possono esserlo in tante.
La macabra lista che stiamo compilando, in ogni caso, potrebbe essere allungata, e davvero di molto. L’elemento di novità rispetto all’oggi, però, sta nel salutare il rientro nella lunga lista dei “folks devil” – cioè in quelle categorie sociale stereotipate appositamente per scaricare su chi vi viene inserito le colpe di qualunque male – di un elemento che si credeva dimenticato tra le pagine di un bestiario medioevale, quando si gridava terrorizzati al pericolo incarnato da caproni con il tronco umano, lupi e draghi capaci di volare e di sputare fiamme. Ebbene, ai nostri giorni, all’extracomunitario, al tossicodipendente, al militante politico e all’ultrà, tanto per nominare un po’ di categorie buone per far scattare cacce alle streghe e invocare leggi speciali, si aggiunge un simpatico mammifero dotato di zanne e di orgoglio da vendere, appartenente alla famiglia degli ungolati e comunemente noto con il nome di “cinghiale”.
Come sempre, quando si ha la coscienza sporca, le persone “per bene” non si accontentano di aver distrutto interi territori, devastato gli habitat naturali e lasciato al degrado e all’abbandono porzioni di città già edificate per fini meramente speculativi. Ora, essendo che il cinghiale non intende lasciarsi estinguere tanto facilmente, gridano al pericolo e sostengono che quella dei cinghiali è una questione di “ordine pubblico”.
Bene, gli autonomi che, dalla Val Susa a Niscemi, assaltano le reti dei cantieri delle grandi opere inutili e dannose o gli ultrà ancora impegnati a fronteggiare i battaglioni della celere, per non parlare dei rifugiati che travolgono i confini, da oggi hanno un alleato in più: il cinghiale.
E non è certo un alleato di poco conto se si tiene conto del curriculum mitologico ed etologico di questo essere potente e meraviglioso. Un animale bellissimo che intanto, dalle parti di Frosinone, ha già avuto bisogno di trovarsi un bravo avvocato. A Ferentino, infatti, alla notizia del ritrovamento di un cadavere con ferite “sospette”, si è subito gridato “è stato un cinghiale! è stato un cinghiale!”.
Peccato solo che ancora non risulta che il re dei boschi abbia l’abitudine di utilizzare un fucile a pallettoni contro le sue prede!
E peccato anche che, anziché operare una quanto mai opportuna messa in discussione dei rapporti tra uomo (cioè tra imprese devastatrici e nocive) e ambiente, si stia invocando il massacro dei cinghiali, con la Coldiretti che, per il 29 settembre, ha addirittura convocato una manifestazione a Roma per protestare contro questi animali e dei danni di cui sarebbero responsabili. Asserzione che, priva di qualunque retroterra analitico rispetto alle modalità di sfruttamento di campi e boschi, non suona poi troppo diversa dalle frasi con cui si ricorda sempre che “gli stranieri ci rubano il lavoro”.
Intanto, mentre a Ferentino si è stati costretti ad ammettere che l’autore dell’omicidio, pur essendo ancora ignoto, non appartiene di certo alla famiglia degli ungulati, alle folle di benpensanti abituati a imboccare sempre la via più corta e comoda per spiegare le ragioni del male da cui siamo circondati, così come a chi è sempre alla caccia del pretesto buono per addossare a un capro espiatorio le storture di un intero sistema: ebbene, a tutta questa razza di ipocriti con la coscienza sporca non resta che dedicare una canzone e un monito. La canzone l’ha scritta Fabrizio De Andrè. Ma il monito è: “attenti al cinghiale!”.

Vota Casamonica!

I coccodrilli già non è che siano una bellezza. Ma quando piangono fanno proprio schifo. E ora che donna Vera Casamonica, insieme al figlio Vittorino, è stata ricevuta con tutti gli onori a “Porta a porta” dal cimbellano Bruno Vespa, gli ultrà della legalità a senso unico, i perbenisti ipocriti, i servi dell’austerità in conto terzi non è che semplicemente piangono: si disperano.
Le ragioni di questa ondata di isterica tristezza, mascherata da indignazione sulle pagine dei giornali, sono semplici. Salita in quel regno dei venditori di fumo e pentole che è la trasmissione di Vespa, Vera Casamonica sbaraglia la concorrenza: parla alla pancia dei telespettatori meglio di qualunque deputato grillino e, soprattutto, si dimostra più brava di Renzi, superando senza fatica il ducetto di Rignano in termini di indici di ascolto (14,56% contro 14,16% è il risultato a favore della famiglia romana), trasformando l’opzione Casamonica in un progetto politico di gran lunga più convincente di quello targato PD.
Con intelligenza, Vera Casamonica ha preso atto della debacle a cui sono andati incontro i referenti governativi che hanno consentito alla famiglia di prosperare nei lunghi anni di Mafia Capitale e, in modo corretto, non ha certamente letto nelle indagini che hanno travolto gli Ozzimo, i Venafro e gli Odevaine (tutti uomini del PD, of course) il sussulto di una giustizia da sempre impegnata a combattere i poveri e a omaggiare i potenti, ma l’esigenza inequivocabile di una ristrutturazione che, a livello Europeo, ha bisogno di razionalizzare e di mettere a valore persino il florido sottobosco di mazzette connaturato al vecchio sistema. Da oggi in poi, questo è quello che ha capito Vera Casamonica, i banchieri, gli sfruttatori e i palazzinari di serie A intendono appropriarsi di qualunque forma di economia sommersa, trasformando – come avviene con strumenti tipo il Jobs Act (e infatti non c’era anche il ministro Poletti alla famosa cena con Buzzi dove presenziavano anche i Casamonica? Sì, c’era…) – ciò che era sempre stato considerato «nero» in sistemi di sfruttamento perfettamente legali, ma del tutto conformi alle modalità del rigore pretese dalla fase attuale.
Di fronte a un simile pericolo, donna Vera ha agito con rigore e, dai funerali di don Vittorio Casamonica fino alla partecipazione a “Porta a porta”, non si è mai preoccupata di dissimulare o, opportunisticamente, di occultare le differenze tra il sistema Casamonica e il mondo garantito dalla politica ufficiale, giustamente convinta di poter trionfare, come di fatto ha trionfato nel salotto di Vespa, nel confronto tra le possibilità offerte dal sistema Mafia e la via antipopolare connaturata al Parlamento e alla intera sovrastruttura ideologica.
Quello che Vera Casamonica afferma tra le righe del suo linguaggio è che oggi la Mafia è l’unica forma di opposizione organizzata alla spietata tecnocrazia europeista, forte di una proposta che, tra cavalli e formiche, è in grado di offrire una modalità credibile di welfare al nulla messo in campo dalle politiche attuali.
Prendiamo per esempio l’inchiesta che, seguita con grande clamore dagli organi di informazione, sta accompagnando il processo pubblico ai Casamonica dopo lo “scandalo” dei funerali di don Vittorio: «Il racket dell’“agenzia Casamonica”», titola oggi il renziano «la Repubblica», parlando della “vergogna” di case popolari controllate dal clan e affittate a 150 euro al mese… come fa una simile affermazione a risultare credibile, a superare in termini di gradimento la proposta di donna Vera quando a Roma i Caltagirone, i Toti o i Parnasi per darti un tetto da mettere sopra la testa della tua famiglia ti chiedono dieci volte di più?
Questi ultimi, tra l’altro, non hanno neppure bisogno degli spezzapollici, perché in caso di insolvenza ricorrono direttamente ai plotoni della celere, che arrivano all’alba nelle casa delle famiglie che hanno perso il lavoro per manganellare, distruggere e buttare in mezzo alla strada gli sfrattati senza alcuna pietà e senza che a livello comunale venga offerta alcuna soluzione alternativa.
Un altro che ha da ridire sui Casamonica è Alfonso Sabella che, in una dichiarazione raccolta da Silvia Fumarola per «la Repubblica» del 10 settembre 2015, accusa: «Dietro la simpatia un po’ burina di Vera Casamonica si celano violenza e prepotenza, un mondo fatto di usura, del dolore di tante vittime…».
E perché, caro (si fa per dire) Sabella, cosa si cela dietro al tuo, di mondo?
Sei l’uomo che ha guidato la repressione durante il G8 di Genova: davvero pensi di poter dire qualcosa di vagamente credibile (o di riscuotere una minima forma di semplice rispetto) con le mani sporche del sangue di Carlo Giuliani, ammazzato in piazza, e di quello versato nella scuola Diaz e a Bolzaneto da centinaia di ragazze e ragazzi, torturati per ore?
Insomma, il confronto tra Vera Casamonica e i suoi accusatori istituzionali è improponibile. Bruno Vespa lo ha evidentemente capito e, con la consueta capacità di offrire i sui servizi al potente di turno, è restato fedele a se stesso, offrendo ai Casamonica la stessa compiacenza già assicurata a Renzi, a Berlusconi e, prima di loro, agli stessi uomini che, da un lato, sedevano in parlamento per discettare di legalità e di rispetto delle istituzioni, mentre poi baciavano in bocca i mafiosi e, di fatto, costruivano lo stesso sistema che oggi permette a Vera Casamonica di rilanciare se stessa sulla scena politica per continuare a essere ciò che è: il terminale violento e corruttivo di uno Stato che appalta alla criminalità forme di controllo e di sfruttamento funzionali al mantenimento di un ordine che la lotta di classe vorrebbe, al contrario, capovolgere e distruggere. Perché se fosse garantito il diritto alla casa popolare, se fosse conquistata una sicurezza sociale poggiata sulle solide basi del lavoro, della sanità e della scuola, se si fermasse la devastazione legata alle grandi opere e ai grandi eventi, è evidente che non ci sarebbe più spazio né per i Casamonica, né per i Caltagirone, né per i Renzi. Di sicuro, all’appello, mancherebbe pure Bruno Vespa. Perché a quanto pare la rivoluzione non ha l’abitudine di andare in diretta televisiva. Figuriamoci a “Porta a porta”.

Democrazia

Questa notte ho sognato la ghigliottina. Dietro di lei faceva la fila tutta la famiglia Windsor, dal signor Carlo fino al piccolo George, con la manina sotto il naso, nel tentativo di sventolare il più lontano possibile la puzza del popolo da cui era attorniato.
C’erano pure Camilla, William, Catherine e sua sorella Pippa. Anche Diana Spencer stava nel mucchio. A lei, in realtà, ci aveva già pensato un tunnel sotto la Senna, ma in fondo era un sogno e quindi nessuno trovava strana la sua presenza lì.
“Vedete,” spiegava alla piccola folla di altezze reali un signore che stringeva tra le mani la corda della grossa lama sospesa sulla cima della ghigliottina, “non esiste che qualcuno nasca con una corona in testa per scroccare sulle spalle di chi lavora per secoli e secoli. Dunque accomodatevi, iniziamo con lei signora Elisabetta?”.
Gli astanti, nell’attesa, coccarde tricolori sui baveri delle giacche e sui cappelli, commentavano pacati: “Era ora, è dal 1789 che si parla a vanvera di democrazia…”.

Il vero problema

Adesso il problema è che QUELLA fotografia fa discutere.
Quando il vero problema è come mai nemmeno QUELLA fotografia fa passare all’azione.
Quando il vero problema è come mai la piena consapevolezza dell’abominio in corso non produca un urto forte abbastanza da spezzare le catene dello sfruttamento e della miseria, annientando i veri autori di QUELLA fotografia.
Ma forse le cose non stanno così, dobbiamo crederlo.
Forse è vero quanto ha scritto Sandro Penna in una sua poesia: “Il mondo che vi pare di catene / tutto è intessuto di armonie profonde”.
Si intitolava Moralisti, la poesia di Penna. E forse parlava proprio di loro. Parlava di chi, dietro QUELLA fotografia, non vede le identiche catene dello sfruttamento e della miseria che ovunque uccidono nel silenzio e che negli occhi dei bambini e dei loro genitori non hanno alcuna paura di seminare sofferenza o umiliazione o morte.
Ma se è così la poesia di Penna parla anche di chi quelle catene prova a spezzarle tutti i giorni, ovunque si trovi, con tutto ciò che ha a sua disposizione.
Ecco. Sono quelle le armonie profonde.
Abbiatene paura, moralisti. Ne sarete svegliati.

Buonanotte piccolo.
Non dimentichiamo.
Non perdoniamo.

Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle piazze? Una riflessione dopo la divisione delle curve dell’Olimpico

Il punto di domanda è d’obbligo considerando come sarà soltanto la realtà ad esprimere la misura e la direzione che assumeranno i fermenti sociali, in Italia come altrove. Di certo, di fronte alla feroce repressione da cui è stato attaccato negli ultimi anni, il movimento ultrà, al di là delle difficoltà – o delle possibilità – insite nell’esprimersi nei suoi confronti in termini unitari, ha spesso condensato la sua voglia di rivalsa nello slogan: «Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade».

Si tratterebbe, a ben vedere, di una sorta di “ritorno alle origini”. Non accadde, infatti, nel corso degli anni Settanta, che una fetta di popolo, spesso schierata a sinistra, iniziasse a trasferire nelle curve valori, nomi, cori e colori tratti direttamente dall’esperienza dell’antagonismo di classe?

E allo stesso modo, non è forse vero che con il passare del tempo pezzi importanti di sinistra salottiera e borghese iniziarono a stigmatizzare gli ultrà, delegittimando e isolando le radici popolari del movimento, fino a consegnare alla destra diversi stadi italiani?

Malgrado questo è innegabile come, anche in una stagione di forte disimpegno e deflusso, proprio negli stadi sia sopravvissuta e sia cresciuta una tendenza forte e organizzata, decisa a muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto ai valori dominanti, incarnati dall’odiosa paytv e sostenuti attraverso misure sul genere della tessera del tifoso, una delle tappe epocali nel percorso di disarticolazione del movimento ultrà, deciso a tavolino dalla politica parlamentare, espressione di precisi comitati d’affari, e dal suo braccio armato: le forze dell’ordine, la magistratura e gli addetti alla disinformazione in campo ideologico (leggi: giornalisti).

In queste settimane, mentre dalla Spagna arriva la notizia di nuove misure di identificazione, come il riconoscimento biometrico (!!!) per l’accesso allo stadio, a Roma, su iniziativa del prefetto Franco Gabrielli, le Curve dell’Olimpico vengono divise in due e durante la partita Roma-Juve la Sud viene profanata con la presenza diretta nel cuore dell’impianto sportivo di un concentramento di truppe degno della vera natura dell’iniziativa: l’occupazione militare di un territorio straniero.

Restando a Roma, dopo lo sgombero dello studentato occupato Degage, il provvedimento preso allo stadio Olimpico – che nel corso dell’ultimo Roma-Juve ha reagito in modo determinato ma non violento alla provocazione – è l’altra e sola iniziativa presa dalla Prefettura dopo aver promesso chissà che cosa in risposta alle polemiche per lo scandalo del faraonico funerale Casamonica: segno evidente di una priorità che può essere definita in tanti modi, ma non certo “legalitaria”.

Che la divisione delle Curve sia l’antipasto dell’avvento di uno stadio “finalmente” ridotto a salotto buono per un pubblico “bene educato”, educato cioè al pagamento senza fiatare di dazi sempre più alti, e alla sua riduzione a semplice tappezzeria per uno spettacolo teletrasmesso, sembra un dato di fatto. E sembra anche, uno spazio come quello dello stadio, telecamerizzato, scomposto, guardato a vista, trasformato in una prigione videosorvegliata e vigilata da personale armato oltre che riservato al teatro di una disciplina pesantemente contrassegnata da malaffare e corruzione, essere diventato particolarmente favorevole all’esercizio della repressione, all’accanimento contro gli episodi di resistenza al calcio moderno: espressione sinonimo di opposizione al modello economico imposto violentemente dal capitalismo imperante a tutto ciò che si muove, a cominciare dalle strutture autorganizzate dal basso e impegnate sul campo della riappropriazione diretta di reddito, case, sogni.

In questo contesto, l’idea di assistere a uno spostamento della lotta “dallo stadio alla strada” è una metafora interessante e tutta da scoprire, un ritorno all’antico che, chissà, verificando l’equazione “no al calcio moderno = no al capitalismo”, potrà realizzare quella che fu l’ultima profezia/invito di un osservatore-protagonista come il compianto Valerio Marchi. Perché, affermava Valerio nella sua Lettera agli ultrà, «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».

(Articolo scritto per Sportpopolare.it – 31 agosto 2015)

Il dito, la luna, il sindacato e la lotta di classe. Note sullo sciopero “per la sicurezza” proclamato da CGIL, CISL e UIL

La storia della luna e del dito è la prima cosa che mi è venuta in mente nel momento in cui decidevo di scrivere questo pezzo. Fonte d’ispirazione è stata la decisione della CGIL, della CISL e della UIL in Toscana che, dopo l’aggressione subita da due ferrovieri delle FS nelle ultime ventiquattro ore, hanno deciso di proclamare per il 29 agosto otto ore di sciopero perché, dichiara Stefano Boni della Fit Cisl, “i ferrovieri hanno paura di andare a lavorare” (vedi “la Repubblica” del 28 agosto 2015, p.21).

Identiche le modalità delle aggressioni a cui si riferisce la decisione di incrociare le braccia. Si parla di calci e pugni sferrati ai controllori da passeggeri senza biglietto. Ed è esattamente a questo proposito che il vecchio adagio della luna e del dito viene in soccorso a chi scrive. Perché è senz’altro un dovere dei sindacati quello di occuparsi delle condizioni materiali di chi lavora e di lottare per il loro miglioramento, ma è davvero aumentando la polizia sui treni e nelle stazioni, come chiedono i sindacati, che si potrà davvero arrivare a parlare di sicurezza?

Il dito direbbe che questo articolo difende i criminali e giustifica atti come quello dell’aggressione a colpi di machete subita a Milano da un capotreno lo scorso 22 giugno o, nel tentativo di osservare il fenomeno dal punto di vista dei passeggeri, lo stupro avvenuto sul regionale Pisa-Livorno lo scorso 11 luglio… tutti discorsi che sarebbe inutile perdere tempo per rigettare alla volgare malafede dei mittenti!

Per fortuna che la luna, almeno in virtù della sua altezza, obbliga ad allargare il campo di osservazione e, senza mistificazioni di sorta, pone in modo preciso una sola domanda: a cosa è dovuto il dilagare degli episodi di violenza degli utenti di autobus e treni ai danni dei dipendenti delle varie aziende del trasporto pubblico?

Credere che questi episodi siano legati agli scarsi controlli di polizia è ridicolo. Al contrario, quello che sta succedendo è che con il dilagare della crisi le scelte diventano sempre più radicali, fino a imporre a una massa crescente di persone il dilemma: mangiare o pagare il biglietto?

Se di sicurezza si parla, insomma, occorre riferirsi alla sicurezza sociale: quella attaccata non con il machete, ma direttamente con i carri armati, dal governo della crisi targato PD, rispetto al quale la CGIL, la CISL e la UIL hanno un problema di complicità che i timidi distinguo pronunciati di tanto in tanto dalla Camusso non aiutano certo a risolvere.

Proviamo ancora a guardare le cose dal punto di vista della luna. Le leggi antipopolari – se non apertamente criminali – volute dalla cricca piddina si sprecano e quali sono state le indicazioni della CGIL, della CISL e della UIL nei confronti di iscritti e di lavoratori?

La risposta è: nessuna.

Mentre con il piano-casa dell’inquisito Maurizio Lupi decine di migliaia di famiglie costrette a scegliere la strada dell’occupazione abitativa vengono private insieme al diritto alla residenza anche del diritto di ricevere cure mediche o di iscrivere i figli a scuola, cosa hanno fatto i dipendenti delle anagrafi?

Fedeli alla consegna governativa, hanno applicato una legge contraria persino al merito della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: quella che individua nella casa un diritto fondamentale della persona. E dai sindacati neppure una parola.

Francamente c’è da essere stupiti dalla mancanza – almeno fino a questo momento – di aggressioni ai danni di dipendenti di circoscrizioni e di uffici comunali, non del loro contrario. E allo stesso modo, parlando di una galoppante e odiosa “guerra tra poveri”, perché adesso che il diritto alla salute è stato annientato dalla nuova “riforma” della sanità, non dovrebbero, per esempio, essere prese d’assalto le farmacie a discapito di chi lavora in questi negozi? Voi sapreste negare, nel nome di una presunta “legalità”, le cure necessarie a vostro figlio o a una persona che amate?

E ora che una semplice multa per divieto di sosta può mettere in discussione il reddito settimanale di una famiglia, sarebbe strano scoprire che il lavoro di ausiliare del traffico sia diventato pericoloso?

Per non parlare degli ufficiali giudiziari incaricati di eseguire gli sfratti: lo andassero a spiegare alla famiglia che sono incaricati di buttare in mezzo alla strada che loro stanno soltanto facendo il proprio lavoro… “ho obbedito agli ordini”, in fondo, (e questo vale per poliziotti, carabinieri eccetera) è già stata la tipica giustificazione di chi si occupava dei campi di concentramento e, “in nome della legge”, torturava persone e compiva stragi.

Si potrebbe andare avanti e parlare dei supermercati, considerando che per un popolo affamato come quello capitato in Italia nel 2015 arrivare a lanciarsi all’assalto di supermercati e simili non dovrebbe essere un particolare problema ed è difficile, in queste condizioni, evitare ulteriori problemi tanto ai cassieri quanto ai guardioni assoldati per svolgere i servizi di protezione aziendale.

Atti simili, in una simile condizione sociale, dovrebbero essere considerati fenomeni naturali alla stregua della pioggia: le nuvole nere sotto le quali stiamo vivendo la annunciano, ma di sicuro non la impediscono. Al contrario, a impedire simili modalità della protesta (non le sue ragioni, sacrosante: da fare proprie a livello ideologico e materiale) potrebbero essere, nell’ordine: un movimento autorganizzato che, dal basso, dia obbiettivi di radicale cambiamento dell’esistente alla giusta necessità di procedere alla riappropriazione di massa (cioè di espropriare gli espropriatori), affiancato da una forza sindacale in grado di guardare davvero alla luna e, quindi, di animare una formidabile stagione di resistenza civile e di sostenere la disobbedienza di quei lavoratori che si rifiuteranno di applicare le misure sempre più impopolari pretese da gente come Renzi e gli altri esponenti del Partito Democratico (portaborse di Sel compresi), chiaramente al servizio dei desiderata di banche e troike varie, non certo del bene comune.

Fuori da questo campo, parlare di “sindacato” in rapporto a CGIL, CISL e UIL diventa complesso. Considerando come già oggi accostare questa parola alla triplice è ai limiti della bestemmia, l’azione di CGIL, CISL e UIL non sembra avere nulla a che fare con quella sicurezza sociale richiesta a gran voce dai lavoratori come dai cittadini tutti. Al contrario, queste sigle sembrano piuttosto partecipi di quell’organismo reazionario di massa che, nel nome della crisi, il Partito Democratico sta cercando di costruire separando un pezzetto di Italia ancora garantita e solvibile da tutto il resto del paese. È notizia di ieri, per esempio, che, dopo essere intervenuto al meeting di Comunione e Liberazione (e dove se no?) Renzi abbia promesso l’abolizione delle tasse sulla prima casa… perfetto: ma chi non ha una casa?

Chi non ha nemmeno una casa sarà preda dell’aumento delle imposte indirette, come il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici, a cui si darà mandato di finanziare lo sgravio proposto ora del governo. Ed è per questo che l’unica battaglia che merita di essere combattuta nel nome della sicurezza sociale è quella per la gratuità dei mezzi di trasporto e dei servizi essenziali (scuola, salute, utenze vitali… sono diritti, non merci!), non certo quella per l’aumento dei controlli di polizia né, tanto meno, quella a favore degli sgravi legati alla rendita immobiliare. Ma è proprio nei termini di questa opposizione che la crisi scolpisce in maniera sempre più netta i lati della barricata in quella che è la natura contemporanea della lotta di classe. Schierati sui lati opposti dell’oppressore e dell’oppresso, il dito e la luna hanno già scelto da che parte stare.

Lo sgombero di Degage: il funerale dei (nostri) diritti

Negli ultimi giorni la scansione dei principali fatti di cronaca, a Roma, si è avvitata su un percorso particolare. Come a quest’ora sanno anche in Alaska, è successo che Don Vittorio ha stirato le zampe (dice che alla morte non gliene freghi un cazzo a come fai di cognome…) e che, per accompagnare la sua dipartita dal pianeta terra, la sua zadruga(*) gli abbia fatto venire da Napoli un cocchio con dodici cavalli, scortato lungo il raccordo anulare da un corteo di duecentocinquanta macchine fino alla chiesa di Don Bosco, dove un elicottero ha sorvolato il corteo funebre inondando la Tuscolana di petali di rose.
Mentre la banda intonava le note dolci-amare de “Il Padrino” e grandi striscioni rendevano omaggio al “re di Roma”, la pomposa scenografia barocca dell’evento funebre iniziava a disturbare i teofori della platonica compostezza occidentale, quella stessa fobia nei confronti dei corpi che, se già nella Grecia antica portava i filosofi a stigmatizzare il pianto straziante delle prefiche, oggi riserva il termine “dignitoso” soltanto per una classe altoborghese che, più che vivere e/o esternare le proprie emozioni, sembra impegnata a infilarsi su per il culo manici di scopa sempre più grossi.
Il discorso è complesso, quello che è sicuro, in ogni caso, è che non importa se sei negro, zingaro od occupante di case: potresti rischiare persino di essere tollerato purché tu viva nella più completa indigenza, portando la tua scodella davanti alla Caritas e interiorizzando il ruolo del poverino, dell’accattone o del “negro da cortile” (così definiva la situazione Malcom X) che i signori abituati a baciare in bocca i boss mafiosi, coloro che gestiscono la cosa pubblica (cioè la cosa loro) e/o i grandi centri per l’emergenza abitativa per conto degli appositi comitati d’affari (quelli a cui appartiene tutto), hanno previsto per te.
Rispetto a simile gentaglia, quelli a cui, come accade all’ex ministro Maurizio Lupi, facoltosi imprenditori non vedono l’ora di regalare massicci orologi d’oro… di fronte a questa piccola massa di fedeli pronti a genuflettersi davanti all’altare della Compagnia delle Opere di Comunione e Liberazione e capace persino di mettere le mani al portafoglio se si tratta di foraggiare, comprando una pagina del Corriere della Sera, l’andazzo del governo Renzi insieme alle sue privatizzazioni (leggi: espropri ai danni del popolo)… ecco, rispetto alla faccia (da culo) di simili personaggi i funerali di Don Vittorio – succede quando il livello di partenza è affine alla disperazione – sono paragonabili a un piacevole refolo di aria fresca, sprigionata dall’ennesima contraddizione in seno alla gestione del potere, questa volta emersa proprio grazie al gusto chiassoso del clan Casamonica, colpito dal lutto per la perdita di Don Vittorio.
A disagio di fronte all’inchino organizzato a Don Bosco, in una chiesa che non manca mai di trasformarsi in comoda garçonnière per chi davvero conta qualcosa, la stessa gestione politico-amministrativa romana e nazionale che ha prodotto, tra le tante altre belle (si fa per dire) cose, il sistema noto come “Mafia Capitale”, ha reagito con feroce durezza: l’elicotterista che ha lanciato i petali sul feretro è stato privato della licenza di volo, al cocchiere hanno sequestrato la livrea mentre i cavalli venivano torchiati per bene, per capire fino a che punto fossero complici dello scandalo…
L’osservazione della realtà dimostra che chi ha la faccia come il culo paga questa sovrabbondanza anatomica con la perdita del senso del ridicolo, niente di più naturale dunque che l’affaire Casamonica andasse avanti… come?
Prima di tutto, naturalmente, iniziando a gridare come ossessi il mantra “legalità! legalità!”… e le urla dovevano avere un tono forzatamente alto, considerando che se di legalità di vuole parlare è difficile farlo avendo negli occhi una famosa fotografia, quella in cui, comodamente seduti al tavolo di un bel ristoranti, pronti a farsi una panza come una capanna, sono accomodati proprio insieme a un illustre esponente del clan Casamonica nell’ordine (e tra gli altri): il ministro del lavoro Giuliano Poletti (quello che con il suo Jobs Act ha deciso che da oggi in poi si lavora gratis), l’ex assessore alla casa del comune di Roma Daniele Ozzimo (indagato per corruzione), l’ex ad di Ama, la compagnia municipale della raccolta dei rifiuti, Franco Panzironi (condannato a cinque anni per la vicenda clientelare di “parentopoli).

A cena con i boss

Tra i commensali, insieme al buon Salvatore Buzzi, uno dei vertici di Mafia Capitale, non poteva mancare un altro indagato eccellente, l’ex sindaco Gianni Alemanno, il numero due di un partito, “Fratelli d’Italia”, la cui leader, Giorgia Meloni, afferma senza problema alcuno: “Il funerale sceneggiata andava semplicemente impedito. Invece fonti del Campidoglio hanno fatto sapere che il Comune “non era al corrente”. Che strano… Nessun cedimento, da parte nostra, contro questa gente ma anche contro chi la spalleggia nelle Istituzioni. Di qualunque colore politico sia”.

Salvatore Buzzi, Luciano Casamonica, Gianni Alemanno

La faccia come il culo, si potrebbe chiosare parafrasando il don Abbondio de “I promessi sposi”, se uno non ce l’ha non se la può dare… allora tanto vale continuare a gridare ancora più forte: “Legalità! Legalità!”.
Lo fa, per esempio, il preposto assessore Alfonso Sabella, dichiarando che il funerale: “Certamente si poteva e si doveva evitare. Se non si è evitato è perché Roma non ha ancora gli anticorpi necessari per comprendere e prevenire cose di questo tipo: l’esistenza della mafia è stata negata fino a pochissimo tempo fa”.


Bolzaneto: Genova non è finitaAlla stessa maniera, si potrebbe far notare a Sabella, che anche le pareti insanguinate di Bolzaneto, dove i suoi uomini, nel corso del G8 genovese del 2001, si abbandonarono, parola di Amnesty International, “alla più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” (e quindi dopo i campi di concentramento di Hitler…), vengono ancora tranquillamente negate. E, strana ironia della sorte, lui è stato nominato addirittura “assessore alla legalità”, mentre altre persone stanno scontando condanne a dieci anni, colpite dalla mirabolante accusa di avere rotto una vetrina…

Il tweet a favore dei molestatori in divisaMiracoli della faccia come il culo unita alla forza del grido di battaglia “legalità! legalità!”, fatto immediatamente proprio anche dal neo assessore ai trasporti Stefano Esposito, uno talmente legalitario da avere difeso a spada tratta le molestie sessuali subite da una ragazza in Val di Susa, un vero e proprio campione, capace di trasformare le connivenze tra amministrazione e il clan Casamonica in un problema di case popolari occupate “abusivamente”: “Entro 15 giorni controlli sugli affitti dati a tutti gli appartenenti alla famiglia”, promette Esposito. Ma non dice affatto chi è che avrebbe concesso queste case: forse per paura di tornare a mostrare gli stessi personaggi (e chissà quali altri nelle stanze dei bottoni…) a cena con Casamonica e immortalati nella foto già citata?
In verità, “del maiale non si butta via niente”, deve aver pensato il legalitario Esposito. A patto di considerate che in tutta questa vicenda il famigerato maiale non rappresenta affatto il tradizionale volto dei governanti, al contrario, il maiale è il corpo vivo del disagio sociale romano: una macchia d’olio sempre più vasta, in grado di avvolgere studenti, disoccupati, precari e sottocupati in una totale assenza di futuro e di costringerli a una vita sempre meno degna in una città come Roma, il luogo dove perfino la speranza di prendere un autobus si trasforma in lotta per il potere, nel senso che davvero soltanto a provare a prendere la metropolitana diventa evidente che dopo mezzo secolo di furti, ritardi e cazzate varie, in questa città o si va a piedi o si fa la rivoluzione…
Del maiale, dunque, non si butta via niente. E allora perché non approfittare dello scandaletto Casamonica per regolare i conti con chi, a Roma come altrove, non ha mai accettato di piegarsi alla rassegnazione di una vita da sfollati e ha reagito con spettacolari prove di riappropriazione collettiva di beni pubblici, occupazioni abitative e organizzazione dal basso di un fermento sociale deciso a continuare a essere quel movimento reale che cambia lo stato di cose presenti?
Infatti, rispetto alla promesso di Esposito, dalle sue dichiarazioni (23 agosto) di giorni ne sono passati solamente due e cosa succede?
Succede che l’indignazione nei confronti dei funerali hollywoodiani di Vittorio Casamonica diventa indignazione contro gli “abusivi” e che, soffiando sulla brace della “legalità”, la prefettura ha finito per muoversi: forse contro qualche politico responsabile degli inciuci con gli stessi Casamonica o di altre peggiori efferatezze?
Certo che no!
Altrimenti a cosa serve la faccia come il culo?


Degage - studentato occupatoLa realtà infatti è proprio questa. Sono stati minacciati il fuoco e le fiamme ma il primo e unico provvedimento preso a Roma dalla Prefettura dopo lo scandalo di quel funerale è stato, questa mattina, all’alba del 25 agosto, lo sgombero dello studentato occupato in via Musa da Degage – Casa per Tutti: quaranta studenti-lavoratori presi di peso insieme alle loro poche cose e buttati in mezzo alla strada, dove sono tutt’ora. Sempre nel nome della “legalità” (c’è nessuno al comune di Roma che si sia speso per il diritto alla studio alla casa? Ovvio che no!).
Ovviamente, per la fregola dello sgombero che ha assalito la Prefettura romana, braccio armato della guerra contro i poveri combattuta con alacrità da Renzi (il prefetto è un suo uomo, non va dimenticato), non è contato assolutamente nulla che: 1) lo stabile di via Musa sia stato inserito alla fine del 2013 in una delibera regionale che si impegnava ad arginare l’emergenza trovando soluzioni – cioè case popolari! – per tutte le occupazioni abitative romane; 2) lo stabile di via Musa sia al centro di una poco chiara operazione di compravendita che ha riguardato la defunta provincia di Roma e il fondo Upside della Paribas (sull’argomento inutile dire che è in corso un’inchiesta della magistratura…).
Seppellita ogni idea di giustizia, dunque (altro che “legalità”), di questa triste mattinata di sgombero, insieme alla convocazione per le 17 di un’assemblea pubblica presso lo spazio “Tre Serrande”, nella città universitaria, a cui spetta il compito di rilanciare la lotta, restano alcune scene memorabili. Un milite che urla “c’è una ragazza nuda! c’è una ragazza nuda!” quando fa irruzione alle sei del mattino in una stanza dello studentato occupato (lui dorme forse con il cappotto ad agosto?); un ambulanza che arriva per ricoverare al policlinico un ragazzo collassato per lo shock dello sgombero; alcuni giovani classificati come “extracomunitari” e attualmente a rischio CIE per irregolarità nel permesso di soggiorno; la paura di chi a Roma è espulso da qualunque idea di mercato in rapporto al diritto alla casa e ora ha davanti agli occhi immagini di celerini armati di tutto punto che pisciano nei lettini dove fanno dormire i figli e distruggono ogni cosa.

Ma è proprio da questa paura, in realtà, che è necessario ripartire: con chi ha la faccia come il culo, infatti, non c’è logica che tenga mentre la rabbia liberata nei loro confronti è senz’altro più efficace. Questa è la materia prima con la quale ricostruire rapporti di forza favorevoli all’insorgenza popolare, altrimenti il celerino è già lì che aspetta agitando il manganello in attesa di nuove albe e, inevitabilmente, di altre famiglie da sgomberare. Ma questo non è certo tutto, e non è soltanto di lotta per la casa che si sta parlando, anzi. Perché sarebbe ingenuo pensare che il funerale più spettacolare a cui stiamo assistendo sia quello tributato a Don Vittorio, pace all’anima sua. Il funerale che ci tocca, cioè il nostro funerale!, è quello a cui la cricca piddina sta sottoponendo tutto ciò che possa puzzare di bene comune, di welfare e di diritti sociali. E voi, ora che la scuola è stata azzerata, la sanità resa di fatto a pagamento, l’acqua ceduta ai privati, la possibilità di avere un tetto sulla testa affidata alla sola possibilità economica delle famiglie, il territorio sventrato da ogni genere di opere inutili e dannose (a chi le trivelle, a chi le discariche, a chi le radiazioni dei ripetitori, a chi i gasdotti, a chi le linee ad alta velocità)… non vi siete accorti di essere stati invitati?

– – –

(*) Zadruga: Istituzione di carattere gentilizio che si incontra presso gli Slavi meridionali fin dall’epoca anteriore al loro stanziamento nei Balcani (sec. 6° e 7°). Può definirsi come una comunità rurale di vita, di beni e di lavoro tra famiglie e persone legate da un vincolo di parentela, che riconoscono l’autorità di un unico capo (kućegospodar, starješina, domaćin). Persona morale di diritto privato, questa comunità ha costituito la base del diritto di famiglia degli Slavi meridionali; sul finire del 19° sec. le z. erano composte da 20 a 30 membri. Stretta dagli sviluppi economici e sociali contemporanei (rapporti capitalistici nelle campagne, economia monetaria, specializzazione agricola), l’istituto della z. si è formalmente esaurito all’inizio del 20° sec., anche se alcuni studi antropologici contemporanei (R. Hammel, Alternative social structure in the Balkans, 1969) ne hanno dimostrato la vitalità ancora a metà degli anni 1960.

Di cosa si parla quando si parla della guerra contro i poveri combattuta dal governo Renzi

Rispetto al 2004, pare che i furti negli appartamenti (lo dice il Censis) siano aumenti del 127%. Una stima comprensibile se si tenesse conto all’indiscutibile aumento della fame, riscontrabile anche “a occhio” in questo paese. Come reagire, quindi, al problema che, proprio sull’onda della fame, sta evidentemente spingendo sempre più persone verso l’opzione individuale dell’illegalità, magari a scapito dell’alternativa sociale offerta dalla lotta?

Il governo non ha dubbi: con la riforma del codice penale, la pena minima per i reati di “furto in abitazione e furto con strappo” (art. 624-bis) passa da uno a tre anni, con severe limitazioni nella valutazione di eventuali circostanze attenuanti. Il discorso è analogo anche per i reati di rapina e di rapina aggravata, la cui pena minima è innalzata, rispettivamente, a quattro e a cinque anni contro i tre e quattro anni previsti dal codice vigente.

Diverso, ovviamente, è ciò che si sta prevedendo per il reato di tortura, tornato “di moda” dopo la condanna emessa nei confronti della polizia italiana dalla Corte europea per i diritti umani per i fatti della scuola Diaz e velocemente espulso dalle luci della ribalta. In realtà, gli abusi consumati tra le quattro mura delle carceri e delle prigioni nostrane potranno continuare indisturbati, forti dei segnali lanciati dall’alto. La stessa Commissione Giustizia che usa il pugno di ferro per colpire ladri e rapinatori, infatti, indossa il guanto di velluto e, stravolgendo il testo elaborato dalla Camera, rigetta l’idea di raddoppiare i tempi di prescrizione e riduce da quindici a dodici anni il massimo della pena prevista per i torturatori.

Le scelte governative, da questo punto di vista sono coerenti: se i reati frutto della fame devono essere colpiti senza pietà riempendo le carceri con nuove masse di proletari, bisogna tutelare l’azione violenta e persino la tortura commessa dal personale in divisa per tenere sotto scacco i fenomeni di insorgenza sociale. Con il contributo del ministro Andrea Orlando, intanto, la guerra contro i poveri dichiarata dal governo Renzi continua.